𝟱𝟰
Era passata quasi una settimana da quando lo avevano dimesso dall'ospedale. Le ferite erano migliorate, così come i vari ematomi sparsi sul suo corpo. La spalla era ancora ben fasciata, sotto stretto consiglio medico - almeno per altre due settimane. Avrebbe dovuto pulirla e disinfettarla costantemente, facendo attenzione a non muovere troppo il braccio.
Se fosse stato per lui, sarebbe rimasto ben volentieri in quella stanza di ospedale.
Perchè già sapeva cosa gli sarebbe aspettato una volta tornato nelle mura di casa sua.
E le sue previsioni erano state esatte.
Suo padre non aveva esistato a mettere in atto un vero e proprio interrogatorio nei suoi confronti. Lo aveva sfiancato a tal punto che Kageyama si era perfino rifiutato di parlargli; occhi blu vuoti e spenti rivolti al pavimento. Seduto sul suo letto, con in mano il fidato pallone che, forse, nemmeno gli sarebbe più servito, e una sciarpa non sua stretta tra le dita, la scusa era sempre la stessa: non ricordava.
E, quel poco che rammentava, non lo avrebbe mai tirato fuori. Non avrebbe mai potuto farlo. Nonostante le continue domande sul perché si fosse trovato in quella casa, in quel distretto abitato da esclusi, sul perché conoscesse quella donna, sul come aveva fatto a ritrovarsi coinvolto in un omicidio.
Il corvino tacque, e questo bastò alla madre per convincere il marito, dopo ore di domande senza risposte, a lasciar stare il figlio. Era preoccupata. Così tanto da avergli categoricamente vietato di uscire di casa nei giorni seguenti al rientro a casa. E lui non aveva potuto fare altro che disobbedirle.
Inspirò a fondo, ad occhi chiusi, mentre l'aria fredda di metà gennaio gli punzecchiava il naso già arrossato. Sdraiato nel prato di quel parco dove aveva alzato ad Hinata per la prima volta, con al collo la sua sciarpa, deglutì a vuoto. Non ricordava nemmeno quando il rosso gliel'aveva prestata. Probabilmente quella sera.
L'unica cosa che rammentava con chiarezza era la sensazione di caldo quasi asfissiante che aveva provato mentre le sue labbra avevano sfiorato quelle dell'altro. Poi il vuoto, fino a quando non aveva sentito uno sparo in lontananza e la figura di Hinata gli era apparsa davanti, a terra, con gli occhi sbarrati verso quell'ombra che non riusciva a distinguere. Digrignò i denti, affondando il volto contro quella sciarpa che ancora odorava di lui.
Era tutto confuso.
Surreale.
Un incubo che, però, era stato realtà.
Voleva rivederlo.
Non voleva ammetterlo, ma gli mancava.
Gli mancava così dannatamente tanto.
Al punto tale che perfino respirare a pieni polmoni faceva male.
Hinata era sparito.
Perché lui non poteva credere, né ammettere, che fosse morto davvero.
Non poteva esserlo.
La notte stessa del suo rientro a casa, dopo essersi accertato che nessun inserviente stesse sorvegliando la sua stanza, il corvino era montato in sella alla sua bici, all'insaputa dei suoi genitori, ed era sfrecciato verso casa sua, seppur ancora con la spalla e il corpo dolorante. Ma quella casa era stata chiusa per un'ordinanza comunale. Strisce gialle di preavviso la confinavano e ne impedivano l'accesso all'interno.
Gli era crollato il mondo addosso, un'altra volta.
Quel senso di impotenza così familiare era tornato ad opprimerlo. Quello di non poter fare nulla.
Quello di star realizzando che la sua paura più grande si stava davvero materializzando.
Quello di star comprendendo che forse quei dottori avevano ragione.
Forse lui non c'era davvero più.
Perfino cercarlo nell'appartamento di quell'edificio abbandonato dove si ritrovavano sempre con gli altri non era servito. Per quante volte ci fosse andato, indipendentemente dagli orari, aveva sempre trovato la porta chiusa. Più bussava, più il silenzio lo assaliva. Nessuno nei paraggi.
Tutti erano scomparsi, quasi per magia.
E ora, steso in quel prato, di ritorno da un ennesimo giro di ricerca inutile, sentì gli occhi inumidirsi. Lacrime amare caddero veloci, prima ancora che lui potesse fermarle.
Era così furioso.
La voglia di fare a pezzi qualcosa continuava a salire. Nemmeno allenarsi - cosa che non avrebbe comunque potuto fare, date le sue condizioni - non sarebbe bastato a calmarlo. L'unica cosa che riuscì a fare, fu stringere i pugni e portarsi le braccia al volto, quasi a nascondere il suo stesso pianto disperato.
Non sapeva più cosa fare.
Non sapeva più cosa provare.
Non sapeva più dove cercare.
L'unica cosa che sapeva, era che amava quel ragazzo più di quanto avrebbe dovuto, e che non avrebbe potuto vivere senza.
Un dolore atroce gli strinse il cuore.
È morto.
Lo ripeté a sé stesso.
È morto.
Ancora.
È morto.
Un'altra volta.
È morto.
«Fanculo...», imprecò sottovoce, singhiozzando. Più cercava di accettarlo, più lo rinnegava. Più sentiva che c'era qualcosa di sbagliato. Qualcosa non andava. Qualcosa che lui, però, non ricordava.
Ed era così frustrante.
Sapere di avere le risposte, ma non riuscire comunque a trovarle.
Così come, in fondo, sapeva che quel ragazzo era ancora vivo. Da qualche parte, lui lo era.
Doveva esserlo.
Perché Hinata non si era mai arreso.
Hinata aveva una sorella per cui avrebbe rischiato tutto. Hinata non avrebbe accettato di morire così.
E nessuno gli aveva confermato che il suo corpo fosse stato trovato. Le ricerche erano ancora aperte.
Kageyama riaprì gli occhi, cercando di regolarizzare il suo respiro e placare il suo pianto.
Aveva sentito suo padre parlare al telefono. Stava dirigendo lui le indagini. La mamma di Hinata aveva ammesso di aver ucciso l'ex marito ed entrambi i figli, e di aver tentato di fare lo stesso con Kageyama, dato che aveva assistito all'esecuzione.
Ma niente quadrava.
Perché nascondere i cadaveri dei figli e non quello dell'ex marito? E perché avvisare la polizia e l'ambulanza? Perché non accertarsi di aver ucciso definitivamente anche lui? Perché lasciare che una delle sue vittime finisse per sopravvivere?
E soprattutto, perché togliere la vita ai suoi stessi figli?
Il corvino, in fondo, sapeva già quale fosse la verità. Quella donna, nonostante non la conoscesse a fondo, non avrebbe mai potuto farlo. Non con Hinata e Natsu. Non da come le erano brillati gli occhi mentre, durante quella mattinata spesa a casa loro, aveva osservato divertita suo figlio convincere la più piccola a bere il latte.
E tutto si bloccò, per un istante.
La realizzazione lo colpì in pieno.
Lo ha fatto per proteggerli.
Per proteggerci.
E altre lacrime rigarono le sue guance pallide.
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