io che scappo da noi per ritrovare me.
original
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Se ne sta in piedi davanti a me, e mentre la guardo l'unico pensiero che attraversa la mia mente è che sembra così docile sotto lo sguardo del sole cocente che si affaccia tra gli spiragli della veneziana alla finestra, facendo brillare la sua pelle eterea e i suoi capelli ramati.
Sospiro e continuo a guardarla. Vorrei riuscire a parlare, è tanto che voglio farlo, ma ogni volta che ci provo le parole sembrano congelarsi e scivolare di nuovo giù per la mia lingua, ustionando i miei organi interni, mentre i brividi di freddo si rincorrono sulla pelle della mia schiena. Vorrei davvero parlarle, ma non riesco mai a farlo, e mi rinchiudo inutilmente nel mio silenzio, schiavo della paura, travolto da queste sensazioni contrastanti, spazzato via dal mare in piena dei miei pensieri.
Sento il suo sguardo come pizzicare sulla mia pelle, e non posso fare a meno di pensare a quanto diversi siano i suoi occhi dai miei: sono di colore blu, innanzitutto, ed è la prima cosa che mi colpisce sempre di essi, ed una cosa che amo da impazzire – sono come il cielo e il mare insieme, come se tra i due non ci fosse una linea di confine, ma fossero piuttosto l'uno un'estensione dell'altro. I miei occhi, invece, sono marroni credo, eppure non posso esserne davvero sicuro: mi sembrano passati secoli dall'ultima volta che mi sono visto riflesso in uno specchio, e di certo non ricevo complimenti per i miei occhi, nessuno mi dice mai che sono belli, perché semplicemente non lo sono – o almeno non son belli come i suoi. Sono occhi e basta, i miei, mentre i suoi sembrano due lune incastrate un po' male dentro le due orbite, e ogni volta che la guardo dentro di me s'alza la marea, e ribalta immancabilmente ogni mia labile certezza. Mi sembra quasi di poterci camminare, nei suoi occhi – poggio i piedi sulla sua cornea e giro sull'orlo della pupilla – come se fossi Gesù che avanza a pelo d'acqua, come se nulla potesse toccarmi. E se la guardo al mattino, i suoi occhi sembrano appena nati: sono arrossati dal sonno, contornati dalle stelle che animano il cielo notturno, vividi, pronti a riempirsi della meraviglia del mondo. Eppure tra le sue ciglia si vela la paura, quell'ansia di non essere mai abbastanza, che proprio non so a cosa sia dovuta – lei, per me, è anche troppo, non faccio che ripeterglielo ogni giorno.
Continuo a guardarla e tiro un sospiro che sembra durare in eterno. Apro finalmente la bocca e lei, con un cenno della testa, mi incoraggia a parlare e a rompere con il suo della mia voce questo silenzio aspro e irruento.
"Senti..."
Ma poi non me la sento di continuare, boccheggio, la paura di rovinare tutto mi assale le viscere, facendole attorcigliare. Ho paura, paura di rovinare tutto quello che è stato – quello che noi siamo stati. E cosa siamo stati? Non siamo stati nulla, due granelli di polvere portati via dallo stesso vento, due anime erranti in cerca del loro significato. Io, il mio, pensavo di averlo trovato in lei.
Se ci pensi, cosa siamo stati, se non il nulla? Vuoto, solo l'intonato scrostato delle pareti del nostro appartamento, un muro pieno di crepe, un giorno di pioggia, la luce del nostro corridoio che non funziona mai – e mi ricordo di tutte le volte che lei mi aveva chiesto di cambiarla, ed io non l'ho mai fatto, e poi la notte m'alzavo e brancolavo nel buio, senza nessun lume a indicarmi la strada, nero nel nero. Siamo stati come la polvere accumulata su un mobile, poi qualcuno ha soffiato sui nostri corpi, facendoci avvicinare, facendoci trovare.
Mi guarda, interrogativa, e so che quello sguardo significa "come faccio a sentirti se non finisci la frase?"
"Senti, io... io non lo so..."
"Non sai cosa?", mi risponde con un tono glaciale, tanto da farmi gelare il sangue nelle vene. Ma lei lo sa benissimo, cosa io non so. Non so se mi ami ancora, non so se mi vuoi, e poi non so chi sono e cosa voglio io. Non so chi voglio essere, né chi sono stato. Non so più se ti amo.
"Non so nulla."
Di nuovo mi guarda, perché non capisce, e scruta ogni centimetro del mio corpo in cerca di risposte concrete.
"Non è vero che non sai niente. Quando fai così mi sembra di sentir parlare mio padre."
Ma io non voglio essere paragonato a suo padre, quell'uomo di cui tanto mi ha parlato, un uomo che è sempre fuggito da tutti i suoi problemi, dalle sue responsabilità, da tutti i suoi affetti. Non voglio essere come lui, io non mi sento uno che scappa via. Mi sento solo perso, mi sembra di essermi perso, tra ricordi e affanni, nel bianco di un giorno invernale. Mi sono perso come i bambini al centro commerciale, quando piangono e gridano nel cercare i propri genitori – e io vorrei gridare e piangere a mia volta, alla ricerca di risposte che non so bene dove trovare. Ed io so benissimo che invece i suoi, di genitori, non ci sono mai stati per lei, neanche quando lei aveva bisogno di un cuore in cui rifugiarsi, e questo ha scavato in lei un vuoto incolmabile. Loro sono sempre scappati lontano da lei.
"Fai finta, di non sapere niente", continua il suo discorso, ma io non la seguo più, mi sono perso fra i meandri della luce dei suoi occhi e non riesco a uscire. Mi sembra di essere caduto in una trappola da cui è impossibile uscire. "Fai sempre così e scappi dai tuoi problemi. Quando capirai che non puoi sempre fuggire, Niccolò?"
Non puoi sempre fuggire, Niccolò.
Non posso fuggire, perché nessun posto è abbastanza lontano. Come faccio a fuggire se i miei problemi mi seguono? Come faccio, se me li ritrovo sempre attaccati addosso col nastro adesivo, con la colla, e quando provo a strapparli via mi strappo anche la pelle e le carni e persino le ossa? Come faccio a scappare se il mio problema sono io, se il mio problema è la mia testa? Come faccio a spiegarle quello che sento, se lei è sempre stata sorda? Nessun posto sarà mai abbastanza lontano per me.
Allora sto in silenzio, zitto come sempre, ripensando alle sue parole, che continuano a rimbombare nella mia testa come un'eco.
Sento delle crepe aprirsi fra le pareti del mio stomaco, forse mi viene da vomitare, forse da piangere, forse da urlare.
"Mi vuoi rispondere?", mi incalza lei, urlando, ed io vorrei solo tapparmi le orecchie con le mani, non sentire, non sentirla più.
"Non lo so. È questo che intendo quando ti dico che non so niente. Non so chi sono, lo capisci questo? Cos'è Niccolò oltre a un ammasso di pelle e paranoie? Cosa c'è dentro di me, oltre ad ossa e cartilagine? Cosa si nasconde dietro ai miei occhi, nel centro della mia mente, cosa è rimasto rinchiuso dentro al mio cuore? Lo capisci, tutto questo? Non riesco più a comprendere quello che provo, non riesco a rimettere in ordine il caos presente nella mia testa. E come posso fuggire dai miei problemi, quando il mio unico problema – la cosa che più mi terrorizza al mondo – sono io? Non posso. Ma forse tu non la conosci, questa paura. Ho solo... bisogno di trovare delle risposte a queste domande. Ho bisogno di capire se sono più di questo."
Ogni suono arriva come ovattato alle mie orecchie, le immagini si sdoppiano davanti ai miei occhi e se li chiudo vedo solo il bianco, il vuoto della mia anima – e proprio qui, in questo momento, ho paura di svenire o morire proprio davanti a lei. La mia stessa voce risuona lontana, come se a parlare fosse stato un altro me, non il vero me, solo il riflesso rigettato indietro da uno specchio rotto. Sento di stare per svenire, sento di aver bisogno di sedermi e allora lo faccio, mi accascio contro il muro bianco alle mie spalle e scivolo fino al pavimento, e come se non ci fosse gravità, vedo le mie lacrime volare fino a colpire il soffitto, bucandolo, librandosi nel cielo bianco-azzurro di questo mattino.
Allora lei si avvina a me ed io mi vergogno, perché non vorrei che mi vedesse così. Forse ha ragione, scappo sempre. Scappo da tutto, e mi chiudo nello scantinato dei miei pensieri, solo per illudermi che esita davvero una via di fuga da ogni male – anche se poi mi rendo conto che il mio unico male sono io stesso.
"Ti amo", glielo dico, perché è vero e forse ha bisogno di sentirselo dire, ed io ho bisogno di dirglielo.
"Anch'io", mi risponde, però so che questa non è la verità, quanto più un sentimento sbadito dalla pietà, dai ricordi, dal dolore. Non mi fido quasi mai delle parole delle persone, perché sono solite ingannare mentre ti sorridono, mentre ti illudono indorando le loro angosce col sapore dolce del miele.
La bacio, sulle labbra, come se fosse la prima volta che lo faccio, mentre lei sobbalza al mio tocca, come se non fosse più abituata a sentirsi mia.
Poi mi alzo e me ne vado. Apro la porta, vestito solo di coraggio effimero. Esito, sull'uscio, una mano sulla maniglia, l'altra che trema incontrollabile – e io provo a stringere il pugno per evitare che se ne accorga lei. Muovo un po' il piede sulla vecchia moquette, poi rompo il silenzio sotto i suoi occhi ghiacciati.
"Ti penserò."
Perché non posso dimenticarmi di lei e di noi, perché non si può cancellare quel che è stato. E poi la perderò. Anzi, l'ho già persa del tutto. Esco e mi chiudo alle spalle la porta, senza neanche voltarmi indietro. Mi lascio dietro solo le mie parole: i rimpianti di un addio troppo frettoloso, i ricordi stantii di una relazione finita, l'eco dei nostri giorni d'amore. Richiudo tutta la nostra vita insieme al di là di quella porta.
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ciao !!
sono passati quasi due anni da quando ho scritto questa one shot, e nel frattempo il mio modo di pensare e, di riflesso, quello di scrivere sono cambiati molto. in parte sono cambiati anche i sentimenti che mi avevano spinto in primo luogo a scrivere questa breve storia. perciò ho deciso di editare la vecchia "cascare nei tuoi occhi", e portare qui una versione nuova, se possibile più intima, e spero migliore. critiche costruttive sono sempre ben accette !
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