8 │Consuming all the air inside my lungs, ripping all the skin from off my bones
♫
Cause you are the piece of me
I wish I didn't need
Chasing relentlessly
Still fight and I don't know why
Sam Tsui, K. H. Schneider,
Clarity (cover)
♫
Una settimana prima di
quel giorno,
gennaio.
Da piccoli ti dicono che l'amore è la cosa più bella del mondo.
È quello che la tua famiglia prova per te, è quello che c'è nelle più piccole cose come un gesto gentile verso uno sconosciuto, è quello che permette a noi stessi esseri umani di sopravvivere.
Ma poi cresci, e le cose cambiano e capisci che non è sempre così.
Capisci che c'è anche qualcosa di sbagliato, nell'amore, se porta a litigi silenziosi e oggetti che volano in casa nella convinzione che tu non stia guardando di nascosto, tuo padre che non torna più e la mamma che piange chiusa in bagno per non farsi sentire.
Capisci che, forse, esistono forme diverse di amore e non tutte sono buone. A volte è a senso unico, altre volte è preso come giustificazione ed è altro, alcune volte ancora fa più danni che bene, ti rompe in più frantumi di quanti possa rimetterne insieme.
Capisci che non è per tutti. Che non è per te. Guardi le coppie felici e pensi che vorresti qualcosa di simile, di diverso dall'affetto di una madre per quanto possa essere forte. Qualcosa fatto di sguardi complici, mani che si sfiorano, di cercarsi, pelle contro pelle, di corpi che si fondono mentre si intrecciano le anime. Ma sai che non puoi averlo.
Io ho imparato che per me l'amore è quello che ho cercato tutta la vita. Da quando da bambino seguivo il mio migliore amico nelle sue avventure ad adesso che tutto ciò che ho fatto, in fondo, è stato per farne ancora parte. Per essere un pezzo di lui come lui è un pezzo di me. L'ho sempre rincorso, stupidamente senza rendermene conto, fino ad adesso che l'ho realizzato ed è esploso tutto. Immagino che non potessi tenermelo dentro per sempre.
Ho imparato che per me non sono le farfalle nello stomaco ma una vera e propria guerra lì dentro, un incendio e il familiare pungere alla gola, gli occhi che bruciano e vomitare quel poco messo sotto i denti.
Ho imparato che da piccoli ti mentono e non ti dicono che fa anche così male.
O forse sono soltanto io che dovrei rassegnarmi al fatto che non dovrebbe essere così, che il mio è qualcosa di malato e di marcio e di impossibile e dovrei davvero solo...
Un altro conato mi ricostringe con la testa sopra il water, in un loop che inizio a conoscere fin troppo bene.
Stavolta non c'è mia madre ad accarezzare la schiena del me bambino e dirmi che passerà, risposerò qualche giorno e tornerà tutto a posto, o la mano fresca di Todoroki-kun a tenermi la fronte.
Solamente io, le dita che tremano strette alla tazza e l'odore acido di vomito insieme a quello dei girasoli, con in sottofondo ovattate le chiacchiere dei miei compagni che si preparano per l'allenamento nella stanza accanto.
Di solito il sabato è il giorno migliore della settimana.
Facciamo meno teoria e più attività pratiche su cui abbiamo carta bianca, per sfogarci con esercizi a scelta e combattimenti. Finiscono le lezioni. C'è il parlottare più spensierato negli spogliatoi, lo scambiarci consigli sulle tecniche dei quirk e idee su cosa mangiare dopo tutti insieme.
E poi ci sono io, bloccato in bagno come l'ultimo dei poveri stronzi, piegato in due su un cesso che rimetto l'anima.
Molto poetico.
Perciò, ecco, oggi il sabato mi piace di meno.
Tutto per un piccolo, minuscolo, minuscolissimo errore: girarmi di sfuggita verso il suo armadietto, prima mentre ci cambiavamo perché il suo gruppetto stava facendo un casino assurdo per non si sa neanche cosa.
Può darsi che non sia stato esattamente di sfuggita. Che abbia indugiato un po' troppo.
Sulla schiena nuda, su quelle spalle larghe e poi giù fino alla vita stretta, sui muscoli che guizzavano mentre afferrava la maglia del costume.
E poi su come non abbia fatto in tempo a metterla, impegnato a prendersela con Kaminari-kun per qualcosa di stupido che deve aver detto. Su come Kirishima-kun ha cercato di calmarlo con un'innocente, fraterna mano sulla spalla e su come lui l'abbia lasciato fare.
Come si lasciava toccare e lo faceva a sua volta, ghignando sicuro di sé che avrebbe fatto vedere durante l'allenamento chi aveva ragione e restituendo delle pacche ad entrambi, il suono secco che hanno fatto.
Un ultimo sputo prima di scuotere la testa e tirare lo sciacquone.
Osservo estraniato, dagli occhi socchiusi appannati per lo sforzo, lo schifo come se non fosse appena uscito da dentro di me.
La pozza verdognola con sprazzi di giallo e arancione che si ribalta su sé stessa, la decina di petali che galleggiano nel vomito mischiarsi con l'acqua, il disastro venire risucchiato e scomparire e magari potessi farlo con i miei stupidi pensieri.
Mi rialzo a fatica. Devo aspettare qualche secondo perché vedo a puntini neri prima di trascinarmi fuori dalla cabina e raggiungere il lavandino.
Mi sciacquo la bocca e finisce che immergo tutta la testa sotto l'acqua, per darmi sollievo dalla vampata di caldo dovuta alla febbre e, di nuovo, cercare di non pensare.
Tregua, tregua da tutto questo per favore per un po', solo per un po'...
Non mi importa di sbrigarmi che di là si staranno insospettendo della mia assenza, né del rumore sordo della porta che si spalanca e sbatte contro il muro.
O almeno, non mi importa finché non riconosco quei passi, e mi maledico per conoscerlo così bene anche nei particolari più insignificanti.
Mi rialzo di scatto, picchiando la testa contro il rubinetto. Tra un lamento e l'altro, nemmeno lo chiudo, non so che stropicciarmi gli occhi e spalancarli sulla figura che ora mi squadra di rimando accigliata.
"Che diavolo stai facendo lì così", la sua espressione parla da sé. Eppure non lo chiede. Lascia perdere e si avvia verso una cabina, in un silenzio che non è da lui.
Ma va bene così, mi dico. Quella che ho interiormente soprannominato la nostra ultima conversazione al muro delle scale ha avuto un che di surreale e non so quali effetti potrebbe avere parlargli ancora, considerato come mi ha ridotto un solo sguardo rubato negli spogliatoi. E poi, meno mi faccio vedere in queste condizioni e meglio è.
Però, si ferma.
Posso sentire i suoi occhi bruciarmi sulla schiena intanto che cerco di asciugarmi i capelli, li strizzo tra le dita mentre lotto con la macchinetta del getto d'aria e lancio pure uno starnuto perché stare sotto l'acqua gelata fino a perdere la cognizione del tempo è stata ufficialmente una pessima idea, come tutte le ultime nella mia vita del resto, e sospiro frustrato con i denti che sbattono perché la maledetta non funziona.
«Quei cosi fanno schifo. Toh.»
Neanche il tempo di capire che mi sta parlando e voltarmi cauto di un quarto, che mi lancia addosso qualcosa.
L'asciugamano che si portava in spalla mi finisce in testa.
Così, senza preavviso schiaffato in faccia e... Dio, Dio il suo profumo adesso è ovunque e mi sembra di annegare nel caramello e mi sento morire.
Faccio più in fretta che posso. Una veloce strofinata ai capelli e glielo ritendo subito senza osare guardarlo, anche perché sono occupato a nascondere il viso nell'altro braccio per cacciare altra tosse.
Il peso sulla mia mano scompare.
È vicino.
Kacchan è troppo vicino.
Ha mosso qualche passo, lento e quasi circospetto, e adesso è piazzato davanti a me.
«Deku...»
Non sembra voler dire davvero qualcosa e in ogni caso non lo sento, tra i colpi di tosse e i miei stessi stentati borbottii sul fatto che va tutto bene.
La testa riprende a girare.
Non so come, dal trattenermi al lavandino mi ritrovo accasciato addosso a lui.
Ci butta malamente l'asciugamano e mi afferra esclamando un «Deku» più allarmato. Mi sostiene e mi accompagna a terra con una delicatezza che non gli assocerei, o forse sto solo delirando.
Si accovaccia di fronte a me, in equilibrio sulle punte dei piedi, mentre io è già tanto se riesco a stare seduto decentemente contro il muro e a sentirmi le gambe che hanno ceduto, abbandonate aperte sulle piastrelle lucide.
«Oi.»
Indugia ancora un po' mentre mi riprendo, niente petali per fortuna, prima di infilarmi una mano tra i capelli. Un gesto non forte ma deciso con cui mi costringe ad alzare la testa.
Il dolore fisico proprio al centro del petto quando i miei occhi si incastrano nei suoi, una fitta che mi fa mancare un battito e il respiro.
«Sto... Sto be-»
«Non raccontarmi le cazzate.»
Ammutolisco.
La sua occhiataccia non ammette repliche e del resto ho a malapena la forza per respirare che mettermi a discutere non è di certo la priorità.
Non riesco neanche a ribellarmi quando alzo una mano per asciugarmi le guance e mi viene bloccata facilmente.
Questa arrendevolezza è strana da parte mia, anche lui se ne accorge.
Allenta la presa sul braccio che mi ricade mollemente sulle gambe e si fissa su di esso. Come se parlarmi fosse tanto ripugnante da non poterlo fare faccia a faccia per più di qualche secondo. Oppure sta solo cercando di esprimere qualcosa di difficile per lui.
Quando parla, lo fa a fatica e più con sé stesso. «Ti conosco, nerd. Più di tutti e di quanto voglio.»
Rialza la testa e mi punta un dito al centro della fronte.
Lo picchietta piano una, due, tre volte.
«Deku ha dei problemi nella sua testolina bacata. Se ne fotte di sé stesso e dice sempre che va tutto bene.»
Recita come un dato di fatto, che sa perfettamente da una vita, quasi più... morbido, così come il modo in cui si prende tempo e analizza ogni dettaglio del mio viso.
«Beh, a me non sembra», sentenzia sarcastico. «A te no? Che sono queste occhiaie, hah?»
Mi passa a malo modo un pollice sotto agli occhi, anche scacciando le lacrime. È ruvido e caldo.
«Non stai dormendo a dovere? Sei pure freddo, cazzo, tremi. Avrai la febbre, hai preso qualcosa? Guarda che per One For All non va bene un hero difettoso.»
Appoggia un attimo il dorso della mano sulla mia fronte.
La mia mente rallentata desidera solo che non lo tolga più.
Elabora, poi, i soliti termini, la solita cattiveria eppure in fondo si sta... preoccupando per me?
«Dai, muoviti che la Mummia si incazza», continua a brontolare mentre fa per alzarsi, «Fatti dare un esonero o quello che è, non rimanere qua a stare male in questo buco che sa di fogna, e che cazzo».
Appunto, il livello di eleganza è sempre quello, ma...
«Perché?» chiedo solo, stancamente. «Perché ti preoccupi? Non mi odiavi?»
Si corruccia. In qualche secondo cambia idea e si abbandona col sedere a terra in un tonfo.
Sta in silenzio, con il broncio di quando si sforza in qualcosa che non gli va e lo sguardo che vaga senza guardarmi davvero, più concentrato a seguire le fughe delle piastrelle alle mie spalle.
È proprio vero che a volte il suo atteggiamento non è che per nascondere l'insicurezza. Non sa cosa dire perché è consapevole che la domanda non è riferita solo a questo momento, è più profonda.
Non è convinto neanche lui della risposta, infatti, temporeggia come per decidere se vale la pena di degnarmi di una vera o no. «Vuoi un aiuto o no? Sembra che stai per morire.»
Sbuffo una risatina. Ironico come sia più vicino alla verità di quanto pensa.
La prende semplicemente come una reazione stramba delle mie e nemmeno commenta, troppo impegnato a fuggire dal guardarmi.
Non so di preciso cosa mi aspettavo.
Solo, mi basta che abbia il coraggio di fissarmi negli occhi e dirmi che non... che non mi ricambia e allora la smetterò davvero perché niente avrà più senso e...
«Deku.»
È come se una scossa attraversasse entrambi quando il rosso torna a intrecciarsi col verde.
«Senti,» riprende ma quasi insicuro, «io ci sto provando quindi puoi anche tu... Possiamo», la difficoltà con cui si corregge e usa il plurale, «Dimenticare? Lasciare perdere... quello che è successo. Ricominciare? Senza pensarci più».
Considera il mio silenzio una risposta affermativa. O forse non gli importa e basta.
Annuisce al suo stesso discorso, mugugna un «Bene» e che allora è meglio tornare di là senza ricambiare il mio sguardo che continua a cercare spiegazioni nel suo.
È davvero quello che vuoi, Kacchan?
Ricominciare da capo. Sì, sarebbe bello. Niente più incomprensioni, casini, pensieri scomodi. Però...
Però non si può. Non può chiedermelo all'improvviso come se fosse facile e io non posso permettermelo.
È ingiusto. A dirla tutta, mi sembra proprio una presa per il culo.
La fa semplice e non si vuole assumere le sue responsabilità anche se forse non sa di averle, o di averne così tante.
E da parte mia io ho imparato che non mi libererò mai da questi sentimenti che ci sono sempre stati, lì da qualche parte in attesa che li capissi e di distruggere ogni cosa. Non si può cancellare il tutto di cui parla, perché in realtà le radici ci sono da sempre e non potrei mai estirparle.
Ma non sono arrabbiato. Non ho le forze nemmeno per questo e sono soltanto... triste.
Disperato, è il termine più corretto.
Mi aggrappo a lui più del dovuto quando prova ad afferrarmi da sotto le spalle per tirarmi su. Complicandogli il gesto ma neanche troppo, la sua presa è forte e vorrei che non mi lasciasse.
Meno ferma è la sua voce che borbotta sul fatto che non mi reggo in piedi da solo. «Cazzo... Dai, ce la fai? Devo... Devo chiamarlo?» un attimo di esitazione e una nota più dura, «Coso. Bastardo a Metà».
Ma cosa...? Che c'entra Todoroki-kun adesso?
Scuoto forte la testa contro la manica della sua tuta.
Ma perché sei così idiota? Perché non lo vedi o non lo vuoi vedere, perché non capisci che voglio te stronzo?
La voce non vuole saperne più di collaborare. Sia per il casino che è attualmente la mia gola, sia per tutto il resto della situazione, credo.
Mi sforzo di non gravargli addosso a peso morto e stare dritto. Senza allontanarmi più di un passo.
Gli prendo una mano.
Kacchan sgrana gli occhi sulle mie dita che me la riportano sulla fronte e le labbra da cui sospiro di sollievo perché è così calda e le fitte tra le costole si calmano.
Stargli vicino mi fa sentire male, ma quando mi tocca passa. È come... È come se mi stesse guarendo. O di nuovo sto solo delirando.
«Sei gelido... Altro che esonero, subito in infermeria prima che congeli...»
Mormora qualcosa ma nemmeno l'ascolto più, nemmeno lui si ascolta concentrato su come faccio scivolare la mano, la guido ad accarezzarmi una guancia.
Ci inclino la testa sopra e mi concedo di chiudere gli occhi, per godermi un po' del calore che già non mi basta più.
Per qualche assurda logica che mi tocchi, o almeno che mi lasci fare, annulla il dolore. Forse il mio cervello malato lo interpreta come possibilità che mi stia amando?
«Deku...»
Lo trascino più giù.
Deve sentire come sta battendo forte il mio cuore, sembra voler uscire dalla cassa toracica per quanto sta impazzendo, io sto impazzendo.
Con gli occhi lucidi ricerco i suoi. Deve sentire, deve capire l'effetto che mi fa e che non potrei mai ricominciare rinnegando tutto perché...
«Deku cosa stai...?»
Non si allontana, però.
Lascia che mi abbandoni ancora contro il suo corpo. Testa su una spalla, nell'incavo del suo collo a riempirmi piano i polmoni di lui, braccia legate debolmente attorno alla sua vita.
È lui adesso a congelarsi. Il braccio piegato contro il mio petto si distende rigido lungo un fianco come l'altro e sento il suo respiro mozzarsi tra i miei capelli.
No non smettere, toccami, stringimi anche tu...
«Deku-»
«Ti prego.»
Affondo la testa ancora di più, abbraccio più forte in un ultimo sforzo disperato.
Sentimi, capisci, amami.
«Ti prego Kacchan.»
Non so per cosa sto pregando esattamente ormai, troppo cose, non so più niente.
Voglio soltanto che afferri la mia maledetta mano, che mi stringi e dici che andrà tutto bene anche se non mi puoi amare e io continuo a cercare anche solo un piccolo segno che tieni un pochino a me se proprio non puoi farlo, qualsiasi cosa perché sto impazzendo e voglio...
«Non... Non puoi, io non posso...»
Cosa? Cosa non puoi? Perché? È così difficile volermi almeno bene?
«Ho detto- Abbiamo detto di no», il suo sussurro trema, come le mani che mi allontanano alle mie deboli proteste, assurdamente delicate nonostante tutto. «Non può funzionare. Non possiamo, Deku.»
Fermezza, consapevolezza anche più della mia: non so dire cosa ci sia nei suoi occhi languidi, anche perché i miei sono un'altra volta offuscati dalle lacrime.
Ripete di tornare di là e mi ci porta, facendo di tutto per non guardarmi e non incontrando resistenza dato che non ci sto più capendo niente.
Capisco solamente che un rifiuto più chiaro di così, senza spiegazioni ma con la certezza che lui sa, forse lo sa già da tempo, non potevo averlo.
Se ho pensato di aver dato tutto ciò che mi era rimasto, che il mio cuore fosse stato ormai ridotto in cenere... Mi sbagliavo.
Oppure è che anche ridotto in pezzi continua a battere per lui e soffrire, soffrire, soffrire.
Continua a fare dannatamente male.
Non capisco niente anche durante l'allenamento che insisto a fare nonostante sia evidente da lontano un miglio che non sto bene.
Sono con la testa fra le nuvole, rispondo distratto, faccio errori stupidi che mi fanno guadagnare occhiate di disapprovazione dal sensei Aizawa e domande dai compagni.
Dico che penso di essermi ammalato ma ce la faccio, tanto adesso manca l'ultimo esercizio. Le solite mezze verità con cui ho tirato avanti in queste settimane.
Solo che l'ultimo esercizio è la classica gara a gruppi al Ground Gamma: una sorta di corsa ad ostacoli sopra agli impianti industriali simulati per raggiungere per primi l'altro lato dell'area.
Ecco, forse la prendo fin troppo avventatamente. Ironia della sorte, sono anche in gruppo con Kacchan e se di solito questo mi sprona oggi mi manda solo ulteriormente in blackout.
Ho altri pensieri piuttosto che la strategia per vincere, o comunque arrivare al traguardo tutto intero.
All'inizio sto al passo con Kacchan. In breve superiamo gli altri e teniamo testa persino a Sero-kun, il più avvantaggiato con il suo Tape. Ci coordiniamo senza pensarci, in modo spontaneo e naturale come respirare, per metterlo fuori gioco.
Saremmo un duo fantastico, non trovi?
Continuo imitando i suoi movimenti in attesa del punto e del momento giusto per superarlo, ma poi...
Non so ricostruire bene come succede.
So che la mia testa parte, mentre tengo gli occhi sulla schiena che basterebbe allungare una mano per toccare ma qualsiasi cosa faccia non potrò mai raggiungere, non potrò mai averti Kacchan, adesso ho la mia risposta.
Come da piccolo e come ho sempre fatto per tutta la mia dannata vita, ti seguo.
Ti ho sempre seguito e non smetterò mai perché...
Vorrei essere come te.
No, prima pensavo fosse questo. Non sai per quanto tempo l'ho pensato, di voler essere come te.
Essere così incredibile, poter brillare e dire al mondo qualcosa, gridare che ero arrivato.
Urlare come urli tu senza chiedere scusa. Non chiedere niente, non pensare, non bloccarmi stretto tra gli ingranaggi del mio cervello.
Ma la verità è che vorrei... Voglio semplicemente te.
In fondo, da sempre ho voluto qualcuno che mi guardasse e pensasse di me quel che io pensavo di te, e voluto che quel qualcuno fossi tu.
Però non è nemmeno solo questo.
È qualcosa di troppo più grande e complicato per poterlo spiegare, che fa parte del mio stesso essere più di quanto vorrei. Tu lo sei.
E non sai quante volte ho anche desiderato che non fossi così importante per me. Che non fossi quel pezzo del mio puzzle di cui ho bisogno e che cerco incessantemente e per cui combatto e non so neanche più perché.
Se non possiamo esistere, se siamo fili destinati a scontrarsi senza mai rimanere intrecciati davvero, tanto vale smettere di lottare con le unghie e con i denti per scavarmi uno spazio nel muro che hai attorno fino a sanguinare, smettere di provare e per cosa che sono stanco e non ce la faccio più, smettere tutto per un po', solo per un po'...
Lasciarmi andare, cadere.
Metto male un piede su un tubo.
I miei riflessi sono rallentati e mentre precipito non faccio in tempo a ragionare su come atterrare in modo decente, anzi veramente ci rinuncio in partenza.
Mi ritrovo avvolto da qualcosa, che stringe troppo ma mi salva da un destino peggiore. È avvenuto tutto in pochi secondi, ma il sensei Aizawa, come per sesto senso, si era già spostato qui vicino ed è riuscito a prendermi con le sue bende di cattura.
Non ha comunque evitato la caduta, l'ha solo rallentata, e il braccio e la parte della schiena che hanno sfrisato sull'asfalto bruciano da morire. Ma il problema maggiore è respirare e nascondere le piccole macchie scarlatte sui guanti del mio costume.
L'espressione furiosa del professore si tramuta in una preoccupata quando arriva a soccorrermi. Non deve spiegarsi tutto questo sangue, incompatibile con il mio appena mancato sfracellarmi al suolo.
Anche i miei compagni, sia in gara che non, smettono quel che stanno facendo e accorrono. Yaoyorozu-san costruisce delle fasciature in attesa che arrivi il lettino dell'infermeria, i miei amici cercano di avvicinarsi e sento persino Todoroki-kun alzare la voce con Aizawa che li tiene lontani, percependo che qualcosa non va ma a questo punto l'avranno capito tutti.
I robot arrivano presto e mi portano subito da Recovery Girl.
Di nuovo, tutto si fa confuso. L'ultima cosa che vedo prima di chiudere finalmente gli occhi, rannicchiato sul lettino con in grembo qualche petalo nascosto nei pugni chiusi, sono un altro paio rubino indecifrabili fissi su di me.
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Kacchan è così tante cose per me. Questo è il mio pensiero più ricorrente nell'ultimo periodo e non lo intendo soltanto come cosa positiva, perciò mi è difficile mettere ordine a come mi fa sentire.
Da una parte, l'eroe che più ammiravo da bambino, che ai miei occhi sfiorava la perfezione, secondo solo all'inarrivabile All Might. Dall'altra, colui che mi ha fatto passare le pene dell'inferno e reso tremendamente insicuro, più di quanto già non facesse la mia sensibilità, o magari l'una è causa dell'altra e viceversa in un circolo vizioso senza via d'uscita. Un po' come il nostro rapporto.
Una persona da un lato incredibile, dall'altro orribile umanamente parlando.
Quello che si dice un pallone gonfiato a cui importa solo di sé stesso e in cui mi sono ostinato più volte a voler vedere del buono, dell'umanità nascosta da qualche parte, della possibilità di redenzione.
Come quella sera al ritorno dall'esame per la licenza provvisoria, quando si è sfogato con me sui suoi sentimenti poiché ero l'unico che li poteva davvero accogliere.
Dopo quell'episodio mi è sembrato che le cose stessero andando meglio. Addirittura sono sopravvissuto ai tre giorni di punizione da scontare confinato al dormitorio da solo con lui e in generale poi non si è più comportato male con me. Siamo riusciti ad allenarci insieme, a rafforzare i nostri quirk, a capirci qualcosa di Frusta Nera.
Ecco, il culmine è stata quella... cosa durante il suo attacco di panico. Dubito di averlo sentito solo io, qualunque cosa fosse. Qualcosa di diverso da quel che avevo provato fino ad allora eppure così naturale e giusto.
E penso che, in realtà, sia iniziato tutto qui. L'evento psicologico scatenante, come lo definiscono gli studi sull'hanahaki.
Da lì tutti i filmini che mi sono fatto dopo la lotta di quando è tornato a fare lo stronzo e l'ho baciato.
Quell'uscita di quando mi sono ubriacato, che ha dato voce ai miei sogni bagnati più nascosti.
E stamattina. Che diavolo era, perché sono così imbarazzante e disperato e non riesco a smettere di...
Ho fatto tutto da solo? Ancora una volta mi sono illuso sulla base del nulla?
Sì, in apparenza mi ha trattato meglio, forse ci ha provato sul serio con la storia del katsudon e di ricominciare da capo ma... Per quanto vorrei che fosse sufficiente, non lo è. La sua tolleranza non basta a salvarmi.
E va sempre così e io sono anche stanco. Si riavvicina, di sua volontà, poi manda tutto a puttane per le sue paure o che altro e a rimetterci e stare nella merda è sempre il sottoscritto. Vorrei abbracciarlo tanto quanto tirargli un pugno.
Le cose saranno anche cambiate un po', ma non è il cambiamento che vorrei io.
Perché ora lo vedo, capisco. Lui volente o nolente mi prende in giro e io glielo permetto, anzi ritorno sempre da lui con i miei atteggiamenti da pazzo masochista ma non ci posso fare niente, come una pallina che lanciata contro il muro rimbalza ed è destinata a tornare sempre indietro secondo una qualche legge fisica inequivocabile.
Il mio problema in fondo non è essere ingenuo come Todoroki-kun o troppo buono come Uraraka-san che sa mettere da parte ciò che prova. È che sono testardo come Kacchan, per quanto costi ammettere che non siamo poi così diversi. Con l'aggravante che anch'io vedo solo ciò che voglio vedere a volte e ignoro altre cose. L'ho fatto con i miei stessi sentimenti, mi ci è voluto tanto a comprenderli e adesso non so cosa dovrei farmene.
È assurdo per me, che ho sempre saputo con precisione cosa fare. Nella vita in generale così come in ogni situazione che vivo al momento, ogni ostacolo, ogni difficoltà. Alzarmi presto la mattina, andare a scuola, studiare, allenarmi; diventare un eroe e salvare tutti vincendo con il sorriso. Ma ora eccomi qui che non so più cosa fare di me stesso.
Non mi piace che mi faccia sentire così perso ma ne ho bisogno per sentirmi vivo, anche se mi sta letteralmente uccidendo.
Non ha senso.
È così? È questo l'amore, questa cosa che ho sempre avuto paura di nominare ma porto dentro da quello stesso sempre?
Una cosa stupida e insensata che ti consuma eppure non puoi farne a meno come una dipendenza sapendo che ti distruggerà?
Precipitare e godersi il panorama?
Precipitare come stamattina come uno sprovveduto, direbbe il sensei Aizawa mentre pensa aggettivi meno carini, durante l'allenamento nell'area Gamma, non concentrandomi e prendendo male un appoggio e...
Cos'è successo? Sono svenuto? Dove sono adesso?
Le palpebre sono così pesanti che vorrei tenerle chiuse e crogiolarmi nel dormiveglia ancora un po'. Ma qualcosa mi stringe una mano e un calore familiare mi spinge ad aprirle.
Devo sbattere gli occhi più volte, inondato di luce.
Bianco asettico, odore di disinfettante, il fastidio di qualcosa infilato nel braccio, bip regolari...
Oh no, ci risiamo.
«Izuku!»
Mamma si riversa su di me baciandomi ovunque e ripetendo che è felice che mi sono svegliato.
Ancora rintontito, riesco solo a poggiarle una mano sui capelli e guardare oltre, al capezzale del letto dove All Might intercetta le mie domande silenziose.
«Ehi figliolo, come stai?» Si schiarisce la gola, come per contenere la troppa commozione che gli è uscita. «Eri a scuola e ti sei sentito male durante la lezione di Aizawa, ti ricordi? Recovery Girl non poteva fare molto e ti ha fatto trasferire subito qui. Ci sei già stato l'altro giorno per la visita perciò conoscono il tuo caso. È passata qualche ora, è sera ormai.»
No, un momento... Se questo è l'ospedale specializzato per l'hanahaki, dove solo pochi giorni fa mi hanno raccomandato di stare attento e a riposo, e se mia madre è qui e All Might parla così apertamente significa che...
«Sappiamo tutto. Io, Aizawa e tua madre, per adesso. Della malattia di hanahaki.»
«Oh Izuku perché non me l'hai detto?»
La mamma continua a piangermi contro la spalla altro di incomprensibile stringendomi la maglietta bianca dell'ospedale, e io penso che mi ritrovo al solito punto.
Perché? Perché a me, perché l'ho nascosto, perché lo provo? Tutto ruota in cerchio sempre attorno alla stessa cosa. Io e te Kacchan continuiamo a farlo in questa partita persa in partenza, vero?
Tossire è più doloroso del solito, con il peso di mia madre addosso.
La faccio spostare, con delicatezza come se anche lei potesse rompersi da un momento all'altro, e provo a rassicurarla con un sorriso stanco.
Non ho la forza di sostenere questa o qualsiasi altra conversazione. Le sussurro solo delle scuse e mi lascio coccolare. Mi dice che andrà tutto bene, il medico ha parlato loro delle alternative e...
«Se non le dispiace glielo spiego io, signora», la interrompe una voce gentile.
Il dottore che mi ha visitato l'altro giorno fa capolino dalla porta. Mi rivolge un cenno di saluto e torna a parlare agli altri: «Di sotto servono un caffè niente male, sapete? Andate a farvi un giro, su, ne avete bisogno. Ci vediamo dopo».
Mia mamma mi lascia un'ultima carezza, ringrazia l'uomo e si avvia fuori, seguita da All Might.
A tal punto, il sorriso sul volto del medico si spegne. Gli sfugge un sospiro sconfortato quando porta lo sguardo da me alla cartella clinica tra le sue mani.
Si siede stancamente su una sedia mentre continua a sfogliarla, con un cipiglio severo che stona con quanto si è dimostrato rassicurante poco fa.
Immagino che non sia sempre facile tranquillizzare i pazienti e chi li accompagna e chissà quante persone deve vedere in questo stato o peggio...
«Mi stai ascoltando?»
Se avessi abbastanza energie salterei sul posto. Mi sistemo meglio seduto sul letto, come se mi potesse aiutare a concentrarmi, non perdermi nei soliti pensieri inutili. «Sì, scusi.»
«L'hanahaki comporta anche distrazione, mal di testa, vertigini... Ma questo lo sai già. Ti avevo raccomandato di non fare sforzi e azioni avventate.»
Mi stringo nelle spalle e annuisco, colpevole.
Un altro sospiro e torna a scorrere i fogli. «Dagli esami dell'altro giorno e dopo l'episodio di oggi, è evidente che ormai non si può più rallentare il decorso con riposo e farmaci né aspettare. Perciò, ragazzo, bando alla professionalità e sarò terribilmente diretto e duro con te...»
Posa la cartella sul tavolino vicino e piega le braccia poggiandole alle ginocchia, con le mani giunte a reggersi il mento e fissandomi grave da dietro gli occhiali.
«Sei peggiorato, troppo e troppo in fretta. Rischi tanto. Non è un gioco, stai morendo, ti è chiaro? E sai già per chi.»
Annuisco ancora, anche se non è una vera domanda.
«A questo punto le opzioni sono due: confessione o chirurgia. Nel primo caso, ti confessi sperando che il soggetto del tuo sentimento abbia cambiato idea e ti corrisponda. Se ti va bene guarisci, se ti va male muori. Nel secondo caso, ti sottoponi all'operazione che eliminerà la radice dei tuoi mali. In senso letterale: tutta la pianta viene asportata, raschiandola via fino alla sua origine nei polmoni. L'intervento è lungo e la ripresa lenta ma sopravvivi; l'effetto collaterale più importante è l'amnesia selettiva. Parlandone con il tuo tutore, propende chiaramente per la seconda, ma alla fine la scelta spetta a te. Se non fai nessuna delle due cose, muori.»
Troppe informazioni, il mio cervello si blocca prima. «Amnesia? Selettiva?»
«Perdi la memoria solo riguardo quella persona», traduce in parole semplici. «Tuttavia, anche sotto questo aspetto i casi finora studiati non coincidono. Come tutta la sintomatologia della malattia, il dopo è molto soggettivo e dipende da fattori ancora sconosciuti. In altri termini, non è certo come reagirà il tuo corpo. La maggior parte dei pazienti dimentica i sentimenti provati per quella persona. Un'altra buona percentuale dimentica totalmente i trascorsi e la persona stessa. All'estremo opposto, una piccolissima parte ricorda qualcosa, brevi istanti descritti come improvvisi flash e immagini confuse. Non ci sono ancora stati casi di recupero completo.»
Si alza dopo un ultimo lungo respiro e si riprende la cartella, su cui appunta qualcosa.
«Questo è tutto. So che è molto da elaborare, ma riflettici. Non hai molto tempo. Una, due settimane al massimo. Noi ci rivediamo tra qualche giorno e niente imprese spericolate nel frattempo, ok? Buon riposo.»
Di nuovo annuisco, più che altro a scoppio ritardato alla sua figura già uscita dalla stanza, e rieccomi solo con il mio casino.
Provo a rilassarmi contro il cuscino, con scarsi risultati.
Come diamine dovrei riuscire a riposare dopo una spiegazione del genere?
Certo, sapevo che non era facile trattare l'hanahaki arrivati a questa fase, e se anche l'avessi presa prima non sarebbe cambiato molto perché più tardi mi sarei comunque trovato davanti alle stesse alternative, ma...
In pratica, devo decidere se vivere o morire?
Reprimere e ignorare questi sentimenti, o viverli appieno letteralmente autodistruggendomi?
Come se l'amore fosse una questione di convenienza. Ma devo pensare un po' anche a me. Imparare ad essere egoista, come mi ero convinto di star facendo, lasciandomi andare e agendo finalmente come volevo, e invece proprio da questo inverno è andato tutto a scatafascio. Forse sono sempre stato egoista nel modo sbagliato?
Il punto è...
Da una parte, darci un taglio con tutto quanto. Confessarmi apertamente e venire rifiutato, perché in fin dei conti la malattia in sé e il mezzo tentativo di stamattina mi danno già una risposta, e fine. Smettere di combattere per tenere insieme i pezzi della mia vita, di me stesso che prima o poi andrà comunque in frantumi.
Dall'altra parte, dimenticare e andare avanti.
Capisco che la mamma, ma anche All Might e tutti, desidererebbero questo. È la via più ragionevole anche se bisogna pagare un prezzo e io stesso neanche mi sarei posto il problema, o meglio il Deku di prima non l'avrebbe fatto.
Il Deku di prima non si arrenderebbe, vorrebbe vivere, vivere e ancora vivere. Non rinuncerebbe a tutto, al profumo dell'abbraccio della mamma, del katsudon e della pioggia e al suo sogno di diventare un eroe per dei sentimenti non corrisposti.
Ma l'Izuku di adesso?
Sto impazzendo a tal punto che non ne sono più così sicuro.
Non con la domanda che mi colpisce come un fulmine a ciel sereno, apparentemente stupida perché è così naturale la sua presenza che nemmeno c'era bisogno di contemplare se... Sarebbe vita, senza questi sentimenti e senza Kacchan?
Consumando tutta l'aria nei miei polmoni, strappando tutta la pelle dalle mie ossa e lacerandomi l'anima già incenerita, devo davvero scegliere se vivere o morire per te Kacchan.
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