𝑆𝑒 𝑑𝑜𝑣𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑟𝑒 𝑔𝑖𝑜𝑣𝑎𝑛𝑒.
⸻ 𝑫𝒊𝒄𝒐𝒏𝒐 che il lutto abbia cinque fasi: rifiuto e negazione, rabbia, patteggiamento e contraddizione, depressione e accettazione.
Non è così, e Chūya lo capiva poco a poco.
Un pezzo alla volta il suo cuore sembrava scrostarsi come le carta da parati dell'appartamento in cui viveva Dazai; quella carta da parati oscena, verde con le margherite bianche.
Persino quella carta da parati di pessimo gusto vecchia e rovinata gli mancava, e faceva parte del lutto di Chūya.
Il lutto non ha fasi.
Il lutto è una cosa pesante come un masso, un grosso libro di racconti e poesie, una valigia piena di oggetti propri e delle persone amate, una responsabilità; con ognuna di queste espressioni Chūya riusciva a descrivere il lutto.
Ma proprio non poteva suddividere in fasi una cosa così grande, così piccola, così personale ma che gli faceva venir voglia di raccontare la sua vita al primo sconosciuto incontrato per strada.
Il lutto non poteva proprio essere classificato e neanche teorizzato, per nessuno era lo stesso.
Per Chūya il lutto era la carta da parati ammuffita, il legno chiaro di una bara, la pioggia piena di profumo e un laghetto cristallino; carta ingiallita di un libro più vecchio del suo proprietario, le bende mediche che aveva finito e di cui non aveva intenzione di rifornirsi; le foglie che sbattevano e frusciavano contro il vetro della finestra, il silenzio confortante; il pianoforte nero e lucido che aveva portato in casa sua.
Si rigirò, per l'ennesima volta, un foglio tra le mani.
Candido, con alcune macchie grigiastre e ingiallite, portava poche righe, brevi, coincise ma capaci di mettere in subbuglio il cuore di chiunque.
"In caso morissi giovane, queste sono le mie volontà. Vorrei che avessi il mio pianoforte e la valigia sotto al letto. Vorrei che leggessi tutto ciò che ho da dirti e, se dovessi imparare a suonare quel piano, dedica la prima canzone a te stesso e la seconda a me. Ricordati che ti amo e che nulla di tutto ciò è colpa tua."
Il lutto non è un ciclo di cinque stadi. Il lutto è quelle poche righe che non puoi controbattere con nessuno se non con il vento, lo specchio o un pezzo di pietra con su scritto il nome di una persona cara.
E Chūya, in quell'esatto momento, avrebbe preso a cazzotti quella persona che era stata stupida abbastanza da dire che il lutto aveva cinque fasi.
Il lutto era quel peso, quel ricordo e responsabilità, che ti portavi dietro tutta la vita, alcune giornate più delle altre.
Forse era colpa sua.
Forse Dazai aveva sentito il bisogno di specificare quel particolare proprio perché era colpa sua.
Non sapeva neppure cosa aveva fatto, ma la sentiva come una sua colpa, una colpa che avrebbe espiato nel corso di una vita triste in solitudine.
Osamu Dazai se n'era andato, come sembrava aver sempre desiderato, e Chūya Nakahara vedeva il mondo con toni più chiari.
Sembrava fatto di acquarelli, chiari, morbidi e un po' ingenui ma che celavano emozioni quasi irraggiungibili; Dazai si era portato dietro tutte le sfumature e i toni più scuri, lasciando a Chūya un mondo accecante che non poteva sostenere da solo.
E Dazai era l'unico a poter provvedere le giuste tonalità e note scure all'acquarello di Chūya.
Acquarello che ogni giorno si rovinava sempre più, come fosse esposto sotto la pioggia torrenziale di novembre.
Ticchettava l'acqua fuori dalla finestra di casa e anche l'orologio alla parete, che Chūya ignorava ormai da ore.
Non sentiva nessun rumore, nessun suono, nulla. Si sentiva triste ma allo stesso tempo nulla era in grado di raggiungerlo in quella fossa in cui sprofondava sempre più.
Dov'era per lui quella pace in cui aveva perduto Osamu Dazai?
Per Chūya Nakahara, dov'era quella possibilità di chiudere gli occhi per non riaprirli più?
Dov'era quella bellezza anche nella morte che a Osamu era toccata?
Dov'erano le rose e le foglie che erano cadute con lui nel lago?
Dov'era quella bara di legno chiaro che avrebbero sepolto proprio accanto a quella di Osamu Dazai?
Dov'era il suo Osamu Dazai?
Perché sì, cosa Chūya non avrebbe fatto per rivederlo?
Non si sarebbe risparmiato nulla, avrebbe vissuto per lui, avrebbe ucciso per lui, avrebbe fatto di tutto per lui.
Si sarebbe ucciso per lui, ma sapeva che ognuna delle cose che avrebbe fatto per essere un passo più vicino al suo Osamu, non sarebbe stata neanche la metà triste o bella.
Perché Osamu sapeva far sembrare bello anche il lago in cui era affogato, le bende in cui aveva sanguinato, le fiamme che l'avevano bruciato. E Chūya? Chūya no, lui avrebbe tinto di rosso e violenza il mondo per il suo Osamu, oppure se ne sarebbe andato in silenzio, senza lasciarsi dietro alcuna lacrima per raggiungere il suo Osamu.
Osamu Dazai era ancora l'ossigeno che respirava infondo, il sole che lo illuminava, la luna che lo ispirava, e tutta quella bellezza dov'era finita?
Chūya non avrebbe potuto fare quelle cose per nessuno, e forse non era riuscito a farle neanche per Dazai.
E allora, perché tutto quello che gli era rimasto di Dazai era un pianoforte e una valigia piena di lettere mai spedite?
Che fossero lettere destinate al focolare o a delle persone, Chūya non lo sapeva e non era sicuro di volerlo scoprire.
Ma eccolo, con la valigia dinanzi e il pianoforte alle spalle.
Erano dei regali infondo, ed è scortese rifiutare i doni.
Avrebbe litigato con Dazai a proposito di quegli oggetti un'altra volta; doveva aprire la valigia.
Fece scattare i meccanismi di ottone e metallo anneriti, scuriti dal tempo. La valigia di cuoio marrone aveva un calore confortante, e fosse stato più piccolo, Chūya ci si sarebbe chiuso dentro, a dormire e inalare il profumo di carta e inchiostro.
Ma doveva stare fuori, in quel mondo in cui la pioggia non aveva più lo stesso odore e il whiskey ormai era solo amaro e sgradevole. In un mondo che di Osamu Dazai non aveva più nulla se non quel pianoforte, quella valigia e le lacrime di Chūya Nakahara.
Lacrime inutili, lacrime che non avrebbero riportato Dazai indietro. Come uno sciocco, però, piangeva ancora senza intenzione di fermare quella cascata di lacrime salate e singhiozzi trattenuti.
Più guardava quel "ti amo" sul foglio, adesso umido di lacrime, più il cuore gli faceva male. Bruciava, si strappava e si ricuciva, ma mai nel modo giusto.
Se Dazai lo amava, perché l'aveva lasciato?
E Chūya, se amava Osamu, era corretto lasciarlo andare? Come poteva lasciar andare quel fantasma come si lasciava andare una lanterna nel cielo pomeridiano?
Non poteva lasciare andare un ricordo così importante, sperando che il peso gravasse su qualcun altro o sulla lapide grigia che al cimitero segnava il posto che era spettato a Dazai troppo presto. Perché lasciare andare era sempre la parte più difficile di tutto.
E allora, come poteva Chūya andare avanti, lasciando Dazai Osamu indietro? Avrebbe vissuto per sempre al fianco di uno spirito coperto di bende e rose, perché altro non si sentiva di farlo.
Non era forte abbastanza per lasciarsi alle spalle Dazai.
Prese la lettera che stava in cima alle altre, ammucchiate disordinatamente proprio come i capelli di chi le aveva scritte.
Portava la data più recente e il numero uno, così come la firma "da Dazai Osamu" e "per Nakahara Chūya" in un angolo della busta.
Non se la sentiva di leggere quella lettera. Non se la sentiva di leggere qualunque di quelle lettere, apparentemente tutte indirizzate a lui.
E perché?
Aveva paura, era triste, non ne aveva la forza.
Perché alla fine era ancora il bambino spaventato e senza passato che era sempre stato.
Chūya Nakahara aveva bisogno di aiuto a costruire la propria identità: era cambiata nel corso della sua vita, fino ad arrivare alla migliore mai avuta, Osamu Dazai.
Chūya era Osamu, e Osamu era Chūya.
Un'anima divisa in due corpi, due menti e due cuori.
Ma adesso che Osamu Dazai era andato via, che cos'era Chūya Nakahara? Chi era?
Si era ridotto ad un pianoforte, lacrime, una valigia piena di lettere e il lutto per Osamu Dazai.
Perché che cos'è il lutto se non tutti i ricordi che abbiamo con una persona passata? Qualcuno che sappiamo non abbiamo più occasione di incontrare, di vedere e di toccare.
E il lutto per Osamu Dazai non era altro che un dente di leone, fragile e solo, con Chūya che era rimasto solo a proteggere quella piantina selvatica dalle folate di vento, impedendo che venisse spazzata via.
E se anche Chūya Nakahara fosse andato via, di Osamu Dazai non sarebbe rimasto più nulla, perché nella sua vita imperfetta non aveva fatto abbastanza per tutti da essere ricordato con nostalgia.
Chūya fissava ancora la lettera, rimirandone i più piccoli particolari, e persino in quelli trovava l'ombra e il respiro mancante di Dazai.
Effettivamente, c'era un posto in cui Chūya non vedeva Dazai?
No.
Lui lo vedeva ovunque, persino nel proprio riflesso allo specchio, nelle folle e nelle nuvole.
Ovunque si voltasse, qualcosa gli ricordava Osamu, ma lui non era mai lì.
Alcune volte aveva persino l'impulso privo di riflessione di dirgli qualcosa, di parlargli.
Seduto al bar, si voltava; prendeva il telefono e lo chiamava; lo cercava per le strade di Yokohama, solo per scoprire che di Dazai non c'era traccia e morire un pochetto sempre più dentro.
Perché era quello che stava facendo, stava morendo un pezzetto alla volta, piano piano, soffrendo più di quanto avrebbe voluto.
E avrebbe potuto fermare tutto ciò volendolo, ma proprio lì stava il problema: lui non voleva fermarsi.
Anzi, forse aspettava con ansia il momento in cui finalmente avrebbe potuto rivedere Dazai, senza lasciare alcuna traccia dietro di sé.
Infondo, chi sarebbe stato in lutto per loro?
Chūya sapeva bene che nessuno sarebbe stato lì a piangerlo; nessuno avrebbe portato dei fiori sulla sua tomba; nessuno l'avrebbe visto in qualunque particolare del mondo; forse, nessuno avrebbe neppure trovato il suo corpo.
E allora, cosa aspettava? Cosa aspettava ad andare via in silenzio, senza lasciare traccia di sé?
Forse perché sapeva che nessuno avrebbe portato i fiori sulla tomba di Dazai, e nessuno si sarebbe ricordato di lui.
Questa cosa non aveva molto senso in fin dei conti, perché Chūya si sentiva come l'ultimo spettatore. L'ultimo rimasto al cinema, seduto a fissare con occhi vuoti lo schermo che non proiettava più neppure i titoli di coda.
Tutti gli altri erano andati via, e lui era rimasto lì ad aspettare per un inizio che non ci sarebbe stato.
Forse Chūya era destinato a rimanere, lì, solo ma vivo.
Forse lui era destinato a vivere la vita per entrambi, sia per sé che per Osamu.
Il suo Osamu, quanto gli mancava.
Decisamente, quel dolore alcune volte avrebbe preferito non sentirlo, ma cosa sarebbe rimasto di Osamu, cosa sarebbe rimasto di Chūya, se avesse smesso di sentire quel dolore?
Nulla.
Chūya doveva rimanere lì. Almeno per il momento, si sarebbe arreso a vivere al fianco di un ricordo che si sbiadiva ovunque tranne che nella sua mente.
Finalmente, strappò l'orlo superiore della busta bianca e tirò fuori un foglio piegato e ripiegato.
Lo aprì, in religioso silenzio, quasi timoroso che qualunque suono avesse emesso avrebbe causato danni irreparabili al vetro invisibile che gli impediva di sentire l'orologio e la pioggia.
"Caro Chūya,
se stai leggendo questa lettera allora è perché sono riuscito in ciò che ho provato a fare per tutta la vita. Farla finita.
Detto così sembra insensibile, e anche io lo sembravo. So che sembravo senza sentimenti, senza un cuore, ma non è così che sono.
Io ho dei sentimenti come tutti, e ho dei sentimenti per te.
Non starò qui ad annoiarti, o almeno non in questa lettera, con tutte le cose che non ti ho detto, perché quelle ho avuto troppo tempo per dirle. Sono solo stato sciocco, al punto di pensare di avere tutto il tempo del mondo, rimandando sempre ciò che avrei dovuto dirti ogni giorno, il più possibile.
Sappi solo che ti amo, ti ho amato respirando, ti ho amato morendo e ti amerò anche dalla tomba.
Ti ameranno i fiori che cresceranno sulla mia tomba, e ti ameranno le mie ceneri sparse su una spiaggia o raccolte in un'urna.
Ti amerà il whiskey e ti amerà la pioggia, anche se non saranno gli stessi senza di me.
Vivi per me, perché io ero solo la tua metà: per quanto irrimpiazzabile, ero comunque la metà di qualcosa che non mi assomigliava per nulla. Tu, per me, eri il tempo ed uno spazio in cui esistere lontano dal mondo.
Il mio Chūya.
Sembravi odiarmi, e io sembravo odiare te, ma nulla di ciò che ci è successo sarebbe capitato se quell'odio fosse stato vero.
Probabilmente avrei solamente dovuto lasciarti una migliore impressione di me prima di andarmene, ma sono sempre stato troppo stupido per accorgermi in tempo di ciò che andava migliorato, detto o fatto.
Non prenderti colpe che non ti appartengono, perché non è colpa tua se io sono andato via. Non è colpa di nessuno se non mia.
Voglio quindi, che tu viva una vita migliore per entrambi.
Non espiare le mie colpe e i miei peccati, ma vai avanti.
Non dimenticarti di me, ma lasciami indietro. Tu sei ancora vivo, e meriti di costruirti una vita che possa essere migliore.
Piangi per me solo una settimana, e poi pensa a te e a qualcun altro.
Prendi questa valigia e riempila di pensieri, oggetti e lettere che prenderanno polvere sotto il letto, ma che saranno la capsula del tempo che ci porterà a far credere qualcun altro nell'amore in cui noi non abbiamo creduto abbastanza; ricordati di me se suonerai il pianoforte, suona qualche nota che ti faccia pensare a me ma non rimpiangermi troppo.
Voglio che tu viva una vita lunga, anche se solitaria.
Se sentirai il bisogno di avermi vicino, apri la valigia: guarda le foto, leggi le lettere che ho lasciato. Sono tutte per te, perché non avrei voluto lasciarle a nessun altro oltre che a te.
A te che sei bello oltre ogni confine; so che non riesci a vederlo, perciò te lo dico adesso che sei bello, e che la bellezza non è la stessa per tutti.
Tutte le cose che avrei dovuto dirti quando ancora vivevo, spero di averle scritte in quella carta, che porta il pesante fardello di amarti per me.
Con amore, il tuo Osamu."
Ed ecco che un'altra parte del cuore di Chūya andava in frantumi. Come se non fosse spezzettato abbastanza.
No, quella lettera non se la meritava. Perché Osamu era morto vedendo in lui un bello che non c'era.
Ed era arrabbiato, ma soprattutto triste, perché, come poteva quella persona essersene andata?
Quello stupido Osamu Dazai, quel ragazzo che l'aveva aiutato a creare ricordi era diventato lui stesso un ricordo. Com'era possibile?
Stupido, stupido Dazai, come hai potuto lasciare solo Chūya, un'anima a metà che necessitava di essere completata più di qualunque altra cosa.
O era meglio così?
Chūya non sapeva più nulla, non capiva più nulla, e nessuno era lì in quell'appartamento in alto nel centro di Yokohama per aiutarlo a venire a capo di quella complessa matassa di sensazioni, sentimenti e memorie.
Le lacrime offuscavano gli occhi azzurri di Chūya e rovinavano anche quel foglio con la calligrafia di Osamu che nessuno avrebbe più rivisto.
La calligrafia dritta, tremolante in alcuni punti, ma chi non avrebbe tremato scrivendo qualcosa come un ultimo addio alla persona più cara?
Ripiegò il foglio con delicatezza e mani incerte, e lo conservò nella busta e poi nella valigia.
Aveva provato troppe emozioni in poche ore.
Quel fardello pesante del lutto, altro non era che l'amore. L'amore che provava per Osamu Dazai, che c'era sempre nel modo sbagliato e quando non c'era più lo faceva nel modo giusto, lasciando di sé un mucchio di scartoffie in una valigia, un pianoforte e un'anima a metà incerta e sola.
Era così che lasciava capire a Chūya che l'aveva amato più di qualunque altra cosa, e l'avrebbe amato ancora e per sempre.
L'amava nel modo giusto, nel modo sbagliato, in qualunque modo esistente, possibile e impossibile.
Lui che l'amore non poteva neanche descriverlo, l'aveva provato e non l'avrebbe provato mai più.
Chūya si alzò dalla sedia su cui aveva passato gran parte della giornata, piangendo il suo amato.
Sentiva che avrebbe continuato a piangere per tutta la sera, ma almeno l'avrebbe fatto con una bottiglia di vino e un un calice di vetro, forse anche con una candela accesa per completare quel romantico quadretto che Dazai avrebbe criticato, ma di cui avrebbe parlato romanticamente alle spalle di Chūya.
Perché questo faceva: fingeva di non amarlo quando invece lo amava troppo.
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