THE PURGE

La luna splendeva in cielo.
Illuminava il tutto in maniera solida, come se quello che veniva in contatto con quella stessa luce - per un attimo - diventasse duro. Tipo roccia.
Vipera non si sentiva una pietra, nè tantomeno percepiva beatitudine da parte di quella luminosa fonte di pensieri. Bensí incise un'altra stanghetta sul freddo intonaco di quel palazzo. Alzando lo sguardo, fissò gli astri. Era pronto.
Park Jimin stava per affrontare i suoi peggiori fantasmi.
Il buco nella montagna era solo il primo, dei tanti disastri, che quella sera avrebbero sconvolto la Corea del Sud.

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RAMEN ISTANTANEO
(E qualche proiettile di troppo mentre mi arrampico sugli scaffali)

Yoongi fu il primo che conobbi, dell'intero gruppo. Diamine, se ci ripenso, forse avrei davvero dovuto ascoltare i miei genitori, restarmene a casa, al sicuro, riparato da quello stupidissimo sistema di protezione familiare. Guardare un film, preparare quell'ultimo dannatissimo esame di diritto privato, cercare di risolvere un Sudoku e imprecare per le punte rotte di tutte le matite che avrei usato. Scaraventare quest'ultime per l'ansia sulla parete. Mangiare fino a scoppiare per l'ansia. Ridurmi ad uno straccio per sole dodici fottute ore. Se mi fossi dato una botta in testa, allora forse sarei riuscito a restare tranquillo.
Lo Sfogo era sempre stato per me come un terribile incubo dalla cadenza annuale. C'era chi aveva paura di Babbo Natale, chi della fatina dei denti, e chi di una celebrazione sanguinaria in cui tutti gli anni venivano sterminate dozzine di famiglie come la mia: troppo avvantaggiate economicamente per essere solo nella media eppure ancora povere per rientrare tra i potenti.

E quindi essere portati in quel fottuto bunker, al sicuro dai pazzi scatenati.

Era questo, quello che credevo.
E credevo anche che, andando in giro nel bel mezzo della notte dello Sfogo, vestito di nero per assomigliare alle ombre, nessuno avrebbe potuto farmi del male perchè finalmente sarei appartenuto ad una massa. Quanto stupido e arrogante e presuntuoso potevo essere, per credere che nessuno mi riconoscesse. Mio padre era un magnante delle nuove tecnologie, qualcuno continuamente chiamato da ospedali e sedi di ricerca per mettere a punto nuovi macchinari per la salvaguardia della vita. Quanta gente disperata era morta a causa sua? Quanti macchinari - prototipi - erano stati somministrati ai pazzi volontari in fin di vita che, non avendo altre opzioni, avevano deciso fosse meglio tentare il tutto per tutto?

Non me lo ero mai chiesto. Mai, fino a quella sera. La prima scazzottata, fu in un vicolo appena dietro al combini della stazione vicino casa mia. Ero andato lì perchè avevo fame. Nonostante i soldi non mi mancassero, volevo provare il brivido di rubare. Capire perchè la gente lo facesse, e poi si ritrovasse in aula, con al fianco avvocati come me, che in qualche modo provavano a difendersi. Entrare nella stessa mentalità di chi prima o poi avrei dovuto difendere mi sembrava un'ottima mossa per ammazzare il tempo e non uscirne pazzo.

Ne sono uscito pazzo tre anni dopo, quindi non posso dire di aver fallito.
Credo.

Sta di fatto che entrai rompendo una finestra. Anzi. Non proprio rompendo. Solo levando alcuni pezzi di vetro con il quale mi sarei certamente tagliato passando di lì. A giudicare dalla grandezza della frattura, una ragazzina - o ragazzino - doveva essere già passato di lì per procurarsi del cibo. Camminai tra le corsie, presi qualche scatola di ramen istantaneo, cercai qualcosa da bere che non fosse il solito latte di soia di cui andavo matto e poi mi indirizzai verso l'uscita. Pensavo fosse tutto sotto controllo, o che niente potesse andare storto perché la mia era una zona abbastanza periferica e - soprattutto - abitata da persone di un certo ceto sociale. Chi se lo aspettava che un pazzo dai capelli decolorati mi assalisse puntandomi un accendino alla gola.

Conobbi Yoongi quando lui mi saltò al collo e io fui troppo spaventato per reagire e cercare di atterrarlo. Avevo fatto judo, per quasi due anni e mezzo dopo che lo Sfogo era stato approvato, ma in quel momento tutte le mie conoscenze sulle arti marziali passarono dall'anticamera del mio cervello e volarono via come seguite dal vento.

«Muoviti e ti faccio diventare uno spiedino di maiale.» Sibilò a denti stretti lui, il suo alito odorava di caffè e tabacco.
Quasi nauseante, ma poi ci feci l'abitudine.

«Senti, non sono armato, non posso farti niente» Che fosse una mossa stupida, affermare di non essere provvisti di arma mentre un pazzo te ne puntava una al collo, questo lo sapevo.
L'adrenalina mi era salita al cervello, dubito fossi ancora in grado di ragionare decentemente.

Ci furono un paio di minuti di silenzio, poi lui sibilò ancora, «io ti conosco, sei il figlio di quel bastardo.»
Quel bastardo non era solitamente l'appellativo con il quale le persone facevano riferimento a mio padre, ma stetti in silenzio.
«Sono davvero tentato di farti del male, sai, sarebbe una bella sorpresa trovare una parte del corpo del proprio figlio al posto del giornale domani mattina, non credi?»

Fui salvato dal tintinnare di alcune spranghe di metallo sui pali della luce. Solo allora capii cosa stesse succedendo; lo sguardo di Yoongi fu un ottimo indizio. Stava scappando da altri pazzi, per questo aveva sussurrato per tutto il tempo. Egli alzò di scatto la testa e fissò un punto indefinito al di fuori della finestra rotta, quindi mi prese di forza e mi trascinò tra le fitte corsie, in mezzo tra le patatine ed i panini preconfezionati.

«Zitto, o ti faccio saltare la testa.» Parlò ancora, poi tirò fuori una pistola dai pantaloni, probabilmente l'aveva tenuta inserita tra la cintura e le mutande.

Io annuii, la sua mano era premuta sulla mia bocca.
Anche volendo, dubito mi avrebbe fatto gridare aiuto tanto facilmente, anche perché poi sarei stato ammazzato dai tizi al di fuori.

Quasi presi un colpo al cuore quando un ragazzino di massimo diciassette anni uscì dalla presa dell'aria corrente posta sul soffitto. Aveva i capelli mori, lo sguardo acceso di adrenalina e violenza e il labbro inferiore spaccato. Pensavo si trattasse di uno dei nemici del mio pazzo assalitore, ma poi entrambi si abbracciarono - abbracciarono per modo di dire, perché Yoongi continuava a tenere un ginocchio puntato sul mio torace.

«Chi è questo, hyung?» Domandò il piccolo, incuriosito.

«L'ho trovato qui a rubacchiare come un ladro disperato, è figlio di un tecnico di Gangnam.» Rispose il decolorato.

Io stetti ancora in silenzio, quindi guardai verso la finestra in fondo al corridoio.
«Non ci proverei, se fossi in te, a chiedere aiuto a quelli. Io non ti ho ancora ucciso perché sono pigro e non ho intenzione di sporcarmi le mani. Loro invece lo farebbero a vista. Non apparire più sugli articoli del quotidiano se poi vuoi uscire a fare quattro passi durante questo tipo di serata.» Parlò ancora Yoongi, e lì dovetti dargli ragione.

«Hyung, te lo vuoi portare dietro? Potremmo lasciarlo qui come diversivo-»

«Oppure potrei portarvi in casa mia e offrirvi riparo per un paio d'ore, abbastanza da farli desistere. Se vi siete nascosti qui è perché siete in svantaggio - numerico, credo - e quindi non potete affrontarli. Voi non mi uccidete e io evito che i vostri cadaveri vengano mostrati domani al telegiornale, ci guadagniamo entrambi.» Provai a parlare, a combattere quel groppo in gola, e con mia grande sorpresa, ci riuscii. Entrambi mi guardarono allucinati - da che mondo è mondo un prigioniero si permette di dettare condizioni, avevano probabilmente pensato - e poi tornarono a discutere, questa volta sussurrando. Capii poco o niente di quello che si dissero, tale era ancora il mio sconcerto per quell'assurda situazione in cui mi ero andato a cacciare.

«Non ha tutti i torti. Se entrassimo in contatto con la Bangtan a casa sua, potremmo richiedere rinforzi e vendicarci per lo scorso anno, no hyung?» Il piccolo Jungkook - che ai tempi ancora non si fidava ciecamente del sottoscritto come poi iniziò a fare - sembrava essere d'accordo con me. È grazie a lui, se quella sera non morii. Grazie a lui e alla sua infantile perseveranza.

«Se poi questo ci attira in qualche trappola, domani la polizia ci troverà e ci sbatterà in galera. Ricordati Kookie, qui non si tratta di vendetta o onore, ma di sopravvivenza.» Rispose il solito calcolatore, maniaco del controllo e precisino Yoongi. Roteai gli occhi verso l'alto, già allora probabilmente capii che con il ragazzo dai capelli decolorati avrei litigato spesso.

«Hyung, quali altre scelte abbiamo?!»

«Tic Tac se urlate ancora un po' pure i vicini rintanati tra le mura di casa vi sentiranno...» non volevo morire, non per colpa di due sconsiderati. Che poi li avrei conosciuti meglio, e che sarei arrivato al punto di sacrificarmi, per loro, questo non lo potevo sapere. Non nell'immediato.

Yoongi sospiró. «Andiamo, allora. Ma se ci giochi un brutto scherzo, giuro su dio che ti ammazzo.»

Annuii, non sapendo che altro fare, e poi quando capii che se avessi provato ad alzarmi nessuno mi avrebbe sparato, lo feci e tornai in posizione eretta. Il pensiero che in realtà tutto questo fosse uno scherzo, e che stessero solo provando a prendermi per il culo per poi guardare la mia faccia sconcertata quando mi avrebbero colpito con un coltello a serramanico, svanì nello stesso istante in cui incontrai lo sguardo del piccolo Jungkook. Al tempo pensai che si trattasse solo di una paura lieve, segno del fatto che ci fosse ancora dell'umanità in lui, da qualche parte; solo con il tempo, e la nostra conoscenza, capii che si trattasse di terrore, vero e puro. Quella notte, Jeon Jungkook, si rivelò la persona più naturale del mondo senza nemmeno volerlo.

«Sei entrato dai condotti di aerazione, vero? Mostraci da dove uscire.» Cercai di confortarlo, e non so tutt'ora se ci riuscii o meno. Purtroppo il piccolo del gruppo non mi rispose mai, a questa domanda, nonostante io gliela posi in molte occasioni.

«Vedi di non eccitarti troppo, Park, perché se dici a me di abbassare i toni, dovresti farlo anche tu...»

Yoongi, quanto pagherei per poterci litigare ancora assieme.

Ma entrambi mi ascoltarono. Cercammo una scala, ovviamente non esponendoci troppo dalle corsie, sapevamo che quei pazzi ci stessero aspettando solo per farci del male. Non ne trovammo nessuna, e rischiare di camminare sino allo stanzino del personale era un'azione troppo sconsiderata perfino per due killer esperti come loro. Giungemmo a una conclusione, ovvero arrampicarci sopra agli scaffali e provare a non venir colpiti dai proiettili che avevano già iniziato a fare irruzione dalle ampie vetrate.

«Agust, sei lì dentro con due dei tuoi tirapiedi, dimmi dove si trova RM e la faremo finita senza spargimenti di sangue!» Tuonò dall'esterno una voce a me familiare. Lì per lì non ci feci troppo caso, la paura di morire - che mai prima d'ora avevo sentito così viva e naturale nel mio cervello - prese il sopravvento su di me. Arricciai il naso, e poi venni spinto da Yoongi a salire. Probabilmente credeva che potessi fuggire e lasciarli in un mare di guai, non so darmi altra spiegazione, altrimenti, sul perché egli mi fece passare per primo.
Misi un piede sullo scaffale dedicato ai panini preconfezionati salati, poi su quello dei dolci, infine su quello delle brioches alla crema. Uno sparo ruppe il silenzio, il proiettile mi sfiorò appena, ma io misi una mano all'interno del buco sul soffitto, poi la seconda. Mi issai all'interno e aspettai che anche Jungkook e Yoongi facessero lo stesso; rimasi fermo lì, pronto ad aiutarli. Questo scosse qualcosa, in loro, e credo sia da lì che iniziarono a fidarsi - almeno un poco - di me.

Quando il braccio tatuato di Jungkook spuntò, lo afferrai rapidamente e tirai con tutta la mia forza, stessa cosa per Yoongi, che però aiutammo entrambi. Probabilmente la schiena cominciava a dargli problemi già allora, non ne ho idea. Strisciammo quindi lungo lo stretto condotto per almeno cinque metri, fino a quando un altro spiraglio di luce dettato dalla luna non mi illuminò le tempie: si trattava dell'uscita. Mi lasciai alle spalle le ragnatele e la puzza di topo morto ed in men che non si dica fui fuori. Se fossi stato claustrofobico, quel luogo sarebbe stato in grado di mandarmi al ricovero.
Restai accovacciato, il muretto che separava noi, dai pazzi giù in strada, era alto poco più di sessanta centimetri. Facemmo attenzione ad evitare anche il più minimo dei rumori. Avevamo paura, tutti quanti in maniera differente.

«Ora seguitemi, non abito troppo lontano da qui.» Sussurrai ai due ragazzi, loro non sembravano ancora troppo convinti di quel piano campato per aria, ma io non li aspettai. Certo, loro erano gli esperti, io solo un pazzo che aveva deciso di vagare come un deficiente in quella determinata notte infernale, ma lo spirito di autoconservazione lo possedevo anche io, circa.

Esatto, circa.

«SONO LI' SOPRA!» Qualcuno urlò e nello stesso istante una pioggia di proiettili si riversò sopra di noi. O attraverso di noi, dipende dal punto di vista. Jungkook crollò a terra, colpito da un proiettile alla spalla, e adesso i suoi vestiti malconci si stavano riempiendo di sangue.

Fui su di lui a controllare la ferita prima ancora che Yoongi se ne accorgesse; in quel momento il piano diventò definitivo al cento per cento. Non so nemmeno io, come feci a reagire tanto lucidamente, nè come, non appena Yoongi diede l'allarme, io afferrai la pistola che Kookie teneva nascosta nei pantaloni e feci fuoco. Talento naturale? Può darsi; avrei preferito saper disegnare, piuttosto che avere una mira impeccabile.

Sta di fatto che uno dei pazzi che ci avevano bloccati nel combini aveva ben pensato di arrampicarsi sulla vetrinetta dedicata agli ortaggi per raggiungerci. Yoongi lo aveva visto, io gli avevo sparato per tempo. Forse non si trattava solo di spirito di auto conservazione, forse avevo paura che quei pazzi potessero fare del male a due disperati. A due vagabondi, come me.

«Dobbiamo muoverci!» Esclamai preso dall'adrenalina. Yoongi mi guardò, non so se fosse sconcertato o più semplicemente indifferente da ciò - dall'omicidio - che avevo appena commesso. Me ne fregai, perchè Jungkook stava perdendo un fottio di sangue e io me n'ero già sufficientemente sporcato le mani.

Seppur non fossi un tipo particolarmente dedito allo sport - e potrebbe sembrare un controsenso, dire che entrambi i miei genitori si fossero specializzati in ambiti medici e io non fossi una persona attenta alla propria salute - mi caricai Jungkook sopra alle spalle, come un gigantesco sacco di riso da sessanta e passa chili. La discesa era semplice, oh almeno credevo. Avevo deciso - sempre con il peso specifico sulle spalle - che sarei saltato prima sul cassonetto dell'immondizia chiuso, poi a terra. Mica avevo fatto i conti che dei pazzi, io ne avessi eliminato solo uno. E che altri sei fossero vivi e vegeti, pronti a farci il culo.

Solo cinque, a dire la verità, perchè uno morí di fronte a me non appena misi i piedi per terra, con una ferita posta al centro della fronte. Yoongi gli aveva sparato prima ancora che mi fossi accorto che l'assassino si fosse parato davanti a me. Sospirai rumorosamente, respirando poi tutta l'aria che riuscii ad arraffare.

«Vieni, passiamo dal lato lungo.» Sussurrò Yoongi. Io lo seguii perchè il cervello si era annebbiato nuovamente, e il cadavere sgorgante di sangue non era il miglior tranquillante di 'sto mondo, devo essere sincero. Mi fece scendere di corsa delle scale pubbliche, di quelle che normalmente brulicano di ragazzini che - per sentirsi fighi, o con il cazzo più lungo degli altri - imbrattano con le bombolette i muri delle abitazioni. Non me ne resi nemmeno conto, che il mio sequestratore si affiancò. Prese su di una spalla il braccio dell'amico, e dopo un lamento di quest'ultimo ancora semi incosciente, proseguimmo correndo verso l'incrocio che cu avrebbe condotto a casa mia.

Il fatto che dai bellissimi grattacieli di Seoul, ai combini e vari negozi piú poveri, ci fossero appena pochi chilometri di distanza dava da pensare; lo sviluppo rapido di quella città aveva comportato una divisione sempre più netta delle classi sociali ricche e povere. Lo Sfogo aveva preso piede solo grazie a ció. Ammirare la mia città, la capitale, di notte mentre tutti tacevano - escluse le urla in lontananza provenienti da qualsiasi stradina dovute alle varie gang - era ipnotizzante.

Terrorizzante.

Arrivammo all'ingresso del mio attico in poco meno di venti minuti. Credevo che ormai Jungkook fosse spacciato. Che se il proiettile - oltre che essere uscito - avesse provocato delle lesioni ulteriori, difficilmente sarebbe sopravvissuto alla notte, e quindi sarebbe potuto arrivare in ospedale. Pregai Dio - o qualsiasi altra persona si occupasse di questo genere di miracoli - a dargli un'altra occasione. Jungkook era giovane - non che io, oppure Yoongi, fossimo vecchi e con un piede nella fossa - e non meritava di morire cosí.

Non meritava di morire e basta.

Feci entrare sia me sia i due miei nuovi amiconi in ascensore chiamandolo tramite il pulsante con una gomitata. Respiravo affannosamente, nonostante il peso del più giovane non fosse eccessivo, le gambe mi tremavano. Credo anche le mani. Lo stress accumulato durante la fuga, e prima la sparatoria, se cosí si poteva chiamare, stava cominciando a dare i primi effetti.

Una volta che le due porte si aprirono, feci entrare prima Yoongi, e poi lo seguii. Quindi schiacciai il bottone per il diciottesimo piano. Durante il viaggio, né io né Yoongi spiccicammo la minima parola. Sotto la musica soffusa di quell'ambiente, si potevano sentire i respiri tremolanti di entrambi.

Arrivammo davanti alla porta d'ingresso dopo appena tre minuti; mi stupì sapere che, per l'ansia, avessi contato tutti i passi e tutti i secondi dal momento in cui avevamo varcato la hall del condominio, sino al mio attico.

«Io so qualcosa, su come fermare le emorragie, ma domani tu e i tuoi amici dovrete portarlo assolutamente in ospedale.» Esclamai dopo che facemmo stendere sul divano in soggiorno il povero ragazzino. Jungkook cominciava ad avere i primi tremori, sudava freddo, presto la febbre si sarebbe aggiunta ai sintomi - come se noi non potessimo farne a meno.

Yoongi parve non ascoltarmi, però andò in cucina, e senza chiedermi niente cominciò a cercare un panno pulito per versarci sopra dell'acqua fredda.
Io corsi a prendere il kit del primo soccorso in bagno da sotto il lavandino, e quando tornai Jungkook aveva una specie si bandana rossiccia poggiata sulla fronte, che in realtá era solo un canovaccio di stoffa bagnato fino all'orlo. Poco mi importava, in quel momento, della sua ferita che stava imbrattando il mio divano di sangue.

Guardai il tipo di lacerazione. Non avevo studiato medicina, ma da quando lo Sfogo era stato approvato, mio padre mi aveva istruito su come gestire situazioni del genere. Estrarre un proiettile, suturare una ferita provocata da una lama - o peggio, un pezzo di vetro - oppure ancora, come rimediare ad uno shock dovuto da un omicidio, creare un laccio emostatico per scongiurare un dissanguamento e così via. Fu proprio questo che feci quando decisi come procedere: mi levai la cintura dai passanti dei miei pantaloni e l'avvolsi attorno alla spalla di Jungkook. Grazie a dio - se così si poteva dire - il proiettile non mi sembrava avesse colpito l'arteria vicina. Un altro fattore che determinò la sopravvivenza del ragazzo, quella sera, fu che il foro fosse situato nella parte più vicina alle giunture ossee, e che quindi potessi bloccare il flusso sanguigno decentemente.

Notai come mi tremassero le mani, quando lo feci, quindi cercai di concentrarmi sul mio respiro, mentendo perfino a me stesso. Sostenevo di essere tranquillo, di avere un battito cardiaco regolare, quando in realtà il cuore minacciava di scoppiarmi in petto. Con gesti imprecisi presi dal kit delle garze, bende, ago e filo. Qualsiasi cosa mi venisse in mente, oltre al disinfettante, che potesse aumentargli le speranze di sopravvivere.

Furono minuti interminabili, simili ad ore.
Quando mi staccai da lui, convinto di aver fatto un buon lavoro, piansi per colpa dello stress. Le lacrime mi scivolarono lungo le guance, io non ci provai nemmeno, a trattenerle. Sapevo che mai ce l'avrei fatta. Tremavo come tremano le foglie sugli alberi d'autunno.

Pensavo che lo Sfogo fosse l'esperienza più brutta della mia vita, che quella singola notte, probabilmente, sarebbe stata capace di rovinarmi il sonno da lì fino alla mia morte. E seppur avessi ragione, quando pensai a tutto quello, cambiai improvvisamente opinione nel sentire le mie spalle venir coperte da una giacca. Ero uscito sul terrazzo? Nemmeno me n'ero accorto? Non passai troppo tempo a farmi quelle domande, Yoongi fu più veloce del mio cervello e mi passò una scatola di ramen istantaneo appena cotto. Lo guardai, e così come i suoi occhi brillarono illuminati dalla luna, capii che lo sfogo non portasse solo distruzione.

«Senti, grazie per quello che hai fatto. Non è da tutti i giorni farsi aiutare da un ostaggio per salvare il proprio fratello...» ridacchiai a quella frase. Il fatto che quella situazione fosse assurda aumentava solo le probabilità che ne uscissi completamente di testa.

«Immagino che mi dobbiate un favore, adesso.» Provai ad ironizzare.

«Non basta averti tenuto in vita? Aish, credo tu abbia ragione-» Yoongi si fermò un attimo dal parlare, poi estrasse un bigliettino da visita. Conoscevo il locale di cui mi aveva dato il numero, era uno dei principali luoghi di ritrovo delle gang per darsi a combattimenti illegali quando lo Sfogo non imperversava tra le strade. Lo presi in mano, osservandolo ancora. «-Il prossimo anno, anziché provare a farti ammazzare, vieni da noi. Ci servirebbe un nuovo ragazzo con le tue doti per le pistole. Non te la sei affatto cavata male, là fuori.»

«Vedrò di prenderlo come un complimento, se per te ammazzare qualcuno sia qualcosa da elogiare. . .» mormorai.

«Oltre che proteggere te stesso, uccidendo quell'assassino hai salvato me, e Jungkook. Non si tratta di fare Dio e decidere chi debba vivere o meno. Si tratta di sopravvivere. Tu stasera, Park Jimin, lo hai fatto egregiamente. E fidati se ti dico che uno con le tue doti possa fare parecchia strada, con noi. Se non ti interessa, allora nasconditi pure in questa casa il prossimo anno. Io vedrò di segnalare questa strada come nostro territorio. La Bangtan potrà difenderti, in segno di gratitudine e riconoscenza, se così si può dire. Ma sappi che se cercherai una vera famiglia, allora sarai il benvenuto. Io so, cosa significhi avere dei genitori come i tuoi. Se accetti di dover sopravvivere per dodici ore l'anno dalle peggiori teste di cazzo della nazione, allora avrai poi altri trecentosessanta quattro giorni da vivere decentemente. Tu- pensaci, mh?»

Io rimasi con le bacchette in aria. Il boccone che stavo per mangiare ricadde nella sua confezione. Sul momento non dissi nulla, ma una promessa venne sancita nel silenzio.

Io avrei seguito in capo al mondo Yoongi.
Avrei fatto altrettanto con Jungkook.
Quindi anche con i restanti Bangtan.
Anche Cho Hee.

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Vipera analizzò i volti smembrati e sanguinanti delle sue sette vittime.
Erano dei paperoni del governo, ognuno più grasso e viscido dell'altro. Non ci poteva credere. Era per colpa di gente come loro, troppo impegnata a fare soldi sulla schiena dei poveri, che le persone morivano fra le strade. Disperate.
Yoongi e Jungkook erano morti così. Da disperati. Abbracciati l'un l'altro e feriti mortalmente durante una missione. Se non fosse mai esistito lo Sfogo, magari entrambi sarebbero riusciti finalmente a diventare i musicisti che sognavano di essere durante l'anno.
Lui gli aveva strappato quella possibilità.

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LECCA LECCA AL GUSTO MANGO
(E forse quelle unghie si sarebbero potute risparmiare)

«CHI CAZZO SEI TU E CHE CI FAI QUA» L'urlo di Taehyung arrivò tanto forte quanto il pugno che lo seguì. Involontariamente - ma volendo tutt'ora bene a Taehyung dirò che si trattasse sempre di quello spirito di auto conservazione di cui avevo scoperto essere provvisto - ricambiai con un colpo di ginocchio nella pancia. Annaspò, ma fu come se gli avessi dato una carezza. Mi tirò un altro pugno, e poi un calcio. E poi ancora ed ancora. Io ogni tanto rispondevo alle sue botte con dei tiri sempre più deboli. La vista si stava cominciando ad annebbiare quando arrivò Yoongi.
Mi salvò. Lì moralmente azzerai il suo debito nei miei confronti.

«Taehyung! Questo è l'ospite che ti avevo detto sarebbe giunto! Dio santissimo, se mi ascoltassi di tanto in tanto mi renderesti gli affari più semplici.»

Avrei tanto voluto obbiettare - e per poco non lo feci, se non fosse per il fatto che Taehyung e la sua cicatrice sul collo a forma di crepa mi terrorizzassero a morte - ma Yoongi mi fece alzare e mi avvolse in un abbraccio prima ancora che potessi dire ahia per le botte appena ricevute. Erano passati sei mesi dallo Sfogo in cui ci eravamo conosciuti. Non ci eravamo visti d'allora, nonostante qualche volta mi era sembrato che qualcuno dai capelli decolorati mi seguisse - o si trovasse in fondo alla mia via. Non sapevo perché egli mi avesse tenuto tanto d'occhio, anche adesso non saprei dare una risposta certa e precisa. Sta di fatto che, quando notai la sua sagoma e quella di Jungkook fuori dal combini da cui eravamo evasi in quella notte infernale, mi decisi a contattare il numero che mi era stato dato.

La settimana dopo mi presentai. Ed ora eccoci qua, con qualche - tanti - ematomi sparsi sulla pelle martoriata e due braccia strette attorno al mio busto.

«La prossima volta che ti vengo a trovare vedrò di portarmi dietro un tirapugni» ironizzai, tossendo per colpa del groppo di saliva che mi era andato di traverso nel mentre.

«Tu portatelo sempre dietro, ormai puoi considerarti dentro al nostro team-»

«Namjoon non si è ancora espresso a riguardo. . .» Taehyung interruppe Yoongi, e nonostante io sia abbastanza sicuro che la gerarchia - anche nella Bangtan - fosse una caratteristica da rispettare all'interno delle gang, non credo che il ragazzo dai capelli decolorati se la fosse presa.

«Fidati, lo prenderà. Non ho mai visto nessun civile maneggiare così una pistola, in più ha salvato la vita a Kookie, se si decidesse di non farlo entrare gli bisognerebbe per lo meno garantire protezione.»

Non seguii più il loro botta e risposta. Mi fermai al quindi è lui che avete trovato al combini e che ha causato un'intera edizione speciale del telegiornale sullo Sfogo detto da Taehyung, e poi seguii entrambi all'interno del locale.

Mi ero dato appuntamento con Yoongi sul retro dell'Omelas. Era un locale famoso per la quantità di malavita che vi aleggiasse all'interno. Chiunque, almeno una volta, aveva sentito nominare gruppi come EXO, Seventeen, Monsta X. Erano i principali sostenitori dello Sfogo, e sembrava avessero anche contatti con il governo - o che addirittura ne fossero parte. Sta di fatto che non entrammo dalla porta principale, ma dal retro. E non attraversammo nemmeno schiere di giovani che ballavano e si ubriacavano a ritmo con la musica, magari sniffando anche qualche riga di cocaina. Dal parcheggio, varcammo una porta metallica che dava su una rampa di scale pressoché infinita e poco illuminata; come quella dei film horror, circa.

Già dal secondo scalino udii un urlo straziante. Di qualcuno che veniva torturato.
Mi diedi dello stupido, come potevo aver pensato che a venir a trovare un membro di una gang mafiosa - un amico - io non incorressi nella violenza?

«Choie si sta dando da fare con quel bastardo, eh?» Ridacchiò Taehyung. Io mi rincuorai, pensando che se egli lo avesse chiamato bastardo, allora doveva trattarsi di qualcuno che aveva fatto del male alle persone. Non era necessariamente un membro di una mafia locale nemica. Sperai.

«Cho Hee ti starà simpatica, Jimin, avete una storia simile, e sono convinto che ti riterrà un elemento valido proprio come lo faccio io.» M'informò Yoongi.

«Sempre se non lo ammazza prima, vorrai dire.»

Grazie Taehyung, devo proprio dire che durante in nostro primo incontro tu non mi abbia fatto sentire a mio agio. Ma tranquillo, rimaniamo migliori amici come sempre- ah, sì, sei morto anche tu... vero.

Finita la rampa di scale - che più che rampa io la descriverei come apertura per l'inferno terreno, magari per rendere maggiormente l'idea - si estese davanti a noi un corridoio scavato nel terreno, anch'esso lungo e stralungo. Mi meravigliai che una struttura del genere potesse esistere per davvero, e non fosse solo un invenzione di qualche regista fuori di testa. Su entrambe le pareti, ogni sei metri circa, delle porte blindate erano disposte speculari l'una con l'altra. Prima della fine del corridoio ne contai quindici per lato. Ce n'era poi una finale, situata proprio dove la luce arrivava meno ed il corridoio volgeva al termine. Lì sopra, anche se a distanza, notai una targhetta d'ottone - o molto più probabilmente oro - con sopra scritto RM.

Avevo ormai capito che quella, oltre che essere la nostra destinazione, era anche l'ufficio dell'uomo di cui - la sera in cui incontrai Yoongi e Jungkook - i nostri assalitori avevano richiesto la posizione.

Quando ormai ero riuscito parzialmente a capire qualcosa, di quel labirinto lugubre, Taehyung decise di mettermi alla prova. Anche ai posteri, credo che si trattasse di questo. Di capire se il sangue potesse farmi ribaltare lo stomaco su sé stesso.

Poco prima della porta con la targa d'oro, dove le urla del poveretto - bastardo - si intensificavano maggiormente, Taehyung decise di entrare, trascinandomi con lui.

In una stanza quadrata, senza finestre ma con una sola bocchetta per il ricambio dell'aria - di cui io sono anche abbastanza sicuro fosse rotta - con una lampadina attaccata al soffitto grazie al solo filo della corrente a cui era collegata, una sedia di plastica - di quelle che si mettono in giardino d'estate - e un intero tavolino adibito a guardaroba per gli oggetti potenzialmente letali, l'unica cosa che notai fu lei.
Cho Hee. Era vestita con una tuta nera ed una maglietta strappata che le copriva appena il seno sporgente. Le labbra erano macchiate ai lati di sangue - un po' come tutto il pavimento attorno alla sedia e i vestiti, sia suoi che del bastardo legato come una porchetta. Gli occhi scuri mi scannerizzarono sin dal primo momento in cui entrai in quella prigione, per poi tornarsi a concentrare sul malcapitato.

Prese una pinza, la sventolò in aria come se si trattasse di una bacchetta magica. La posò sulle sue labbra carnose, ci fece scivolare la lingua attraverso. Sentii le mie budella attorcigliarsi le une sopra le altre, estasiate da quella visione. Poi cambiò. Fece strisciare l'arnese lungo tutta la figura insanguinata del bastardo. Solo allora notai che gli mancasse un pezzo dell'orecchio sinistro, che perdesse sangue da un occhio e che un coltellino svizzero fosse incastrato nell'esatto centro del palmo destro. Cho Hee arrivò alla mano sinistra. L'accarezzò come se quella persona fosse il suo amante, e per poco credetti che si trattasse solo di un gioco sadomaso, e non una tortura in piena regola.

«Dove tenete quei bambini.»

Il suo sussurro quasi mi provocò mille brividi lungo la spina dorsale. M'ero innamorato di lei ancora prima di capire come facesse di cognome. L'uomo stette zitto. Cho Hee impugnò la pinza saldamente e strappò via un'unghia.

«Perché avete iniziato a rapire quei bambini.»

Lui stette in silenzio nuovamente. Un'altra unghia partì.

Poi venne fatta un'altra domanda.

Un'altra unghia toccò terra. Dei lamenti si fecero largo tra le mura di quella stanza.

Io rimasi in silenzio. Non sapevo se in quel momento fossi più eccitato per aver appena visto Cho Hee che torturava una persona o per il sangue che quest'ultima continuava a perdere dalle dita delle mani.

Partirono tutte le dieci unghie.

Non ci fu alcun problema. Cho Hee passò a quelle dei piedi.

«Quei bambini vengono strappati dalle braccia delle loro madri, e voi pensate solo ai soldi Cristo Dio!»

L'ultima unghia venne strappata.

In quello stesso momento due persone - Namjoon e Seokjin - entrarono nella stanza. Allora penso che l'altezza di RM, indubbiamente fuori dal comune, e lo sguardo severo del medico Kim mi terrorizzarono più della scena cruenta a cui stavo assistendo da venticinque minuti.

Hoseok, di cui nemmeno mi ero reso conto della presenza quando eravamo entrati, sorrise ai due nuovi arrivati in maniera calorosa, passando poi dietro di me. Camminò fino alla parete su cui poggiava la porta, solo allora mi accorsi vi fosse una videocamera accesa. Egli la spense. Poi ne estrasse la scheda SD. Quel video sarebbe servito per un ricatto, molto probabilmente.

«Adesso spediremo quello ai piani alti, e quando lo avremo fatto, cancelleranno ogni traccia sulla tua esistenza. Quindi, che tu ci dica o meno dove voi mettiate quei bimbi, non ha la minima importanza. Loro penseranno che tu sia morto, e non ti uccideranno.» Sussurrò ancora Cho Hee, questa volta all'orecchio ancora integro del Bastardo. Io pensai che si dovesse trattare di uno di quei funzionari che erano soliti rintanarsi nei bunker, durante lo Sfogo, proprio per sopravvivere a situazioni del genere.

Improvvisamente mi fece schifo.

«Puttanella-» trasalì l'uomo, poi sputò del sangue, «-quei bambini sono morti.»

Lì, Cho Hee, non vide più niente. Prese il coltellino svizzero conficcato nella mano e lo spinse più in profondità, allargando la ferita, quindi lo estrasse e lo infilzò nella gamba, proprio dove passava l'arteria. «Vaffanculo, verme di merda.»

Lo estrasse di nuovo, un fiume di sangue investì i vestiti del bastardo.
Divenne quasi una fontana.

Dopo una trentina di secondi, quando ormai il suo colorito si era fatto più pallido, Cho Hee prese la lama e la inserì violentemente nel cranio.
Perforò il suo cervello, e lo lasciò morire così. Abbandonò la stanza senza né dire né fare altro, ma solo rivolgendomi uno sguardo eloquente: quel bastardo meritava di morire.
Sembrava quasi una giustificazione. E io le diedi ragione. Sapevo, avesse ragione.

«Choie, dopo ne parliamo in ufficio.» Namjoon parlò. Non di trattava del tono inquisitore che magari era solito rivolgere alle reclute, ma qualcosa di diverso; era preoccupato, probabilmente per la sanità mentale della stessa Cho Hee. Pure io lo ero, che nemmeno la conoscevo.

«Bhe, nel dubbio piacere, Jhope per gli sbirri, Hoseok per quelli che evitano di uccidermi.» Hobi si avvicinò a me con un sorriso a trentadue denti. Allungò una mano, e per un attimo fui tentato di arretrare. Avevo appena visto lui e Cho Hee torture a morte un pazzo bastardo, avevo il diritto di non essere a mio agio, no? E invece gli strinsi la mano, agitandola vigorosamente, con foga.

«Park Jimin-»

«Si, Yoongi ci ha parlato molto di te. Se per te non è un problema, mi piacerebbe discutere assieme, in privato.» Namjoon non mi riservò la stessa premura che poco prima aveva concesso a Cho Hee, non mi sento nemmeno in grado di fargliene una colpa, fossi stato in lui - e appena diventai leader dei Corvi Neri, lo fui per davvero - sarei stato sempre cauto, pur di difendere il mio gruppo, la mia famiglia.

Lo seguii senza obbiettare, e a noi si aggiunse Seokjin sotto pressione di Yoongi. Che quest'ultimo avesse il timore che potessero uccidermi, o per lo meno, che Namjoon potesse uccidermi? Probabile. Uscimmo dalla sala torture e continuammo per il corridoio infernale. Pochi passi, decisamente non come il tragitto iniziale, e ci ritrovammo al capolinea. La fine di quel tunnel. Adesso potevo vedere come sulla targhetta d'oro non ci fosse scritto propriamente RM, bensì, tra gli spazi lasciati tra le due consonanti, le parole Real Me erano state cancellate con dei colpi, penso si trattasse di incisioni fatte con un coltello. Non seppi mai, il motivo di tale modifica, e mai chiesi o feci domanda. Con Namjoon non ebbi mai l'opportunità di parlare da fratello. Non ne ebbi il tempo.

Per quel poco che feci con tutti loro, però, so che chiunque avrebbe potuto considerarli la mia famiglia. La mia vera famiglia.

Quando entrammo, una sala ben diversa da quella delle torture ci accolse a suon di tic dovuti dalla perdita d'acqua dal soffitto e con un certo profumo di gelsomino selvatico. Le pareti erano rivestite di legno, l'ambiente invece era illuminato - per quanto possibile dalla Luna - tramite una bocca di lupo appena sopra alla scrivania di ferro. Tre sedie, una libreria montata decisamente male e una lampada scollegata dalla presa elettrica poiché vicino al secchio che raccoglieva l'acqua galeotta erano gli unici arredi di quello spazio ristretto. Semplice, non ostentato.

Mi piaceva.

Sotto invito di entrambi gli uomini, mi sedetti davanti alla scrivania. Dall'ansia facevo sbattere sul pavimento la suola della scarpa, ma quando ciò mi venne fatto notare, mi ghiacciai sul posto come travolto da una folata di vento gelido.

«Spero che Yoongi abbia parlato di me solo in maniera propositiva.» Provai a scherzare, e a giudicare dalla risatina che emise Seokjin almeno qualcuno lo trovò divertente.

Namjoon sbuffò. «Se non contiamo l'immensa irresponsabilità nell'uscire di casa disarmato e senza un minimo di addestramento militare, sì, direi di si. Ma non ti gasare, Park Jimin, perché adesso dovremo parlare seriamente, senza battutine o risate.»

Credo che dopo quella frase la mia vita cambiò. Sì, dev'essere senz'altro da lì. Non saprei dargli altra collocazione, altrimenti. All'entrata della bocca dell'inferno.
Con tutto il rispetto che posso avere nei confronti di satana, sia chiaro.

«Lo Sfogo è nato con l'ideologia della pulizia etnica. Seppur già questo possa far accapponare la pelle - dipende sempre quanto si è abituati alla morte - il governo è riuscito a renderlo quanto più tetro possibile in appena un anno dopo la sua proclamazione. E' facile dare la colpa a noi mafiosi, dire che noi siamo solo le marionette dei potenti. Che ci divertiamo a fare uso dei deboli tra le strade pur di ammazzare qualcuno e non venir puniti. Odio questa generalizzazione, non siamo tutti così. All'inizio, durante la prima edizione dello Sfogo, eravamo in due, di gang, a competere per la supremazia. Devi capire, caro, che istituire un evento del genere possa solo che generare disprezzo e malcontento tra i più, specialmente con i più poveri che man mano sono diventati la classe sociale prevalente della Corea del sud, no?»
«Noi Bangtan, e gli Exoplanet - sicuro avrai sentito parlare degli EXO, ai piani alti la loro droga è quella che va per la maggiore - abbiamo lottato tra di noi per sei mesi, e loro sono riusciti ad avere la meglio.»

Ci fu una pausa. Tutte le domande cominciarono ad assalirmi. Mi stava rivelando qualcosa, eppure teneva per sé tutti i dettagli. Mi stava raccontando il mondo senza dirmi niente di concreto.
«Scusatemi, ma avere la meglio su che cosa? In giro si dice solamente-»

«Che siano saliti a governo, ed è vero. Al momento l'economia coreana sta andando a farsi fottere solo perché dei cazzo di mafiosi hanno tra le mani le redini della nazione.» Completò Seokjin.

Quasi rimasi senza parole, faticavo davvero a crederci.
Peccato solo non fosse impossibile.

«In due anni e mezzo sono riusciti a mettere mano ovunque. all'inizio abbiamo iniziato a dargli fastidio interferendo con lo Sfogo solo per vendetta. Poi abbiamo conosciuto Cho Hee e Hoseok. I due fratelli del massacro.»
In quell'esatto momento la ragazza delle torture, Yoongi e Jungkook entrarono - o fecero irruzione, dipende dal punto di vista - come un ciclone in quella stanza. Il più piccolo dei tre quando mi vide mi saltò addosso, io faticai anche a riconoscerlo.

S'era tinto i capelli di un rosa tendente al rosso - probabilmente la passione per la decolorazione di Yoongi doveva averlo contagiato - e aveva fatto un piercing al sopracciglio. Seppur fossero passati solo sei mesi, quel ragazzino oltre ad aver messo su una considerevole massa muscolare sembrava essere invecchiato di anni. Che fossero gli effetti della malavita?

«Si emh, qualcuno qui era particolarmente voglioso di raccontare la storia della sua vita.» Si giustificò Yoongi.

«E immagino che voi due l'abbiate dovuta accompagnare, non sia mai che si perdesse in questo posto dal quale esce forse una volta a settimana-» Namjoon venne interrotto di nuovo, questa volta da Jungkook.

«Esattamente, devo essere protettivo nei confronti della mia noona, non vorrei mai che nessuno le facesse del male.» Rispose lui, sedendosi poi in grembo a Seokjin, sulla sedia accanto alla mia. Yoongi chiuse la porta dietro di sé e rimase appoggiato sullo stipite, Cho Hee invece si andò a sedere di prepotenza sulla scrivania. Namjoon però non sembrò particolarmente infastidito.

«Vivevamo tra i poveri. Io avevo quattordici anni quando partecipai al primo Sfogo. Uccisi sedici persone, tutti disperati che per la taglia che tutt'ora tengo sulla testa volevano distruggermi per intascare appena mezzo milione di Won. Mio fratello ed io siamo incappati poi nella Bangtan, ed eccoci qui.» Nonostante la facesse molto in breve, sapevo che qualcosa mancasse. Ero appena arrivato, solo Yoongi e Jungkook potevano in qualche modo fidarsi di me. Non pretendevo che anche loro lo facessero, ma che almeno la verità fosse detta per intero un po' me lo aspettavo.

«Gli EXO, avvalorandosi della loro posizione odierna, hanno iniziato a mettere su una mafia mondiale incentrata sulla vendita di bambini soldato. Li rapiscono quando vengono uccisi i genitori durante lo Sfogo, e poi li addestrano per l'anno successivo. Si ritrovano poi con i maggiori investitori del business la notte fatidica, e quando li liberano - premetto che di personalità dopo l'addestramento non ne rimanga più nulla - lanciano scommesse su quanta più gente riusciranno ad ammazzare. E' un ciclo vizioso, i bambini vengono rapiti, addestrati, l'anno dopo ammazzano altri genitori e gli orfani vengono presi per l'anno successivo e via dicendo.»
«Ciò che non ti ha detto Cho Hee-» e Namjoon le riservò uno sguardo indecifrabile, «-è che in qualche modo è rimasta coinvolta in questa vendita illegale. Lei e suo fratello avevano salvato un bimbo di cinque anni, durante il primo sfogo. Per una serie di sventurati eventi, venne rapito da loro. L'anno successivo ci dovettero combattere, e ucciderlo per sopravvivere. Cho Hee venne poi stuprata da un anarchico nei paraggi quando Hoseok si allontanò per seppellire il piccolino, quindi la ritrovò Taehyung. Quando abbiamo incontrato loro - essendo già in qualche modo all'opera per far crollare gli EXO da governo - abbiamo iniziato a collaborare per far sì che questa tradizione potesse concludersi e rimanere relegata al libri di storia futura.»

Quando si fermò, fu come se tornassi a respirare regolarmente. Stupro, vendita e sfruttamento di bambini. Mafia a governo. Mi ero sempre lamentato dello Sfogo rimanendo rintanato in un attico per ultra milionari, senza dover temere per la mia incolumità se non per attacchi particolari. Qui invece si parlava davvero di vita o di morte. Di sopravvivenza. La gang che avevo dovuto affrontare sei mesi prima, che avevo considerato il maggior pericolo che avrei corso associandomi ad un'organizzazione di stampo mafioso, non era niente. Quando però guardai nel profondo degli occhi di Cho Hee, non fermandomi solo all'esteriorità, capii quanto avesse sofferto. Lei mi sorrise, come se rivelandomi la vera faccia del mondo mi avesse fatto un favore.
E seppur fossi caduto in un baratro oscuro popolato da demoni e assassini, io gliene fui grato. Mi aveva aperto per davvero gli occhi.
Una ragazzina vestita di stracci, che se avessi visto su una strada avrei pensato si trattasse di una mendicante. Una bellissima mendicante.

Cho Hee fu la mia salvezza.

«L'interrogatorio di prima, seppur si sia concluso in modo spiacevole, ha saputo dare i suoi frutti. Abbiamo la posizione di uno dei bunker del governo. Grandioso, vero? Se durante il prossimo Sfogo noi riuscissimo ad intrufolarci all'interno, potremmo scoprire la posizione di quello centrale, e quindi giungere alla mente dei piani, al bastardo dietro tutto questo.» Concluse Yoongi.
Quando mi voltai, egli mi sorrise. Stava per aggiungere altro: «Qui entri in gioco tu. Dopo che ci siamo conosciuti, Park Jimin, ho avuto come il sospetto che la tua posizione ci potesse ritornare stranamente utile. Altolocato nella società, ben voluto dai genitori ricchi. Sicuro avrai delle conoscenze non indifferenti, conoscenze che purtroppo a noi sono negate. Sei stato leale, e dopo tutto quello che è successo, credo che anche tu abbia voglia di fare il culo a questi tizi.»

«In più Jungkook è diventato qualcosa come il tuo fan numero uno, o giù di lì, sarebbe stato difficile dirgli di no quando insisteva per farti entrare senza nemmeno superare il test d'ingresso...» Lo prese in giro Cho Hee, e il più piccolo avvampò diventando rosso come un peperone. Solo allora ragionai quanto Kookie potesse essere piccolo, e quanto tutti, in quella stanza, sembrassero tenere a lui incondizionatamente. A dir la verità, tutti sembravano tenere a tutti in maniera smodata. Come una famiglia. Dopo esperienze del genere, nonostante non si trascorresse molto tempo assieme - o non ci si conoscesse da tanto - il legame che si veniva a creare doveva essere indubbiamente forte. Indistruttibile.

«Capirai bene che dopo stasera non ti daremo l'opportunità di rifiutare la nostra offerta. Ti abbiamo detto troppo, e il nemico è sempre in agguato - specialmente quando si tratta degli EXO, s'intende.» Namjoon, tra tutti, era decisamente il più risoluto. Quello che, nonostante ispirasse molta fiducia, sarebbe stato il primo a cui avrei risposto la mia vita tra le mani. Sapeva indubbiamente il fatto suo, questo era innegabile. «Verrai addestrato da Cho Hee. Lei ti insegnerà tutto ciò che c'è da sapere sul combattimento, sulle strategie, sul piano e man mano, strada facendo, sul diventare parte di questa famiglia. Bada bene, Jimin, qui nessuno stravede per ammazzare gli altri, siamo sei sopravvissuti in una città che si definisce ancora civile, nonostante sia tutt'altro. Dovrai abbandonare tutto ciò che ti è più caro per mantenerlo al sicuro. Capirai, che facendo parte di questa società ti farai dei nemici, nemici che non avranno pietà nell'ammazzare chi ti è vicino.»

Io annuii a tutte le affermazioni del maggiore. Stavo stravolgendo la mia vita. La stavo annullando. Ma per che cosa? Affetto? Tutto sommato - nonostante i genitori non avessero mai saltato impegni lavorativi per venire alla mia recita di Natale - non mi era mai mancato niente. Soldi? Li avevo, anche in abbondanza. Un bene superiore? Sì, certo, ci mancava solamente il mantello di Superman e la calzamaglia blu. Per che cosa, allora?
Non lo seppi mai, sia chiaro, quindi non state ad interrogarvi troppo.

«Io- scusate, non so davvero cosa dire.»

«Risparmia pure il fiato novellino, ti servirà domani per quando inizieremo con l'addestramento.» Ridacchiò Cho Hee, e per un momento mi parve quasi ammiccasse.

Mi destai dalla trance dovuta da quel suono armonioso solo per chiedere ulteriori informazioni.
«Esattamente, quali delle mie conoscenze dovrebbero tornarvi utili. Credo voi abbiate le idee abbastanza chiare, seppur non mi diciate molto.»

Namjoon sorrise per la prima volta. «Devo dare ragione a Yoongi, sembri uno sveglio. Hai frequentato le scuole più illustri di Seoul, corretto? E tutti i tuoi ex compagni una volta diplomati si sono trovati dei posti di lavoro tutto sommato discreti, giusto? E se il tuo migliore amico delle superiori, Park Jimin, avesse iniziato a fare parte degli EXO, e falsificando i documenti fosse diventato il secondo in comando a Governo, tu come la prenderesti?»

Restai in silenzio, perché il sangue mi si gelò nelle vene.
Mi rifiutavo di credere che la persona che avevo accolto in casa mia non so nemmeno io quante volte potesse aver preso parte ad una cosa tanto terribile.

«Si, Jimin, è proprio così-» Cho Hee prese dal porta penne sulla scrivania un lecca lecca. Lo scartò con fare sensuale, per poi portarlo alle labbra e leccarlo nello stesso identico modo con cui aveva leccato la pinza nella sala delle torture. «E' anche la stessa persona che ha provato ad ammazzarvi quella sera al combini, hehe. Byun Baekhyun, primo ministro attualmente in carica, è il burattino messo dagli EXO per controllare il traffico di bambini. Noi, con il progetto Resurrezione, puntiamo ad ucciderlo.»

In sostanza, avevo appena firmato un contratto in via ufficiale per uccidere il mio ex migliore amico ed innamorarmi di una psicopatica amante quasi quanto me - se non di più - degli spargimenti di sangue. Fantastico, no?

No. Decisamente la peggiore decisione della mia vita.
Mannaggia a te, Cho Hee.

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Jimin s'abbassò sulle ginocchia, avvicinandosi maggiormente all'ultima figura significativa di quel bunker. Ultima per modo di dire, difatti non era ancora giunto il momento di brillare per la celeberrima star di quella sera.
Si trattava di qualcuno componente il consiglio di gabinetto? Oppure del presidente stesso? Aish, quanto complicato poteva essere il sistema gerarchico politico coreano? Sospirò. Ad essere onesti, il suo obbiettivo era Baekhyun, quindi - indipendentemente da quanto fossero importanti le persone da lui appena uccise - a Jimin non interessava.
Ma proprio zero. Meno di nulla.
Quando si avvicinò al poveretto morente stramazzante sul pavimento - con una ferita decisamente mortale al petto - nemmeno un briciolo di pietà montò all'interno di quello che forse si poteva ancora descrivere come il suo cuore.
"Ti- Ti prego." Sussurrò l'uomo, implorava la morte come gli stessi disperati avevano implorato la libertà di vivere. Disgustoso.
Namjoon, Hoseok, Taehyung e Seokjin. Tutte persone fantastiche, cazzo, che aveva imparato a conoscere ed amare - ognuno in maniera differente dall'altro - per colpa di una celebrazione terribile. Celebrazione che quello stesso vecchietto sofferente stava rappresentando - e forse in tempi non sospetti aveva sostenuto - anche mentre moriva.
Jimin non viveva più, per colpa loro e dello Sfogo.
Tutti i Bangtan erano morti, e sarebbe stato meglio se mai si fossero incontrati, se mai ce ne fosse stata la necessitá perché tutti - diversamente da com'era accaduto per colpa dello Sfogo -avrebbero potuto inseguire i propri sogni e desideri.
"Namjoon era uno studente di Giurisprudenza quando avete approvato lo Sfogo. E' diventato l'esatto opposto di ciò che aveva sempre sostenuto. Lo stato che avrebbe voluto difendere gli ha voltato le spalle. E' morto da reietto, due anni fa. Vuoi sapere come? Bruciato vivo, mentre con i suoi compagni cercava delle informazioni per farvi scendere da governo e salvare il Paese che ha sempre amato. Ironico, vero? Quando morirai, salutamelo all'inferno. Presto verrò a trovarlo anche io, ma vorrei che per lo meno sapesse del mio arrivo."
Jimin sorrise come sorridevano i pazzi. Rise anche, circondato da cadaveri, un vecchio decrepito che stava per passare a miglior vita e il suo acerrimo nemico ferito malamente a capotavola.
Rise, rise e rise ancora. Rise voltando la testa verso l'alto, verso il soffitto perforato dalla bomba che lui e i suoi compagni avevano utilizzato per entrare in quel lato della montagna così isolato. Sparò verso il cielo, quindi al vecchio.
Rideva, perché era ironico, vero? Bangtan Sonyeondan. I boyscout a prova di proiettile. Morti per colpa di una pioggia di proiettili. Prima Yoongi e Jungkook, fuori dalla struttura per fare da pali. Al primo la schiena doleva sempre di più, e il secondo non aveva voluto sentire ragioni. Aveva insistito per restare fuori assieme al più grande, ed era sembrato talmente convincente da morire assieme a lui per colpa di un paio di disperati, pagati dal governo per non sporcarsi le mani commettendo altri omicidi. Poi gli altri quattro. Uccisi da delle sentinelle appostate subito dentro alla struttura. Sapevano dell'loro arrivo e li avevano uccisi. Carne da macello. Letteralmente, carne, perché poi era stato dato fuoco ai loro corpi così che nessuno potesse mai rendergli omaggio
Jimin sorrise. Poi guardò Baekhyun.

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FIORI DI CILIEGIO & STELLE IMPERTINENTI
(E quanto pagherei per poter rivivere un momento del genere)

«Jimin, corri, su!» Mi incitò Cho Hee, e come mi sembra di aver già ribadito a sufficienza, io feci come mi disse. Perché bastava un solo comando, da parte sua, e io sarei corso fino in capo al mondo. Anche più lontano se necessario, tutto, ovunque, pur di farla contenta.

«Credo sia tu quella che debba correre, o mi sbaglio.» La superai, perché l'altra cosa di cui vivevo erano le sue emozioni. Le sue risate, le sue finte incazzature - come quella che seguì dopo che io la ebbi presa in giro, superandola lì, tra i campi, mentre correvamo come pazzi. La amavo come lei amava me. Era forse la prima persona con cui non avevo bisogno di arrabbiarmi, perché la pensavamo nello stesso identico modo. Anche per le opinioni che magari creavano contrasto, si trovava una soluzione. Non ci eravamo mai separati per una pausa di riflessione, né tanto meno urlati contro per qualcosa di futile. Sapevamo essere maturi, in più, sapevamo anche cosa contasse per davvero nella vita.

E quei brevi momenti che riuscivamo a ritagliarci assieme, che man mano con il tempo si erano ridotti sempre di più, andavano sfruttati al massimo. Avevamo missioni di ogni genere. Negli ultimi cinque mesi avevamo pensato di esserci avvicinati all'annientare gli EXO, avvicinati di molto. Eppure ogni strada che prendevamo sembrava condurci in vicoli ciechi. Si coprivano le tracce delle loro azioni troppo rapidamente per poterli seguire. Viaggiavamo per tutto il paese, di continuo. Avevo visitato più Busan in quei due mesi che in tutta la mia vita - e dire che i miei erano pure originari di quella cittadina.

L'addestramento con Cho Hee era durato un paio, forse tre settimane. Al suo termine, il mio diploma divenne il nostro primo bacio. Tutti, della Bangtan, credo fossero a conoscenza di noi, del nostro fare le ore piccole pur di contare i minuti assieme e non pensare a quelli in cui saremmo stati separati. Poi, con il mio essere perfettamente in grado di sopravvivere, cominciarono le missioni. Passavo sempre meno tempo all'Omelas, meno di tre, quattro giorni ogni due settimane.

Ma il mio rapporto con Cho Hee si rafforzava. Non era normale, non era dettato dalla ragione. Eravamo due disperati che, pur di aggrapparsi a qualcosa, avevano scelto l'un l'altro per sorreggerci. Credo che il cervello lo faccia in automatico, trovare qualcosa per cui continuare a combattere nonostante tutto il resto vada a farsi fottere. E quando dico tutto, intendo t-u-t-t-o.

«Non vale!»

Stavamo correndo su una collina, ai margini della periferia si Seoul. DI recente, circa due giorni prima, avevamo ricevuto una soffiata sulla presenza di una cellula terroristica in contatto - o in via di trattative, non ho ben presente - con il governo. Ma quella sera, no. Quella sera ci eravamo ubriacati come dei cretini perché la noia ci aveva assalito. Yoongi ci aveva coperto, di questo ne son sicuro. Perché al nostro ritorno, la mattina successiva, nessuno sembrò incuriosirsi.

Corremmo a perdifiato tra i campi dell'aperta campagna urbana. I sentieri costeggiati dai boschi e dalle villette indipendenti erano silenziosi. Bastavamo noi a disturbare i poveri cittadini che avevano scelto quel luogo apparentemente isolato per scappare dalla monotona vita cittadina. Quando mi fermai sopra ad una collinetta dispersa nel bel mezzo di uno dei campi di grano industriali - probabilmente di proprietà di qualche major del settore - Cho Hee mi saltò in spalletta ridendo a crepapelle. L'alcol la rendeva ancora più bella, se possibile.

Feci un paio di giri su me stesso con lei a peso morto poggiata con il petto sulle mie spalle, entrambi sorridevamo. Mi pregò poi di avvicinarla all'albero, così che potesse cogliere uno dei fiori appena sbocciati su di esso. Nonostante la mia statura non mastodontica, mi misi sulle punte e cercai con tutte le mie forse di farle prendere quel fiore che sapeva di genuinità. Quando poi lo colse, volle scendere a tutti i costi da me. Mi venne di fronte. Spostò una ciocca dei miei capelli dietro all'orecchio, e poi ci mise il frutto di quella pianta per tenerli fermi.

Quando mi prese le guance con le sue piccole mani io non ci vidi più nulla ed azzerai le distanze tra di noi. Il nostro bacio fu qualcosa di fantastico, per non dire magnifico. Letteralmente, da mozzare il fiato. Ci staccavamo regolarmente, ogni dieci secondi, per respirare e guardarci dritti negli occhi. Poi affondavamo di nuovo. Due paia di boccioli irriverenti che si scontravano tra di loro. Piano piano anche la lingua s'insinuò, rendendo il tutto più umidiccio.

Bagnato.

Le strinsi i fianchi e l'avvicinai a me. Necessitavo di tenerla stretta, di non farla allontanare. Come due ragazzini alle prese con la loro prima cotta - un po' come quando si è alle medie e si vuole imitare i giochi degli adulti - presi a baciarle il collo. Lo feci lentamente. Piano piano mi spostai dalle sue labbra - che comunque continuavo a bramare - percorrendo una linea immaginaria, prima lungo la mascella, poi verso la clavicola. Mi soffermai sul collo per più tempo. Quando la sentii sospirare più rumorosamente, iniziai a mordicchiarle un lembo di pelle. La feci ansimare, perché sentire quello che le provocavo mi causava un misto di emozioni imparagonabili ad altre provate durante la mia vita. Anziché fare il bambini, quando ebbi finito la mia creazione, non mi reputai più adulto. Non mi sentii più figo per aver marchiato la mia ragazza. Bensì le sorrisi, perché lei era mia. Mia nel senso diamine, nessun altro può fare quello che sto facendo io adesso, perché lei ha scelto me tra tutti.

E anche perché avevo sentito come il suo busto si fosse irrigidito, alla mia presa di potere. E in alcun modo, avrei voluto che mi immaginasse come quel bastardo che l'aveva violata anni prima. Mai mi sarei permesso di torcerle un capello senza il suo consenso. L'amavo in modo genuino. Lei era il mio fiore.

«Non devi farlo se non sei convinta.»

«Stai zitto e torna a baciarmi Park Jimin.» Sospirò contro le mie labbra, e io feci come mi aveva ordinato.

Cademmo nell'erba alta. Io sopra di lei. Le accarezzavo ogni centimetro del corpo, tastavo ogni centimetro della sua pelle. Era fantastica, profumava di luna.
Quando cominciai a sentire che qualcosa fosse cambiato, che il desiderio inevitabilmente si fosse impadronito del mio corpo, per un attimo ebbi il terrore di continuare. Di prendere i lembi di stoffa della sua maglietta e tirarli su. Ma lei lo fece al posto mio. Perché in realtà lei mi capiva.

Park JImin si era precipitato al suo cospetto prima ancora che il suo corpo potesse stramazzare al suolo. Lo sparo era avvenuto in lontananza, e pensare che i cecchini li avesse eliminati tutti. Era il suo compito, occuparsi delle retrovie. Invece la ragazza doveva concentrarsi sull'obbiettivo finale. Non fargli da scudo con il suo stesso corpo.
Si era tolto la maschera nonostante di spettatori ce ne fossero a sufficienza. Testimoni che presto avrebbero trovato la morte sulle proprie strade.

L'osservai con ancora indosso il reggiseno e mi sentii l'uomo più fortunato dl mondo. Quanti potevano vantare una tale meraviglia alle proprie mercé? Pochi, e non potevo credere di essere in quella ristretta cerchia di elitari. Poi osservai tutte le cicatrici. Lividi dovuti a recenti scontri, tagli e cicatrici guarite nel peggiore dei modi. E poi una voglia, vicino all'ombelico. Partii da quella, e poi disegnai una mappa di baci sul suo corpo. Me ne impadronii, nel mentre accarezzandole i capelli. Quello che stavamo per fare non volevo che ottenesse - nel futuro - solo un significato possessivo. Volevo che iniziasse a fidarsi di me più di quanto già non facesse.

Quando fui soddisfatto del mio lavoro, cominciai ad armeggiare con il gancetto del reggiseno, provando quindi a toglierglielo. Non appena lo feci, subito indietreggiai, perché volevo sapere che cosa stesse provando, indipendentemente che io avessi una voglia matta di possederla o meno.

"J-Jimin..." annaspò tra un conato di sangue e l'altro. Vipera le si avvicinò. La prese tra le sue braccia, forse perché stringerla mentre moriva dissanguata gli dava la falsa speranza di poterla salvare. Ma non stavolta. Non da qualcuno che solo lui avrebbe potuto uccidere.

Cho Hee mi guardò con altro terrore negli occhi. Non sapevo che fare. Non volevo farla sentire usata, né tanto meno una bambola di cui sbarazzarsi. Mi levai la maglietta, restando a torso nudo esattamente come lei. Quindi tornai con la bocca vicino alla sua, e restai così, fino a quando il suo respiro non si fece regolare. «Sono qui, non me ne vado.»

"Sono qui, non me ne vado" disse il ragazzo tra i singhiozzi, spostando una ciocca dei lunghi capelli corvini di lei dietro all'orecchio. Calde lacrime amare dal retrogusto salmastro scivolavano copiose sulle sue guance, nel mentre assisteva alla scomparsa della vita dallo sguardo della persona da lui amata. Si strette a lei come se per sentirne il flebile respiro ne avesse bisogno. Nel mentre cominciò a piovere su di loro, sopra alle loro teste un cerchio di nuvole dense e grigie si era raggruppato come attirato dalla sofferenza.

«Scusami, é tutta colpa mia Jimin.» Vederla così a pezzi mi faceva male al cuore. Vederla tremare come una foglia, in preda ai singhiozzi e alle lacrime, mi faceva dannare come un peccatore all'inferno. Solo che quell'inferno era reale, e soprattutto terreno. Lo potevo sentire allungando la mano. La stretti ancora di più a me, facendo combaciare tutti i lembi della pelle miei ai suoi. Un puzzle che non necessitava per forza di un atto sessuale, ma dell'amore profondo di due persone disperate.

"Scusami, é tutta colpa mia Cho Hee." Frignò il ragazzo, disperato come pochi. Tutto il mondo parve rallentare, anche gli scagnozzi di Baehyun si erano fermati, forse consapevoli che quello difronte a loro fosse vero amore.
E quindi vera disperazione.
Ma anche rassegnazione. Perché in due anni aveva creduto di essere diventato invincibile, una macchina perfetta per ammazzare uomini. E invece era solo un umano - tra l'altro basso - che con una pistola in mano aveva giocato a fare Dio decidendo chi dovesse morire e chi no.
Non era un sopravvissuto. Era un bastardo, uguale a quelli che aveva ammazzato.

La baciai dolcemente, sperando che smettesse di piangere. Ho già detto che odiavo vederla così e sentirmi impotente? Sentirmi in colpa, perché se non le avessi levato quel reggiseno lei non si sarebbe mai sentita sbagliata. Che poi, lei non era sbagliata. Era solo capitata nel momento sbagliato nel posto sbagliato quella notte, anni prima. «Shh, non ti devi scusare. Avremo tempo per farlo, perché io di qui non ho intenzione di andarmene.»

"Shh, non ti devi scusare. Perché io di qui non ho intenzione di andarmene." Sussurrò Cho Hee, tossendo ancora ma regalando a Vipera uno di quei sorrisi che difficilmente ci si scorda. Anche Jimin provò a sorridere, ma invano. Perché la consapevolezza che lei stesse morendo era la peggior arma con cui ricattarlo. O con cui farlo soffrire come un cane.
Come un coltello che ti perfora le viscere e che piano piano viene inserito sempre di più, ma mai estratto. Una morte interna lenta e dolorosa.

«Sei perfetta cazzo.» Sussurrai tra un bacio e l'altro, facendola finalmente sorridere. Quando avrei pagato per rivivere un momento del genere ancora. Non mi importava dei suoi limiti, delle sue mancanze, dei suoi difetti e delle sue imprecisioni. L'avrei sempre tenuta al mio fianco, pronto a proteggerla a spada tratta dal mondo. Sotto quelle stelle impiccione, continuai a baciarla fino a quando non mi mancò la saliva per deglutire. La luna splendeva, irradiava i nostri corpi, e sotto di essa siglai in eterno il contratto d'amore che provavo nei suoi confronti. «Ti amo, Lee Cho Hee.»

"Ti amo, Park Jimin." Fu in quel momento che Vipera esplose. Fu quella sera, esattamente un anno prima, che Park Jimin urlò disperato al mondo. Seduto sul freddo pavimento, reggeva tra le braccia la sua unica ragione di vita. Cho Hee. Ne accarezzava gentilmente le guance paffute macchiate di peccati e ne imprimeva mentalmente la sua immagine pura. Il tempo s'era fermato, l'aria pure, così come la sua sanità mentale fuggiva in un luogo a lui sconosciuto, la sete di vendetta sbocciava come un fiore in primavera.

Alcuni corvi erano appollaiati sul tetto di fronte, testimoni di un massacro immotivato.
Quella sera, mentre Park Jimin sedeva disperato, egli giurava agli astri che presto la loro padrona sarebbe potuta riposare in pace, perché giustizia sarebbe stata fatta.
Quella sera, Park Jimin giurò agli astri che Byun Baekhyun venisse condannato alla dannazione eterna, passando a peggior vita con una morte violenta.

Park Jimin sapeva mantenere dannatamente bene le sue promesse, e gli astri lo sapevano; per colpa di Baekhyun, Jimin aveva giá donato pace a sei anime mietute.
E questa volta, avrebbe agito da solo, senza l'aiuto di Cho hee.

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Quando vipera si avvicinò a Baekhyun lo fece con uno scatto. Gli piantò una coltellata nel costato, e poi parlò: "Questo é per Taehyung" Si allontanò poi dalla sua figura, quindi lui gli rise in faccia.
"Credi davvero che uccidendomi tu possa sentirti meglio? Andiamo, Jiminie..." sussurrò il primo ministro, ridendo nonostante il sangue che colava dalle molteplici ferite. Tutt'attorno a loro, i seguaci dei Corvi Neri rimanevano zitti. Era per questo momento che Vipera gli aveva addestrati. Per prendere il controllo del Paese ed evitare che altri tiranni potessero assoggettarlo al loro potere.
"Questo invece é per Jungkookie!" Gli tirò un pugno sulla bocca talmente potente da fargli sputare qualche dente e tanto altro sangue.
"Questi sono per Namjoon, e Seokjin!" Prese i due coltelli da lancio che teneva nascosti nelle tasche interne del cappotto e li affondò rispettivamente nei palmi delle mani di Baekhyun, facendolo finalmente urlare dal dolore.
"Questo é per Hoseok." Prese la benzina - riposta accuratamente sul tavolo del bunker che avevano reso una mappa di sangue e cadaveri e cominciò a spargerla su tutto il corpo del primo ministro. Egli singhiozzava, ma non parlava. E ciò faceva incazzare tremendamente Jimin.
"Questo invece é per Yoongi-hyung." Non urlò nemmeno, perché lentamente si sentiva svuotato di ogni peso. Prese l'accendino stile zippo dalla tasca dei suoi jeans e lo aprì. La scintilla, ed il fuoco subito dopo, apparvero e illuminarono di pazzia lo sguardo di Vipera. "Jiminie, non f-farlo." Lo pregò Baekhyun, ma nello stesso momento Jimin procedette. Lanciò l'accendino vicino alla sedia dove sedeva il suo caro ex amico Byun Baekhyun, e gli diede fuoco.
"E' colpa tua se i miei fratelli sono morti." Sussurrò raccogliendo da terra la pistola che prima aveva appoggiato per avere le mani libere e maneggiare con calma i coltelli. La prese e se la puntò alla tempia. Cominciò a piangere, disperato, sfogandosi dell'ultimo anno, di tutto lo stress che aveva provato dopo la morte della sua compagna di avventure, della sua migliore amica, della sua amante. Della sua fidanzata.
Della sua futura moglie.
"Ed é colpa mia se Cho Hee è morta lo scorso anno-" disse tra un singhiozzo e l'altro. Ma nemmeno la paura di morire lo fermò.
Park Jimin si sparò. Si uccise il 13 giugno 2020, dopo sette anni dalla loro creazione, l'ultimo membro dei Bangtan trovò pace nella dannazione eterna.





























Resoconto Sfogo 2020

TOTALE MORTI: 2783
Quest'anno le vittime che si ricordano sono: il primo ministro Byun Baekhyun e tutto il consiglio di Gabinetto, uccisi da Park Jimin durante le ultime dodici ore.
La nuova classe dirigente formata dai Corvi Neri vuole ricordare il loro leader morto suicida - in seguito all'uccisione di sua moglie Lee Park Cho Hee - come salvatore della Corea del Sud.
Quest'oggi, 14 ottobre 2020, lo Sfogo viene annullato con effetto immediato sugli anni a venire.
Possano i nostri morti riposare in pace.

Possano:
Kim Namjoon
Kim Seokjin
Min Yoongi
Jung Hoseok
Kim Taehyung
Jeon Jungkook
Lee Park Cho Hee
e Park Jimin vivere una vita migliore.

La nostra nazione li ringrazia per il loro sacrificio.
Firmato: il nuovo presidente della Corea del Sud





























Il giorno seguente, per le strade di Seoul, tutti ricordarono il sacrificio dei Bangtan.
Tutti gridarono, durante il minuto di silenzio, per protestare contro la morte di Park Jimin e Lee Cho Hee. Perché nessuno avrebbe mai dimenticato il loro disperato amore.

THE END

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