𝟲𝟯
Era buio. Nonostante fossero le sei di pomeriggio, il sole era già calato. Alzò lo sguardo al cielo, quasi distrattamente, ma nessuna stella lo illuminava.
Odiava l'inverno.
Faceva troppo freddo.
La notte era troppo lunga.
E lui pensava troppo.
Così tanto da non riuscire nemmeno a dormire.
Seduto sulla panchina della solita fermata dell'autobus, il tempo gli sembrò fermarsi - anche se, in realtà, era da settimane che aveva l'impressione di essere intrappolato in un presente che gli stava troppo stretto. Non sapeva come uscirne. Non sapeva come riprendere in mano la sua vita. E nemmeno lo voleva.
Non aveva voglia di andare avanti.
Non riusciva ad immaginarsi una vita diversa da quella che aveva sempre vissuto.
Non riusciva ad accettare la sua situazione.
Non riusciva a smettere di tormentarsi.
Era stanco.
Ma i suoi occhi non si chiudevano mai.
Nel profondo, sentiva di non meritare nulla.
Di non meritare di andare avanti.
Di non meritare una vita diversa.
Di non meritare di accettare e prendersi carico di quel dolore.
Di non meritare di essere felice.
Guardava in lontananza con i suoi grandi occhi color caramello, ma non riusciva a mettere a fuoco nulla. Aveva da poco lasciato l'appartamento di Bokuto, e sapeva che non vi sarebbe ritornato fino all'indomani.
Così come sapeva che ormai tutti si erano insospettiti per quelle uscite notturne. Sapeva di star sbagliando. Ci aveva rimurginato su molte volte.
Ma continuava a non avere scelte.
Nessuna alternativa. Nessun futuro.
Niente a cui aggrapparsi.
Non c'era più nulla.
Nemmeno nel suo petto, che giorno dopo giorno, si svuotava un po' di più. Pezzo dopo pezzo. Li stava perdendo per strada, e nemmeno gli importava di raccoglierli.
Niente era più così importante, se non sua sorella.
Era l'unica cosa che lo spingeva ad alzarsi dal letto. E non meritava nemmeno lei.
Più il tempo passava, più quel pensiero lo spingeva a farsi indietro. A farsi da parte.
Spesso Natsu se ne lamentava. Shoyo non giocava più così tanto con lei. Non le raccontava più delle sue partite di pallavolo. Non le faceva più bere il latte la mattina.
E lui non poteva fare altro che scusarsi.
Non voleva ferirla, ma starle accanto stava diventando sempre più difficile. Più doloroso. Più sfiancante.
E non perchè non l'amasse più.
Amava sua sorella più di quanto avesse mai amato altro.
Ma Hinata percepiva di non essere più lo stesso di prima. Di non meritare nemmeno di passare del tempo in spensieratezza con sua sorella.
Era disperato.
Quel senso di colpa lo stava mangiando vivo.
Lo stava allontanando dall'unico membro della sua famiglia. Lo stava cambiando.
E lui non poteva fare nulla, se non affondare sempre di più, consapevole di quanto quelle sensazioni nel petto non avrebbero fatto altro che distruggerlo. Perchè per quanto ci provasse, non riusciva più nemmeno a guardarla negli occhi, a volte.
Tutto si ripeteva nella sua testa.
Tutto tornava a galla.
E faceva male starle vicino, se non poteva nemmeno smettere di pensare a quella notte con lei. Al suo pianto. Alle sue grida.
A quella sofferenza che non aveva nemmeno compreso.
Era troppo per quel semplice ragazzino di diciotto anni da sopportare. Troppo da processare.
E troppo da sentire.
Egoista.
Lo disse a se stesso.
Perchè se non riusciva nemmeno a sopportare quel dolore pur di stare insieme a lei, non meritava davvero nulla. Se sentiva la necessità, a volte, di mettere se stesso e il suo dolore al primo posto, invece che lei, era un mostro davvero.
Deglutì a vuoto.
Quasi non si accorse dell'arrivo dell'autobus. Non appena le porte posteriori si aprirono per far scendere i pochi arrivati alla loro destinazione, il rosso salì dalle porte anteriori, prendendo subito posto sul primo dei tanti posti vuoti accanto ai finestrini. Un tepore leggero lo accolse, insieme alle luci calde e soffuse che illuminavano l'abitacolo. Inspirò a fondo, spingendosi contro lo schienale confortevole del mezzo.
E lo sguardo cadde subito oltre il vetro, in un gesto riflessivo. Ma non ebbe bisogno di attendere oltre per riconoscere la sua figura alta sul marciapiede.
Hinata raggelò, perchè i suoi occhi blu lo scovarono subito. Quasi istintivamente. Quasi sapendo già dove fosse.
Kageyama era lì, a quella fermata, oltre quel vetro, appena sceso. Lo guardava con occhi sbarrati. E il rosso lo fissò inorridito. Il cuore a battergli frenetico nel petto. Le mani a tremargli, d'un tratto.
Aveva ancora vari segni scuri sul volto, anche se accennati. Lividi che non sarebbero svaniti facilmente. Che gli facevano ancora male, probabilmente.
È colpa mia.
Un senso di nausea gli invase il petto.
La sua vista fu così fugace che quasi credette di averlo immaginato. Il veicolo si mosse poco dopo, e con lui anche l'immagine del corvino. Kageyama sparì, sostituito dal marciapiede che scorreva sempre più veloce di fronte ai suoi occhi ancora spalancati.
Hinata non riuscì a fare altro che boccheggiare, appiattendosi contro il sedile. Provò a calmarsi. A stringersi le mani per evitare che tremassero. A ripetersi di averlo solo immaginato.
Ma fu tutto invano.
Quel calore familiare lo invase nuovamente. Un formicolio strano si dilungò lungo le braccia. Lacrime calde gli inondarono il volto. L'ormai fin troppo familiare senso di colpa alla bocca dello stomaco. Non riuscì a smettere di tremare sotto la spessa giacca gialla.
L'ultima volta che lo aveva visto, aveva creduto di averlo perso per sempre.
Il volto smorto.
Il sangue a macchiargli gli abiti.
Gli occhi chiusi.
Era tutto ancora così vivido nella sua testa che gli era capitato spesso di avere incubi.
Nonostante più volte fosse venuto alla porta dell'appartamento per pregare di farsi aprire dagli altri, il rosso non aveva mai davvero avuto il coraggio di guardarlo in faccia, nemmeno tramite lo spioncino della porta. Di fronte al suo volto, temeva di crollare.
Di cedere ancora.
E di permettergli di entrare.
Aveva pregato di non vederlo più. Di dimenticarsi il suo volto, anche la vista del suo corpo inerme tra le sue braccia. Di eliminare ogni traccia di lui dalla sua vita e dai suoi ricordi. Che lui stesso si potesse dimenticare del male che gli aveva causato e della sua mera esistenza.
Per il suo bene.
Se lo ripeteva ogni volta.
Ma, in fondo, sapeva che non sarebbe mai successo. Non lo avrebbe mai dimenticato. Non voleva dimenticarlo.
E non voleva che lui lo dimenticasse.
Egoista.
Lo era, e non riusciva a non esserlo, nei suoi desideri più profondi.
Deglutì, rannicchiandosi appena. Più cercava di rallentare il suo respiro, più tutto sembrava vorticargli intorno. Chiuse gli occhi, solo per rivedere l'immagine del volto stupito di Kageyama oltre il finestrino.
Li riaprì all'istante, nel panico. Gli ci vollero minuti interi per riprendere il controllo.
Si impose di asciugarsi le guance con le mani fredde, e fu impossibile non ricordare quanto invece fossero sempre calde nei guanti dell'altro.
Per un istante, desiderò che fossero le mani dell'altro ad asciugargli le lacrime. Che l'autobus si fermasse solo per poterlo far salire.
Egoista.
Lo ripetè ancora, poggiando la fronte contro il vetro. Era un ammonimento mentale.
Sarebbe affondato da solo.
E si sarebbe dovuto abituare a quel freddo.
Anche quello che ora gli invadeva il petto.
Odiava davvero l'inverno.
Faceva troppo freddo.
La notte era troppo lunga.
E lui si era innamorato.
Così tanto da far male.
E non se ne pentiva nemmeno un po'.
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