0.2│Come gli artisti maledetti
Se fosse esistito un premio per i migliori bugiardi al mondo, Kyoka Jiro si sarebbe autoincoronata a mani basse.
Da anni, o forse da tutta la vita, la sua esistenza si basava sulle menzogne. Ma che importava? Non era mai stata una di quelle persone che sono sempre sincere o che credono finiranno in paradiso o nell'inferno. Ammesso che esistesse, ci sarebbe andata anche subito, all'inferno, tanto la vita reale non era molto diversa. Quindi, che importava se mentiva in continuazione?
A questo pensava mentre, appoggiata di schiena al palo della luce sul tetto della scuola, si godeva la terza sigaretta della giornata. Osservò il fumo chiaro uscire dalle sue labbra e levarsi in aria, in contrasto con il cielo plumbeo di quel sabato mattina come tanti. Chiuse gli occhi. La brezza fresca contro il viso, la sensazione di rilassamento indotta dalla nicotina, le chiacchiere idiote di Denki e Hanta in sottofondo.
La magia finì in fretta. Buttò la sigaretta terminata a terra e la spense calpestandola con uno dei suoi anfibi rigorosamente neri lucidi, con la zeppa e le borchie.
Si sedette accanto a Denki. Ne voleva ancora. No, ne aveva bisogno. Volere e necessità erano due cose diverse, lo aveva sperimentato a sufficienza sulla propria pelle.
«Ehi!» protestò l'amico quando si sentì sottrarre la sigaretta dalle dita.
Troppo tardi. In un istante se ne impadronì e fece due tiri abbondanti, per poi riporgliela tra le labbra.
«E con questa, siamo a due pacchetti e sei sigarette che mi devi» le fece notare «Praticamente quaranta».
«Cinquanta, bro» lo corresse Hanta. Il biondo non era mai stato bravo nei calcoli. «Ogni pacchetto ne ha venti, venti per due fa quaranta, più sei quarantasei, quindi per approssimazione è più vicino a cinquanta che a quaranta» spiegò pazientemente. «Che poi abbiamo perso il conto di quante tra queste ci ha prestato Bakubro».
«In fondo lo sa anche lui che non gliele restituiremo mai» ridacchiò Denki «Specie se una certa piccoletta continua con questi ritmi da fumatrice incallita».
Kyoka ringhiò infastidita e sfuggì al braccio dell'amico che nel frattempo l'aveva avvolta per le spalle.
Non era stupida. Almeno di certo non più di Denki. Ci era arrivata anche lei che non poteva continuare così, che non faceva bene alla sua salute e altre cose da moralisti che parlano senza sapere, ma non ci poteva fare niente, ormai era dipendente da quella roba. Prima il cibo, adesso quella merda: il suo corpo non sembrava riuscire a vivere senza sviluppare una dipendenza da qualcosa. Anzi, era la sua mente, più che il suo corpo e i suoi capricci, il vero problema alla base, e quella non si curava facilmente.
«Ha ragione, sis. Stai fumando come un turco ultimamente. Che poi, perché proprio i turchi?» aveva ripreso intanto Hanta, con il modo tutto suo di intercalare.
E quel cretino di Denki lo assecondava. «Bella domanda. Io ho un amico turco. È simpatico. E non fuma. Quindi non so perché si dice così».
«Che poi, allora un turco fuma come un italiano?»
Li squadrò scettica. Non avrebbe mai smesso di stupirsi dell'assurda serietà con cui conducevano quei discorsi ai livelli dei bambini dell'asilo. Ed erano sobri. Magari esisteva un premio anche per quello.
Lasciò che continuassero quella conversazione dalla dubbia sensatezza senza che si curassero di lei. Si spostò e sedette sul cornicione del tetto, esattamente dove esso curvava in un angolo. Infilò le gambe esili tra le maglie della rete metallica e le dondolò nel vuoto per un po', senza un motivo preciso, guardando distratta le macchine e i mezzi pubblici che giravano giù per le strade.
Poi si alzò e scostò la rete nel punto in cui chissà chi l'aveva rotta anni prima e non era mai stata riparata. Se ne stette lì, aiutandosi con le braccia a tenere i due pezzi di rete separati abbastanza da permettere al suo minuto corpo di starci in mezzo, sporgendosi leggermente in avanti e fissando un punto indefinito sotto di sé.
Si ricordò delle vacanze al mare che faceva da piccola, di quando i suoi genitori la portavano a passeggiare e le tenevano la mano mentre camminava sul muretto che separava la strada dalla spiaggia. La differenza era che adesso non c'era nessuno al suo fianco a tenerla per mano.
Non era una persona malinconica, sapeva che non si potevano riportare indietro le lancette dell'orologio e in ogni caso non aveva avuto un'infanzia orribile, ma nemmeno incantevole. Insomma, quel ricordo le era venuto in mente a caso e basta, non perché lo rimpiangesse particolarmente. In quel periodo faceva pensieri e viaggi mentali contorti che spesso non portavano da nessuna parte. Ma che importava?
«Kyoka, che cazzo fai?!»
Si sentì afferrare da dietro, all'altezza della vita, e prima di rendersene conto era giù dal cornicione, sul pavimento del tetto, di nuovo al sicuro all'interno dello spazio delimitato dalla rete.
«Che cazzo!» ripeté dietro di lei quello che dalla voce disperata doveva essere Denki. «Ti perdiamo di vista un secondo e guarda cosa succede!»
«Lasciami!» Iniziò a scalciare come una forsennata per liberarsi dalla presa dell'amico che la teneva ancorata al suo petto. «Ti ho detto di lasciarmi!»
«Ok, ok. Ti lascio, ma calmati».
Finalmente poté allontanarsi di un passo e voltarsi a fissarlo con astio. L'aveva spaventata a morte prendendola così all'improvviso e inoltre non le piaceva quel tono accondiscendente. Come se avesse bisogno di un cazzo di babysitter, come se non sapesse badare a sé stessa.
«Tutto bene?» riprovò lui, preoccupato. In un gesto automatico le posò le mani sulle spalle.
Se lo scrollò di dosso, facendo un altro passo indietro. «Non toccarmi».
Ritrasse le mani nelle maniche del giubbotto di pelle che gli stavano lunghe e incrociò le braccia, in chiaro segno di chiusura. Puntò lo sguardo in basso, sui suoi stivaletti, senza dire altro. Le gambe, ricoperte da delle calze troppo leggere e dei pantaloncini di jeans, si muovevano alternativamente, non per il freddo ma per il nervoso. Prese a mordersi l'interno della guancia destra fino quasi a sentire il sapore del sangue e si sforzò di fare respiri profondi. Per una volta Denki aveva ragione, doveva darsi una calmata.
Furono la campanella e poi Hanta, accorso poco dopo Denki, a riempire il silenzio.
«Kyoka, ci hai fatto preoccupare. Si può sapere che ti è preso?»
Quando la chiamavano per nome, significava che erano davvero seri, cioè raramente, e adesso era proprio una di quelle volte.
«Non stavo facendo niente di male. Non volevo mica buttarmi giù dal tetto, nel vuoto».
«Quando parli così mi spaventi. Non capisco se sei seria o ironica» ammise il moro.
«E allora metti in moto quella tua testa bacata» rispose velenosa, senza collegare la bocca al cervello prima di parlare. «Sto bene, dannazione. Smettetela di ingigantire le cose e comportarvi come delle cazzo di guardie del corpo. Perché non mi lasciate in pace?!»
I suoi occhi incontrarono quelli mortificati di Denki e Hanta, poi quelli verdi di Izuku. Il compagno di classe, davanti al cestino a un paio di metri di distanza, distolse subito lo sguardo e si fermò a fissare qualcosa che teneva in mano, probabilmente qualche cartaccia. Perlomeno non sembrava interessato a origliare.
Era un copione che Kyoka aveva visto ripetersi spesso: quel ragazzo si perdeva molto facilmente a pensare e si sconnetteva spesso dalla realtà. In quest'ultimo aspetto non erano poi così diversi, solo che lui si estraniava pensando troppo, lei invece lo faceva non pensando affatto, annebbiandosi la mente in altri modi meno salutari.
Capì che non era il caso di continuare la sua scenata. Anche perché doveva riordinare le idee prima di dire altro di cui pentirsi. Brontolò che dovevano tornare in classe e si incamminò senza troppe cerimonie, lasciandosi alle spalle i due amici. Loro la seguirono in religioso silenzio. Ormai erano abituati alla sua lingua tagliente, ma ciò non implicava che non ci rimanessero male a volte.
Giunsero in classe in ritardo. Nulla di nuovo. La docente di arte era al computer, seduta al banchetto accanto alla cattedra, a cercare qualche immagine da proiettare sulla lavagna interattiva, perciò passarono inosservati, o forse furono ignorati volontariamente. Faceva sempre favoritismi quando si trattava di Denki e Hanta, così Kyoka ne approfittava.
La professoressa Kayama aveva evidenti bisogni di attenzione e di sentirsi ancora giovane come un adolescente. Era una sorta milf e quei due idioti con gli ormoni sballati erano l'ideale fonte di ammirazione. Per fortuna non c'erano state molestie o altro di illegale, solo qualche sguardo allusivo e favoreggiamento nei voti.
Mani in tasca e occhi bassi, si trascinò al banco. Si stava per sedere quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Era di nuovo Denki, che la affiancò e le sussurrò qualcosa all'orecchio sottovoce prima di recarsi al suo posto, esattamente accanto al suo. «Non farlo più, Kyoka, per favore».
Sbuffò. Gli aveva appena detto di non farne una tragedia, e lui? Insisteva. Perché gli importava tanto di quello che faceva?
Passò l'ora a sfogliare il libro di storia dell'arte, ignorando Kayama che sfilava tra i banchi nei suoi abiti troppo aderenti blaterando qualcosa sul sublime secondo gli artisti romantici. Non che non le interessasse, era la sua materia preferita, ma le piaceva di più concentrarsi sulle biografie degli autori. In fondo l'arte era legata alle vite dei suoi creatori, volenti o nolenti.
Le interessavano soprattutto le vicende avventurose e spericolate di artisti non capiti al loro tempo e spesso ritenuti pazzi, come Caravaggio, Van Gogh, Dalí. Lei, invece, li capiva e a volte si sentiva capita da loro, anche se ormai erano belli che sepolti metri e metri sotto terra da diversi decenni o addirittura secoli. Si sentiva un po' come quegli artisti maledetti, con la loro vita tragica, l'inquietudine che li divorava da dentro e la necessità di esprimerla attraverso la loro arte, che tuttavia spesso non era un rimedio a tutto.
Circa una pesante ora di matematica e relative imprecazioni dopo, era alla fermata dell'autobus, a gustarsi la quinta sigaretta.
L'amica Momo, seduta sulla panchina accanto a lei, le stava raccontando della chiacchierata appena avuta con alcuni altri rappresentanti d'istituto, dopo la riunione improvvisata all'intervallo. Stavano organizzando una festa agli ex alunni, o qualcosa del genere, perché era una sorta di tradizione che verso dicembre venissero nella loro vecchia scuola a salutare qualche professore.
Dal canto suo, Kyoka era rimasta una mezz'oretta a cazzeggiare in cortile con i ragazzi, con in sottofondo il via vai degli studenti delle altre classi che si catapultavano fuori da scuola e finalmente tornavano a casa, a piedi, accompagnati da qualcuno in auto o correndo per non perdere i mezzi pubblici. Ecco perché adesso la fermata era pressoché deserta.
Momo si gasava sempre quando c'era da programmare qualche evento e la rasserenò vederla entusiasmarsi per qualcosa che le piaceva. Era sempre super impegnata ma molte attività appariva farle più per dovere che per sincero interesse.
Come la danza classica, per cui quel pomeriggio avrebbe partecipato a un allenamento extra a scapito delle prove di musica con i suoi amici, con i quali si era scusata fin troppo come al solito. Di recente le aveva confessato che non le dispiaceva il suo ruolo preminente nelle coreografie e nemmeno la squadra a livelli agonistici, forte e unita, ma le sembrava di continuare quello sport più per compiacere i genitori e ne avrebbe fatto a meno, banalmente per avere un po' di tempo libero nella sua pienissima agenda in cui tutto era programmato nel minimo dettaglio.
Erano così diverse, loro due. Non sapeva esattamente perché Momo continuava ad esserle amica. Di certo i suoi genitori per bene e con la puzza sotto il naso non avrebbero approvato l'amicizia con una poco di buono come lei, che al contrario passava le giornate a bighellonare in giro e procrastinare lo studio all'inverosimile. Però Momo non era così.
Si sentì osservata mentre sbuffava l'ennesima nuvola di fumo della giornata. Con apprensione, questo sì, ma non rimprovero. La cosa che la faceva sentire al sicuro con Momo era proprio che non giudicava. Per esempio, avrebbe esposto fino allo sfinimento tutti i danni delle sigarette, forte della sua conoscenza enciclopedica, e avrebbe mostrato la sua preoccupazione, però alla fine avrebbe lasciato a lei la scelta di fare quello che voleva.
«Mi rileggi quel pezzo del tuo tema?» le chiese all'improvviso. «L'ultima parte. Mi è piaciuta molto».
L'amica sorrise e annuì, facendo oscillare i capelli scuri e lisci raccolti nella solita coda di cavallo da un fiocco nero, lo stesso colore dei suoi occhi a mandorla. Si era abituata alle sue richieste casuali che spesso spuntavano dal nulla, e poi le faceva piacere che qualcuno apprezzasse ciò che aveva scritto nella verifica di filosofia riconsegnata da Aizawa alcune ore prima.
Kyoka ascoltò la sua voce melodiosa rileggere e ripetere quel concetto che l'aveva affascinata tanto. Attraverso la sua prosa sofisticata e una scelta impeccabile delle parole, perché non a caso era la prima della classe, spiegava che ognuno di noi è fatto di tesi e antitesi: le nostre passioni, i nostri sogni che si scontrano con la realtà, gli aspetti del nostro carattere che ci piacciono e quelli che vorremmo nascondere. Però non sempre è facile tenere tutto questo insieme in una sintesi.
Ad alcune persone riesce più semplice indossare una maschera. Mostrare solo i lati che ritengono positivi e graditi agli altri, mentre nascondono sotto di essa le proprie antitesi e contraddizioni che invece ci caratterizzano e rendono unici. Questo modo di vivere equivale a una mancata sintesi, quindi a non accettare sé stessi, a non amarsi. Ed è più diffuso di quanto si pensi.
La sua parte preferita era quella conclusiva. Momo poneva una domanda scomoda e che non arrivava a una risposta al problema, come in un film dal finale aperto. Possiamo davvero arrivare alla sintesi, se noi per primi non accettiamo le nostre ombre?
Ovviamente il tutto era condito con termini specifici e citazioni agli studi di tizi che mai aveva sentito nominare, perché non erano in programma ma Momo approfondiva sempre per conto suo anche quando non richiesto. In ogni caso, il succo di tutto quello sproloquio colto le sembrava contenuto proprio in quell'ultima frase. Difficilmente conosciamo tutte le sfaccettature delle persone, specie le più negative; c'è sempre qualcosa che tacciono, dissimulano, nascondono.
Il discorso valeva anche per loro due. Magari era questo ciò che le rendeva simili, il loro punto di congiunzione: indossare maschere e mentire. Era stata la necessità di confidare a qualcuno, nella speranza di essere capite, i propri aspetti più profondi e spaventosi che le aveva fatte incontrare e tuttora le teneva unite.
«Anche tu hai fatto un buon tema» commentò poi la corvina.
«Grazie» Kyoka bofonchiò timidamente in risposta. Non ci credeva tanto, ma almeno un po' era soddisfatta. Aveva parlato dell'arte, della capacità degli artisti di sintetizzare i loro drammi ed emozioni in un dipinto o una canzone. Era finita un po' fuori tema, però aveva comunque raggiunto la sufficienza e ci aveva messo un pezzetto di sé stessa.
Spense la sigaretta finita e quella volta ebbe la decenza di alzarsi e buttare la cicca nel cestino poco distante. La presenza dell'amica, sempre così diligente e, tra le altre lodevoli cose, con a cuore la questione ambientale, le ricordò che bastava poca fatica in più per comportarsi come una persona civile.
«Quindi torni a casa? Sicura che non vuoi venire al bar qui vicino? Posso offrirti io il pranzo» le disse Momo quando tornò a sedersi, o meglio stravaccarsi, sulla panchina.
Aveva quel particolare modo indiretto di accennare alle cose senza urtare la sensibilità altrui.
Era ricca sfondata, c'era poco da girarci intorno. Lo si capiva dalle piccole cose. Il sorriso perfetto, l'abbigliamento di marca, l'autista privato e la governante alla sua enorme villa, solo per citare quelle più superficiali. Eppure non se ne vantava e se le sfuggiva era sempre per una buona causa, come aiutare gli amici. Allo stesso modo, era palese che avesse intuito il suo problema con il cibo, di cui non le aveva mai parlato esplicitamente, ma non faceva domande invadenti.
Kyoka a volte apprezzava la sua discrezione, altre invece la faceva incazzare, a seconda di come le girava. Avrebbe voluto che fosse più insistente, che facesse qualcosa di concreto. Non tanto nei suoi confronti, per aiutarla a uscire dalla torre d'avorio e bugie che si era costruita attorno e in cui sarebbe anche rimasta per il resto della vita, quanto nei riguardi di sé stessa. Non sapeva ribellarsi ai genitori e alle loro costrizioni, non sapeva dire di no a un compagno che voleva copiare i compiti, non sapeva rifiutare la richiesta di un favore anche se le portava via tempo ed energie, anche a costo di arrivare a casa stanca morta.
Forse dietro a quella facciata di gentilezza nascondeva la mancanza di spina dorsale, della capacità di imporsi e di sgarrare dalle regole ogni tanto. Non l'avrebbe mai saputo finché avrebbe portato quella maschera, ma non poteva pretendere che se ne liberasse facilmente quando lei non faceva altrettanto. E neanche in quella circostanza si sentì pronta a farlo.
Scosse la testa in segno negativo e, come aveva immaginato, Momo non infierì ulteriormente. Combinazione astrale volle che l'autobus arrivasse proprio in quel momento, così la salutò scoccandole un bacio sulla guancia e augurandole un buon allenamento.
Tornata a casa, mangiò una mela e sonnecchiò sul divano per qualche ora. Poteva prendersela comoda, perché entrambi i genitori erano via per lavoro. Erano stati assunti per suonare dall'altra parte della regione, per un evento abbastanza rilevante di cui aveva già dimenticato i dettagli. L'importante era che aveva casa libera fino a lunedì, che poteva rimandare le faccende domestiche e comportarsi come voleva, tipo girare scalza dopo la doccia anche se avrebbe bagnato dappertutto e ascoltare la musica ad alto volume anche se i vicini si sarebbero lamentati.
A proposito di musica, arrivò l'ora delle prove con la band scolastica, che alla fine era composta da nientemeno che alcuni tra i suoi più cari amici. Li vedeva così spesso che ormai, odiava ammetterlo, erano diventati la sua seconda famiglia.
Si pettinò velocemente i capelli tinti di viola scuro, corti con la frangetta asimmetrica, afferrò la custodia con dentro il suo fidato basso, regalo dei genitori per il suo quattordicesimo compleanno, e uscì di casa diretta a scuola. Dovette attendere l'autobus a scapito di arrivare una decina di minuti in ritardo, perché le era già venuto il fiatone al solo percorrere neanche troppo di fretta le scale del condominio.
In teoria, la sala prove della scuola era chiusa al sabato pomeriggio. In pratica, il professore di inglese Hizashi, che per qualche strano motivo teneva anche i corsi di musica, rubava sempre le chiavi e lasciava loro l'aula per suonare anche fino a tarda sera.
Sospettavano che avesse corrotto i colleghi e forse anche il preside Nezu grazie alla sua simpatia, altrimenti non si spiegava perché non fossero ancora stati scoperti. Di certo non facevano poco rumore, le luci accese erano chiaramente visibili dalle grandi vetrate quando calava il buio e non mancavano telecamere che circondavano la scuola.
La musica era una di quelle poche cose che la rilassava e, soprattutto, in cui non doveva mentire.
C'era sempre stata nella sua vita, fin da quando ne aveva memoria. Incoraggiata dalla famiglia, da piccola aveva imparato a suonare vari strumenti e a cantare e non riusciva a immaginare di vivere senza.
Finché ci sarebbe stata musica nella sua vita, la vera essenza di Kyoka Jiro non si sarebbe spenta, anche se custodita al centro di un labirinto di menzogne.
Si vergognava ancora a suonare in pubblico, ma con i suoi amici era tutta un'altra cosa. E mentre era lì con loro, con Denki che si concentrava con tutto sé stesso a districare i fili che collegavano gli strumenti agli amplificatori, con Katsuki che picchiava alla massima potenza sulla batteria giusto per il gusto di fare rumore e di colpire qualcosa che non fosse un qualcuno mentre attendeva che il silenzioso Fumikage finisse di accordare la chitarra, e con il professore che li guardava da lontano sorridendo, pensò che le sarebbe piaciuto vivere così per sempre. Viaggiare per il mondo con quella assortita compagnia, sopravvivere di musica, sogni e dell'illusione che l'arte potesse essere una definitiva via di fuga dai problemi. Magari senza l'aspetto illegale di ciò che stavano facendo e anche con gli altri amici Momo, Hanta ed Eijiro.
Quest'ultimo, come se avesse colto i suoi pensieri a chilometri di distanza, le mandò un messaggio in cui proponeva a lei e gli altri di trovarsi a bere qualcosa quella sera.
Lo vide appena uscita da scuola. Ormai Fumikage se n'era andato, e in ogni caso era abbastanza coscienzioso da rifiutare data la compagnia che non prometteva mai nulla di buono, così estese l'invito ai rimanenti Denki e Katsuki. Il primo non se lo fece ripetere due volte, anzi nemmeno le fece finire la frase, mentre il secondo si fece un po' pregare prima di accettare. In fondo si era affezionato a loro negli anni, anche se erano delle teste di cazzo come amava ripetere, solo era troppo orgoglioso per ammetterlo.
Tempo poche ore e Kyoka già faceva fatica a mettere un piede davanti all'altro.
«Aggrappati a me, piccoletta».
«Ce la faccio. Non mi serve il tuo aiuto, principe dei miei stivali».
«A me non sembra. Ma quanto hai bevuto? Lo sai che non reggi l'alcol».
Kyoka si lasciò sfuggire un verso esasperato, priva della forza mentale per continuare la discussione. Fece per tornare ai divanetti dove sedevano Eijiro, Katsuki, Hanta e Mina, l'amica che li aveva raggiunti in quel locale in seguito, ma un capogiro e il familiare sapore acido in bocca la costrinsero presto a cambiare idea. Doveva vomitare.
Quel testardo di Denki non si decideva ad andarsene, così se lo portò appresso fino ai bagni, o meglio fu lui a portarla, sostenendola con un braccio attorno alla vita. Si rinchiuse in una cabina e cominciò a rimettere l'anima.
Passò un tempo indefinito abbracciata alla tavoletta del cesso, ormai un altro suo passatempo preferito. Quando uscì, trovò l'amico ancora lì. Non le piaceva l'idea che aveva ascoltato la sua tosse e i conati di vomito, ma era già bello che non avesse insistito a entrare con lei.
«Ehi. Pensavo fossi morta» fece lui, rubandole il ruolo della sarcastica del gruppo. O forse lo intendeva davvero. Non riusciva a capire quanto fosse brillo, ma di certo meno di lei.
«Denki, questo è il bagno delle ragazze» notò stancamente.
«E allora?»
Sospirò. Si spostò a un lavandino e si sciacquò la bocca. Si sentiva in soggezione, con quel suo sguardo fisso addosso. Conoscendolo in realtà stava solo pensando a qualcosa di stupido, tipo se i pinguini hanno le ginocchia o perché le pizze sono rotonde, le mettiamo in scatole quadrate e le mangiamo in forma triangolare. Solo per citare la punta dell'iceberg dei discorsi tra lui e i suoi amici da ubriachi.
Una volta finito, si appoggiò con il sedere al lato del lavandino e incrociò le braccia al petto. «Cosa?»
«Cosa?»
«È evidente che stai per sparare qualche stronzata, quindi avanti, dilla».
Denki esitò un attimo. Dopo disse, sommessamente: «A me importa».
«Cosa?» stavolta fu Kyoka a ripetere come un'idiota.
«Ho detto che a me importa». Sì avvicinò fino a posizionarsi davanti a lei. Poggiò le mani al lavandino, bloccandole ogni via di fuga.
«Che stai facendo?» domandò in un sussurro. Aveva un'espressione determinata come poche volte l'aveva vista. Anche se la testa che pulsava senza tregua non collaborava granché, dedusse che stava per dirle qualcosa che non le sarebbe piaciuta e non le avrebbe permesso di andarsene facilmente.
«Cerco di fare un discorso serio».
«Pff» le sfuggì una risatina «Serio? Tu?»
«Kyoka» la richiamò severamente, interrompendola prima che potesse inventarsi qualche insulto e farlo desistere. Prese un respiro profondo. «Dici che ingigantiamo le cose, ma sei tu che le sminuisci. Minimizzi e menti sulla tua salute, sul tuo stato d'animo, sui tuoi atteggiamenti autodistruttivi. Sono stupido, questo sì, ma non cieco. Vedo tutto questo e ci sto male, perché ti comporti come se non importasse. Invece importa, importa a me e importa perché sei tu».
La mente rallentata dall'alcol ci mise un po' a mettere insieme tutti i pezzi.
«Questa da dove l'hai presa, Baci Perugina o Tumblr?»
Stavolta il sarcasmo non la aiutò, infrangendosi contro il suo silenzio. Non sostenne il contatto visivo. Messa alle strette in quel modo, non poté che abbassare la testa e mormorare la risposta più sensata che le riuscisse.
«Io... Non so cosa dire, Denki. Lo... Lo apprezzo, credo. Ma non lo faccio apposta, mi viene naturale. Ci sono delle cose che non mi sento ancora pronta a raccontare».
«Ok. Non sentirti costretta, fai quello che ti senti. Volevo solo farti sapere che sei importante. E che non hai bisogno di mentire, non con me».
Quelle poche semplici parole le fecero venire i brividi. Perché spesso dimenticava che Denki fosse capace di tanta dolcezza oltre il suo atteggiarsi da idiota. Perché la stava rassicurando, la stava facendo sentire compresa, le stava dicendo quello che le era stato detto troppe poche volte, quello di cui aveva bisogno forse da tutta la vita. Perché sapeva che non poteva abbattere la sua fortezza composta di anni e anni di bugie, però ci stava provando, per davvero.
Sbatté più volte le palpebre eppure gli occhi non volevano saperne di smetterla di pizzicare. Suo malgrado, in pochi secondi si ritrovò scossa da tremolii e a lottare invano contro le prime lacrime. «Vaffanculo Denki» borbottò mentre se le asciugava nelle maniche della felpa oversize. Almeno era nera, quindi non si sarebbe notato quanto si stava sporcando di trucco, ma non era quella la priorità nei suoi pensieri.
«Scusa, non volevo farti piangere!» esclamò lui, impanicato «Non mi sembrava di star dicendo cose tanto orribili!»
«Sei uno scemo». Non si sarebbe mai stancata di ripeterglielo.
«Beh, modestamente».
Il suo tono orgoglioso le fece scappare una risatina, un'altra, questa volta sincera, in uno sbalzo d'umore non dovuto unicamente all'alcol.
Kyoka si staccò dal lavandino per attaccarsi a lui, in una richiesta silenziosa di un abbraccio che non tardò ad arrivare. Quando erano soli le riusciva più semplice mostrare un briciolo di affetto, qualche rara volta. Se ne stette lì, con la guancia appoggiata al suo petto, a farsi accarezzare i capelli e ad ascoltare il ritmo rassicurante dei battiti del suo cuore.
Finché decise di assecondare la malsana idea che le balenò in testa, senza preoccuparsi delle conseguenze. Si sciolse dall'abbraccio e lo afferrò per la maglietta. «Fanculo» sussurrò più a sé stessa prima di alzarsi in punta di piedi e premere le labbra sulle sue.
Si stava comportando da pazza e non solo per effetto della sbronza, sapeva di vomito e pianto e doveva avere l'aspetto più simile a un panda che a un essere umano, eppure il bacio fu ricambiato. Lui sapeva di vodka alla frutta mischiata a qualche altra bevanda non meglio identificata, quindi erano quasi pari. Dovette riconoscere, ancora una volta, che almeno a pomiciare era bravo.
«Kyoka, aspetta» Denki bisbigliò mentre si staccava per riprendere fiato «Sei sicura? Mi odierai dopo... questo. A me sta bene, ma a te?»
Puntò risoluta gli occhi nei suoi color nocciola, con qualche pagliuzza dorata qua e là. E poi, come la migliore delle sottone, lo implorò di continuare.
Si sedette sul lavandino e lo attirò a sé, nello spazio tra le sue gambe, avvolgendogli le braccia attorno al collo. E mentre permetteva di essere toccata a sua volta sul viso, tra i capelli, sul resto del corpo, dopo tempo Kyoka si sentì finalmente libera dal bisogno di mentire e dal desiderio di dissolversi tra le proprie bugie.
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