𝟲𝟱

Kenma era un ragazzo pericoloso. Il rosso se ne era accorto dal primo sguardo.

E ciò non era dovuto a una apparente mancanza di empatia o di senso di colpa per ciò che faceva.
C'era qualcosa, nei suoi occhi, nella sua facciata inespressiva. Qualcosa di brutto.

Hinata raggelava ogni volta che incontrava il suo sguardo, ma era bravo a ignorare la pelle d'oca. Il battito accelerato.

Lo aveva imparato negli anni.
E non lo avrebbe più dimenticato.

I muscoli fremevano.
Le mani tremavano.
La gola era secca.

Sapeva di avere paura, anche se non poteva mostrarlo.

Ma Hinata non potè rifiutare la sua offerta quando i suoi occhi gialli lo puntarono.

Avevano scelto di chiamarlo con loro, quella sera, ma non al solito capanno. Il posto, questa volta, era fuori città, e aveva dovuto prendere l'autobus. Il ricordo del volto di Kageyama alla fermata sciamò all'istante, non appena nel suo campo visivo comparve un altro volto. Altri occhi. Altri lineamenti.

Era un ragazzo della loro età, ed era legato ad una sedia. Si muoveva in preda al terrore, inutilmente. L'aria era putrida in quella cantina. Lo guardava con sguardo inorridito, terrorizzato. Hinata sussultò, conscio di non poter più dimenticare quello sguardo, ma riuscì a mascherare anche quella nausea che gli stava risalendo lungo la bocca.

«Il braccio.», la voce di Kenma risuonò, seppur il suo sussurro. Molti della cerchia erano disposti lungo le pareti del piccolo ambiente, alcuni intenti a fumare, altri a bere. Il decolorato era l'unico in piedi, insieme al rosso, al centro di quel perimetro. Kuroo, alle loro spalle, osservava la scena con un ghigno, mentre il fumo della sua sigaretta si innalzava.

Hinata strinse maggiormente i pugni nelle tasche, cercando di mantenere il controllo di ogni singola parte del suo corpo.

«Voglio che gli spezzi il braccio.», specificò nuovamente il biondo. La vittima prese a muoversi disperata, ma le braccia legate ai braccioli della sedia non poterono sfuggire ai lacci stretti che ne impedivano il movimento.

Hinata si estraniò. Il cuore gli batteva all'impazzata nel petto, ma quegli occhi gialli erano su di lui, e questo faceva più paura che l'idea di rompere un braccio ad uno sconosciuto.

Il ragazzo legato provò a divincolarsi invano e a urlare, ma lo straccio che aveva attorno alla bocca glielo impediva. Hinata provò pena per lui.
E si sentì un mostro, ancora una volta.

Digrignò i denti.

Cosa sto facendo?

Fu un pensiero veloce e momentaneo, ma lo scacciò prima che potesse compromettere la buona riuscita della sua performance.

È solo un braccio.

Lo ripetè a mente, forse per giustificarsi, forse per minimizzare la situazione.

In fondo, aveva già fatto ben altro. Aveva sparato. E aveva quasi ucciso Kageyama. Non c'era modo di pensare che questo fosse peggiore.

Giusto?

È solo un braccio.

Kenma non si lasciò sfuggire nulla, scrutando ogni minimo movimento sul volto dell'altro. Voleva studiarlo, nel più minimo dei particolari. Lo incuriosiva. Voleva vedere una reazione su quella faccia inespressiva. Un minimo segno di cedimento.

Gli piaceva, in un certo senso.

Forse, sfruttandolo in altri modi, avrebbe scoperto qualcosa di più interessante.
Forse, spingendolo a fare qualcosa che non aveva mai fatto prima.
Forse, obbligandolo a diventare un vero e proprio cane a cui impartire ordini.

Non aveva mai avuto un animale da poter addomesticare. Forse, era il momento giusto per averne uno.

Ma Hinata non si smosse.

Non avrebbe fatto errori.
E non si sarebbe tirato indietro.

Sua sorella non avrebbe sofferto più a causa sua.
Era già un mostro.

Non c'era nulla da temere.

Andava bene così.

Era giusto così.

Anche se sapeva che c'era molto da temere.

Che non andava bene così.

Che non era giusto così.

Fu veloce a slegare il laccio sul polso del ragazzo, afferrargli in una morsa ferrea l'avambraccio, e a ruotargli con decisione il braccio. Bokuto gli aveva insegnato svariate tecniche di autodifesa nel corso di quegli anni, e nonostante il suo svantaggio corporale, aveva sempre cercato di non essere un peso su chi lo affiancava durante le sue missioni. Aveva bisogno di una mano per pararsi le spalle, ma sapeva difendersi. E attaccare. Forse, questo, più per l'odio maturato verso il padre, che per un effettivo uso in postazione.

E fu facile immaginare quell'uomo lì, al posto di quel ragazzo, su quella sedia. Serbava ancora così tanto odio. Per non averlo ucciso con le sue stesse mani. Per avergli permesso di rovinargli la vita, insieme a quella di sua madre e sua sorella.

Più odio, forse, di quanto ne serbasse prima.

Un urlo agghiacciante di dolore risuonò nella cantina putrida in cui erano riuniti.

Non è reale.

Hinata non si smosse, nemmeno quando ai lamenti del mal capitato si unirono risate e incoraggiamenti.

Non è reale.

Nemmeno quando vide la posa anomala che aveva assunto il braccio del ragazzo.

Non è reale.

Nemmeno quando Kenma gli ordinò di rompergli anche l'altro braccio.

Nemmeno quando gli disse di slegarlo e di pestarlo fin quando non avesse confessato ciò che sapeva su una faccenda che riguardava, molto probabilmente, degli scambi illeciti avvenuti alle spalle del Nekoma.

Hinata non era stato informato sulla faccenda nei dettagli, ma aveva compreso che lo stavano mettendo alla prova. Che, probabilmente, si stavano divertendo con lui, il novellino appena entrato in squadra. E che se non soddisfava i loro desideri, lo avrebbero fatto fuori.

Il sangue gli sporcò le mani spoglie, ancora.

Non è reale.

Il rosso non era in sè. O forse lo era più di quanto non volesse credere. Ma il terrore lo costringeva a rendersi ancora più impassibile. Ancora più distaccato.

Se non ci pensava troppo, poteva fingere che fosse tutto un incubo. Che fosse tutto falso. Che quella che aveva di fronte non fosse una persona reale. Che non stesse torturando nessuno.

Non è reale.

Bastava fingere.
E lui sapeva farlo.
Doveva solo continuare la recita.

«Allora? Ti è tornato in mente qualcosa su quella mazzetta? Se hai ancora problemi a ricordare, posso pensarci io.», Kuroo sorrise appena, rialzandosi per poter affiancare meglio il ragazzo a terra, coperto di lividi e sangue.

Gli allentò lo straccio alla bocca, che gli ricadde sul petto. Spense la sigaretta sulla fronte dell'altro, senza far caso alle lacrime che scendevano sul suo volto tumefatto.

I suoi lamenti di dolore continuarono, mentre farfugliava tra i singhiozzi ciò che sapeva in merito, offrendo nomi di persone coinvolte. Hinata fissò la scena senza nessuna emozione dipinta in volto. Senza nessuna emozione in corpo.

Si costrinse a comprimere ogni cosa. Ad annullarsi, pur di non rovinare tutto. Non doveva provare niente, perchè solo così avrebbe potuto addentrarsi tra loro. Solo così avrebbe potuto ottenere la loro fiducia. Convivere con quelle persone.

E fare soldi.
Farne così tanti da non averne più bisogno.

Non è reale.

«Hai finito.», la voce di Kenma lo fece trasalire, ma limitò la sua reazione.

Quegli occhi gialli, però, continuarono a fissarlo.
E Hinata non seppe per quanto tempo sostenne il suo sguardo. Per quanto gli rivolse l'ennesima maschera.

L'unica cosa che sapeva, era che avrebbe solo voluto scomparire.

«Domani, alla stessa ora, qui. Abbiamo altre faccende in sospeso.», quelle semplici parole pesarono quanto una gabbia appena ricadutagli addosso, e dalla quale difficilmente sarebbe riuscito a scappare. Come un animale in gabbia.

Il cuore tornò a battergli incessante nel petto.
Un'adrenalina strana in corpo.
Un terrore nuovo.

Ma il sorriso allegro di Natsu irruppe nella sua memoria, e si disse che era giusto.
Ancora una volta.

Andava bene.

Kenma gli passò la generosa ricompensa prima di lanciargli un'ultima occhiata. Riuscì a scavargli dentro anche in pochi attimi, e Hinata rimase gelato sul posto.

Non disse nulla.
Un piccolo sorriso, prima di alzare una mano in segno di saluto.

Hinata lo guardò sparire dopo che la porta si fu richiusa. E smise di trattenere il fiato.

Camminò con lentezza verso la fermata alla quale era sceso. Durante il tragitto a piedi, non pensò a nulla. La sua testa era vuota.

Non era troppo tardi, e forse sarebbe riuscito a salire sull'ultimo bus dell'una. Non si rese conto di star sanguinando fino a quando non si sedette sulla panchina, e il suo sguardo cadde verso le sue mani.

Nel rivedere quel rosso colare con lentezza dalle nocche doloranti, rammentò gli abbracci di sua madre. Quando era al limite, lei lo fermava sempre. E non aveva mai avuto paura di sporcarsi.

Ma, questa volta, non aveva potuto fermarlo. Aveva oltrepassato il limite. E lei non avrebbe più potuto abbracciarlo.

Questa volta, però, nessuno si sarebbe sporcato.

Non lo avrebbe permesso.

E andava bene così.


HEY HEEY HEEEEEY
ECCOMI RISORTA AGAINNN spero stiate tuttx bene come al solito! aggiornamento mattutino perchè ieri sera sono crollata prima di poter aggiornare quindi sì :")
mi scuso per il ritardo, come sempre, ma ormai è prassi rip

detto ciò, vi lascio alla lettura, e vi ringrazio di cuore di essere ancora qui a leggere, a commentare e a votare questa storia. ne sono molto felice, davvero tantissimo <3

see you!! :))

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