𝟳𝟰

Barcollava. Nonostante quella mattina si fosse svegliato più in forma del solito, si ritrovò, tutto d'un tratto, a non avere nemmeno più la forza di reggersi in piedi. Il petto bruciava. La testa vorticava. Le mani tremavano. E il freddo del pavimento che percepiva contro i suoi piedi scalzi non ne era la causa.

Oikawa lanciò un'occhiata al borsone ormai ricolmo nell'angolo soffuso della sua stanza. Lo aveva preparato la sua matrigna, mettendovi all'interno i suoi pigiama e le sue tute preferiti - lui non aveva voluto saperne di avvicinarsi, nè di controllare.
Guardò di sbieco il suo armadio: le ante ancora aperte e i ripiani in parte sgombri.

Sorrise.
Ma non era sicuro di star davvero sorridendo.

No, probabilmente non lo stava facendo.

Non era più sicuro di nulla, ormai, se non che il suo tempo era agli sgoccioli. Dopo aver baciato Iwaizumi e aver nascosto quel biglietto nella tasca della sua giacca era scappato, proprio come un codardo. Non gli aveva detto nulla, e non lo aveva nemmeno guardato in faccia. Forse, una piccola parte di lui ci aveva sperato che accadesse, ma quel ragazzo non l'aveva fermato, nè cercato.

Oikawa non era sicuro di aver fatto la cosa giusta.

Era tornato semplicemente a casa, e poche ore dopo aveva avuto una crisi respiratoria. Sapeva solo di essersi addormentato dopo aver pianto in modo sfrenato, e di essersi svegliato di soprassalto incapace di respirare. Suo padre aveva chiamato d'urgenza un'ambulanza. Aveva sofferto così tanto, che non era nemmeno riuscito a ricordarsi di quel ragazzo, il giorno successivo, steso su di un letto d'ospedale. Gli avevano detto che le ricadute sarebbero peggiorate, e che sarebbe stato meglio iniziare dei periodi di ricovero, per monitorare al meglio la situazione. Non ricordava in modo lucido il tutto, a dire il vero.

Oikawa non era sicuro di aver metabolizzato appieno la cosa.

A breve sarebbero iniziate le prime sessioni di terapia, come già anticipato qualche settimana prima dai medici che seguivano il suo caso. In realtà, a breve sarebbe morto, perchè non c'era modo di curare ciò che lo stava divorando dall'interno. Lo aveva capito da tempo, anche se tutti cercavano di trasmettergli qualche sorta di speranza - e nemmeno ne aveva compreso il motivo, per di più. Non era mai stato troppo ottimista, e la cosa non sarebbe certamente cambiata ora. Ricevere parole di conforto non avrebbe cambiato nulla.

Si portò le mani sul volto, esausto.

Non voleva morire così.

In una stanza vuota, dai muri bianchi e spogli. In un letto d'ospedale, con accanto persone che lo avrebbero guardato impietosite, dall'alto.
Vulnerabile e impotente.

No, non lo voleva proprio.

Deglutì a vuoto, finendo per accasciarsi a terra senza nemmeno accorgersene. Il movimento involontario delle sue mani riuscì a prevenirgli una caduta rovinosa contro il pavimento.

Era stanco.

Non voleva morire.
Ma, forse, in un piccolo angolo remoto della sua testa, stava iniziando a sperarlo. Perchè ogni giorno era più difficile sopportarlo. Ogni giorno era più complicato ignorarlo.

Forse, nemmeno voleva attraversare il peggio, che ancora doveva arrivare - come se quello che aveva già passato fosse stato il nulla, a confronto.

Fu in quel momento che il telefono poggiato sul letto sfatto squillò.

Il cuore gli salì in gola. E, nonostante sapesse per certo che non c'era Iwaizumi dall'altro capo, non riuscì ad evitare di sperarci ugualmente. Era davvero pessimo, in fondo.

Ma andava bene così. Oikawa sapeva che era questo il finale giusto per entrambi. Iwaizumi era stato fin troppo buono con lui, assecondandolo anche in un capriccio simile - l'ultimo e l'ennesimo. Si accorse solo in quella manciata di secondi quanto avesse fatto penare quel ragazzo, in tutti quegli anni.

Oikawa non aveva un carattere semplice, ed era sempre stato l'altro ad andargli in contro, a sistemare tutti i suoi problemi, a spronarlo per continuare ad andare avanti. Era sempre stato il corvino quello più responsabile, quello più affidabile, quello più leale. Era sempre stato lui il suo punto cardine. Gli piaceva farlo innervosire con le piccole cose, e gli piaceva sentirlo sbuffare quando gli raccontava per telefono di qualcosa che non gli importava - nonostante questo, però, Iwaizumi non agganciava mai.

Gli piaceva costringerlo a portarlo sempre sulla solita collina fuori città per ammirare il panorama che si scagliava sotto i loro occhi, e gli piaceva osservarlo di sbieco mentre guidava concentrato. Era diventata una tradizione. Un piccolo rifugio dalla sua realtà. Un mero sogno. Quel ragazzo meritava così tanto, e lui non aveva mai offerto abbastanza. Ora, non aveva più nulla da lasciargli, nè tempo per farlo.

Se ne pentì.
Giusto un po'.

Chissà se Iwaizumi si era pentito di averlo conosciuto. Oikawa lo sperava.
Ma non era sicuro di sperarlo per davvero.

No, non lo sperava per niente.

Lesse di sfuggita il nome sul display del cellulare: era Akaashi. Quasi raggelò, preso in contro piede. Perchè se era Akaashi a chiamare, era sicuramente qualcosa di grave.

Non esitò a rispondere, poggiandosi con fatica contro i piedi del letto, seduto a terra.

«Hey, che succede?», Oikawa percepì la sua voce impastata quasi raschiare contro la sua gola, e si ricordò di non aver aperto bocca da quella tarda mattina, quando gli avevano concesso di tornare a casa e aveva deciso di non voler lasciare il suo letto.

«Kiyoko è scomparsa. Temiamo sia coinvolto il Nekoma. Vi spiegherò tutto tra mezz'ora qui, alla base. Riunione di emergenza. Avvisa anche Iwaizumi. Ci vediamo tra poco.», il castano non riuscì a dire nulla, e fu in grado di schiudere le labbra solo quando ormai l'altro aveva agganciato.

Kiyoko? Scomparsa?
Quasi non voleva crederci.

Da quando le cose con Iwaizumi si erano fatte più tese, non si era più tenuto troppo occupato con il Karasuno. Si era reso indisponibile per qualche settimana.

Fortunatamente, il Karasuno non faceva domande. Gli affari privati erano esclusi, e nessuno avrebbe fatto storie per sapere il motivo dietro alla sua volontà di mettere in pausa il tutto. Non l'aveva nemmeno detto ad Iwaizumi.

Eppure, la questione Nekoma gli era in parte nuova. Quel gruppo di sicari non c'entrava nulla con la loro realtà. Perchè mai Kiyoko ne sarebbe stata coinvolta?

Oikawa non comprese, ma finì per tornare a guardare il borsone posto a pochi metri da lui. Non riuscì a fare altro, se non ridacchiare.

La vita era decisamente ironica.

Sarebbe voluto sparire lui, al posto di quella ragazza. Aveva imparato a conoscerla, in parte, in quei mesi. Era genuina. Logica. Intelligente. E non era malata.

Se fosse stato lui a sparire, le cose sarebbero state migliori. Lei non se lo meritava, ma lui sì. Forse, quasi gli sarebbe piaciuto poter svanire senza lasciare traccia. Senza coinvolgere nessuno.

Si pentì subito, in parte, di invidiarla.

E quasi non si accorse di aver fatto muovere le dita sullo schermo del telefono: aveva aperto la sua chat con Iwaizumi. Gli ultimi messaggi erano di quella sera. Oikawa gli aveva chiesto se lui fosse ancora in quel parcheggio, nonostante fossero trascorse ore dall'orario concordato dal corvino. Iwaizumi aveva risposto con un "sì" in poche frazioni di secondo.

Il castano ridacchiò di nuovo. Ma non c'era divertimento nel lieve suono che lasciò le sue labbra. Le sopracciglia si inclinarono. Il sorriso sciamò. Non voleva scrivergli. Non voleva proprio scrivergli.

Ma forse, un po', lo voleva.
Non ne era sicuro.

"Kiyoko è scomparsa. Tra mezz'ora, riunione di emergenza."

Fu veloce e indolore. Mandò il tutto senza nemmeno rileggere, e lasciò in silenzioso il cellulare, nell'evenienza che quel ragazzo lo chiamasse. Non voleva rispondergli.
Non voleva parlargli.

O, per meglio dire, non ne sarebbe stato in grado.

Finì per poggiare la testa contro il letto, occhi chiusi e respiro pesante. Silenzio. Stava iniziando a stancarsi perfino di questo. E gli sembrava quasi di venirne schiacciato sotto il peso opprimente. Un ronzio di fondo.

Era davvero al limite.

Sollevò con lentezza le palpebre.

Non seppe cosa gli passò per la testa, ma decise di rialzarsi - seppur con enormi sforzi - e di vestirsi, rimpiazzando la solita tuta da casa con dei pantaloni e una felpa blu. Indossò la giacca, le scarpe e perfino la sciarpa.

Si fermò.

Ponderò se avesse senso rischiare di farlo. Riflettè sull'idea allettante di rimettersi i vestiti comodi di poco fa e ributtarsi a letto. Pensò anche che, in fondo, ormai nemmeno doveva interessargli più di quei ragazzi e delle loro sorti. Avrebbe dovuto preoccuparsi più della sua, di sorte.

Ma si mosse lo stesso. Nonostante sapesse di star facendo una follia. Nonostante fosse cosciente del fatto che non avrebbe dovuto farlo.

Aprì la finestra della sua stanza, cercando di non provocare nessun rumore udibile al di fuori della sua stanza. Aveva chiesto a suo padre e alla sua matrigna di lasciarlo solo - con la sola condizione che sarebbero passati a controllare ogni ora che tutto fosse ok -, perchè non c'era modo, con loro, di evitare il dover pensare alla sua malattia in modo ricorrente e incessante. Non c'era modo di uscire da quella gabbia. E, per quanto volesse loro bene, non ne poteva più dei loro sguardi ricolmi di tristezza e delle loro parole di convenienza. Era asfissiante. Gli serviva aria, in ogni modo possibile e immaginabile. Aria fresca. Aria nuova.

Uscì di soppiatto, con cautela. E subito il gelo gli scosse il corpo con un brivido. Scavalcò con lentezza la recinzione del suo giardino, stando attento a guardarsi intorno per evitare che qualcuno lo notasse.

Non sapeva quando sarebbe scattata un'altra crisi respiratoria. Non sapeva quando avrebbe sputato nuovamente sangue. Non sapeva se avrebbe nuovamente rischiato di perdere conoscenza. Ma sentiva il cuore battere incessante contro il petto. Le dita fremere per il freddo invernale. Gli occhi lucidi per l'aria che si batteva gelida contro il suo volto.

E quasi sembrava normalità. Quasi si illuse di stare bene, come faceva spesso. Quasi.

Perchè avvenne tutto in poche frazioni di secondo. Stava per raggiungere la fermata che distava un quarto d'ora a piedi da casa sua - vedeva di sfuggita il cartello in lontananza. Eppure, non fece in tempo nemmeno a portarsi una mano alla bocca: tossì di colpo, e sentì il petto bruciare, di nuovo. Ormai era tanto familiare quanto doloroso. Una morsa gli stritolò il torso, togliendogli il respiro.

La vista si offuscò per qualche istante, e finì per accasciarsi a terra, privo della capacità di mantenersi in equilibrio. Gli occhi erano spalancati, fuori dalle loro orbite. Il corpo scosso da una tosse ora convulsiva si ripiegava su se stesso, in un vano tentativo di ripresa. Non riusciva ad inspirare, mentre la testa iniziava a volteggiare, sempre più veloce. Si pentì di tutto. O forse di niente. Non ebbe tempo per sceglierlo, nè per capirlo.

Percepì qulcuno gridare il suo nome. Quando la figura lo raggiunse, il castano non fu capace di metterne a fuoco il volto.

Abbassò il capo; il suo sguardo puntato sul palmo della sua stessa mano: rosso. C'era sangue ovunque. Perfino sul marciapiede, in parte. Voleva ridere, ma non ci riusciva.

Davvero stupido.
Davvero ironico.

Riconobbe una voce familiare. Stava parlando al telefono, forse con un'ambulanza. Sicuramente con un'ambulanza. Era agitato.

Oikawa stava perdendo conoscenza. Non respirava nemmeno più, tra un tossio e l'altro. Il suo corpo, d'un tratto pesante. Si accasciò sul grembo dello sconosciuto, che cercava in ogni modo di tenerlo sveglio. Fu tutto vano.

Forse sarebbe morto così. Oikawa raggelò appena.
Per lo meno, non c'erano pareti bianche a circondarlo.

Non seppe bene quando, ma di colpo tutto si dissolse. La sua vista, il suo udito, i suoi pensieri, l'aria che non percepiva più scorrergli nella trachea.

Un buio pesto lo circondò.
E lui vi cadde all'interno prima ancora di potersene rendere conto.

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