🦭 Rendimi, o pelle, padrona di me
Per una spiaggia lontana delle coste scozzesi
un monaco discese una via su anfratti scoscesi.
Scorse in mare la testa di una foca gioviale
e si avvicinò all'acqua, affascinato dall'animale.
La bestia si avvicinò e rivelò l'umana natura
di una femmina aggraziata dalla perfetta fattura.
Quella fu per il monaco una meravigliosa sorpresa
e da lì non volle più essere un uomo di chiesa.
Si innamorò a prima vista di quella ragazza
che gli parlava felice della sua corazza:
«Anche tu hai vesti per il tuo ambiente,
ma indossandole non sei parte di niente.
Io invece appartengo al mare che vedi,
appartengo alla pelle che nasconde i miei piedi.
Il mio motto, sai, questo è:
Rendimi, o pelle, padrona di me.»
Quando lo raccontò in giro nessuno lo prese sul serio,
e più tempo passava, più ardeva il desiderio
di unirsi a lei in matrimonio di fronte a Dio,
così da non dover mai e poi mai dirle addio.
La donna lo rifiutò. Non poteva restare:
non voleva rinunciare ad abitare nel mare.
Tuttavia continuò a incontrarlo spesso,
e, a volte, concedeva al disperato un amplesso.
Un giorno l'uomo escogitò un piano imbelle:
alla splendida selkie volle rubare la pelle.
La nascose con l'ausilio che diventasse sua sposa.
Era convinto che fosse possibile questa cosa:
far divenire la natura animale sempre più fioca.
E mentre stringeva il vello di foca,
che era il più sacro di tutti i trofei,
disse: «Rendimi, o pelle, padrone di lei.».
La selkie credette di aver perso la virtù:
«Hai visto la mia pelle? Non la trovo più»
e non sapendo né cosa fare, né dove andare,
accettò quell'uomo innamorato di sposare.
Passò le prime notti con lui su un letto di lana,
con la mente che vagava lontana,
con il corpo che giaceva accanto al marito,
ma con il cuore nostalgico e tramortito.
Un giorno trovò il suo vello dentro a un baule di legno
e scoprì che di lei il marito era indegno.
«Finalmente dopo giorni ritrovo te!
Rendimi, o pelle, padrona di me!».
L'uomo si infuriò e la riprese in ostaggio:
«Solo a me tu devi rendere omaggio!».
Picchiò la moglie per la sua condotta
e nascose la sua pelle dentro una grotta.
La selkie continuò ad abitare con l'uomo infame
per non rischiare di morire di stenti e di fame.
Nessuno sapeva cosa era lei veramente
e il mostro si mascherava di fronte alla gente.
Ma mentre alla selkie nessuno dava retta,
all'uomo tutti attribuivano la ragione corretta:
«Non lo biasimo, quella donna la luna pretende,
che lui ogni tanto si arrabbi, non mi sorprende.»
E così, la via mortale che lei aveva intrapreso
la rese vittima di un dio in terra sceso.
Le sembrava benedetto e dolce come il miele,
ma si rivelò un essere infimo, egoista e crudele.
Quando lei scappò di casa per un'aggressione,
si rifugiò nella grotta, scovando la sua unica unzione:
«Finalmente dopo settimane ritrovo te!
Rendimi, o pelle, padrona di me!»
L'uomo la catturò, prima che un'onda la prendesse,
la foca si svestì e la donna, esausta, si genuflesse.
Rimase presto incinta per quell'episodio brutale.
Lui si sbarazzò, di nuovo, del manto animale.
Non lo distrusse perché non voleva farla morire,
ma in qualche modo la pelle doveva sparire.
Così, invece che bruciarla, la diede a un mendicante.
Gli raccomandò di curarla e lo pagò in argento sonante.
Non c'era più uomo, ormai, che la selkie non disgustasse
e, poco dopo, partorì un maschio, come se non bastasse.
Una notte, per un caso fortuito, trovò chi aveva il vello.
Gli supplicò di ridarle il manto, ancora soffice e bello.
Il mendicante accettò, il suo splendido corpo lo colpì:
«La tua pelle avrai se ti concederai». E lei disse di sì.
«Finalmente dopo anni ritrovo te!
Rendimi, o pelle, padrona di me.»
Il corpo suo non era lo stesso di qualche anno fa,
ma, ciononostante, riuscì a indossare la delicata metà.
Prima di fuggire, però, tornò in quell'inferno
per avvolgere un'ultima volta in un abbraccio materno
il figlio che, tra gioia e dolore, stava crescendo.
Era l'unico uomo che lei trovasse stupendo,
era l'unico uomo che si rivelasse sincero.
Era l'unico uomo che l'amasse davvero.
Suo figlio pianse, quando ebbe chiara la verità,
disse: «Madre, vi prego, non abbandonatemi qua!».
Suo maritò sentì il lamento del bambino intristito,
vide la pelle di foca e intuì che la moglie l'aveva tradito.
La sgridò, la picchiò, la legò con un cordiglio...
fece tutto questo e di più, di fronte a suo figlio.
E con una disperazione, che più folle non c'è,
disse: «Rendila, o pelle, libera da te!».
Si diresse al porto per gettare in mare quel manto.
Vide un mercante con una grossa nave lì accanto.
Glielo vendette come tappeto e si assicurò che partisse
verso luoghi remoti come nei racconti di Ulisse.
Da lì non vi fu più giorno in cui la selkie non pianse:
invecchiata, calpestata, violentata e senza speranze.
Mentre il bambino diventava un uomo adulto,
con il sogno di viaggiare e lasciare la casa in tumulto,
e il marito, geloso, la deturpava con ogni pretesto
la selkie anelava soltanto di morire al più presto.
Il figlio divenne un abile sarto che per lavoro salpò.
Per questo abbandono, il suo cuore si frantumò.
Rimase di nuovo da sola a subire lo stesso supplizio
del marito che l'aveva ammutita per soddisfare ogni vizio.
Le onde, ormai, erano solo un ricordo sbiadito, ahimè,
e, mesta, cantava: «Rendimi... o pelle... padrona di me.»
I capelli della selkie si fecero bianchi e fiacchi,
e la schiena del marito disseminò gli acciacchi.
La donna ebbe finalmente l'occasione di scappare
per lanciarsi da una scogliera e morire lietamente in mare.
Da lontano giungevano delle navi maestose
lunghe e di legno con polene vistose,
contemplò sbarcare quelle meraviglie
prima di buttarsi tra le conchiglie.
Suo marito la seguì e la colse di soppiatto.
E lei non oppose più resistenza contro quell'uomo matto
che, stufo di inseguirla, di ucciderla decise.
Ma qualcuno, un altro uomo, brandendo una lama lo uccise.
Impietrì alla vista del volto del suo salvatore:
riconobbe il figlio, trentenne, che l'abbracciò con amore.
Mostrò una borsa: «Avrei voluto, madre, portarvi con me.»
s'inginocchiò: «Rendila, o pelle, padrona di te!»
La selkie afferrò la borsa e pianse quando l'aprì,
quasi non riconobbe quel manto conciato così:
sgualcito, lacerato, bucato, sporco... ebbe la paura
di non poter più indossarlo per tornare alla sua vera natura.
«Per te ho viaggiato, per te l'ho cercato. Non mi perdonerò mai
per non essere stato capace a fermare colui che padre chiamai.
Mostro! L'ho odiato e l'ho ucciso! Per te ho imparato a cucire.
Mi pentii amaramente che quel giorno non vi lasciai fuggire.
Il mio vero sogno era, ed è, renderti fiera e felice,
sistemerò e acconcerò questo manto che ti benedice.»
Il figlio mantenne ciò che promise, e il manto fu come nuovo.
La selkie, in lacrime, lo strinse a sé: «Finalmente ti ritrovo!»
Lo indossò e le sembrò di ringiovanire. Ed era così, in effetti,
grazie alla magia del vello di foca e i fili cuciti perfetti.
«Per mio figlio, l'uomo dal cuore più puro che c'è:
rendimi, o pelle, tutto quanto di me.»
E così fu il figlio della schiavitù della mortalità
a restituire alla selkie la sua libertà.
Si voltò a guardarlo per un'ultima volta:
sorrise nel sapere la madre finalmente assolta.
Non ci fu più tormento che percosse la foca gioviale,
non ci fu più momento che fece perire la donna esiziale.
Non ci fu tristezza che attanagliò il cuore del figlio,
che stavolta la fece fuggire senza battere ciglio.
Perché è vero che è chi ama non abbandonare,
ma è anche vero che è chi ama a lasciare andare.
«Nel cielo più alto che c'è,
nel mare più profondo che c'è,
nella terra più fertile che c'è,
nella morte più prossima che c'è,
nella vita più eterna che c'è,
mi hai reso, o pelle, padrona di me.»
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