𝟰𝟭
Il corvino percepì un brivido di freddo dilungarsi lungo tutto il corpo mentre si lasciava andare sul bordo di un marciapiede vuoto, i gomiti sulle ginocchia e la testa fin troppo pesante tra le mani.
Un mal di testa asfissiante gli stava impedendo di stare in piedi per poter continuare ad allenarsi, come aveva fatto per l'intero giorno, instancabilmente. Palleggi dopo palleggi, aveva raggiunto il limite estremo: per qualche attimo non si era più sentito le braccia e per poco la palla non gli era finita in faccia. Le mani si erano riempite di piccoli tagli causati dal freddo e quasi non si sentiva più le dita. Il volto congelato e i muscoli rigidi in ogni parte del corpo non avevano contribuito. Tutto ciò, però, non aveva fatto altro che stimolarlo a non demordere.
Sua madre era tornata a casa poco dopo pranzo, pronta per portarlo all'appuntamento con Kiyoko e sua mamma - fortunatamente il padre aveva lasciato casa poco prima che lei vi mettesse piede. Ne era venuta fuori una discussione che ancora sembrava surreale al ragazzo.
La donna che avrebbe dovuto amarlo e rispettarlo più di qualsiasi altra persona in quel mondo, non aveva fatto altro che rinfacciargli quanto fosse lui l'unico in debito con lei. Lei gli aveva dato un tetto sulla testa - non di certo i soldi dell'uomo che aveva sposato. Lei lo aveva cresciuto - non di certo le numerose domestiche e i suoi tanti professori privati chiamati appositamente per integrare la sua educazione e la sua formazione. Lei gli aveva donato la vita - non di certo una scopata di troppo. Lei aveva il diritto sulla sua vita - non di certo lui stesso. E, per questo, lei aveva anche il diritto di scegliere come lui avrebbe dovuto viverla.
«Quando crescerai, mi ringrazierai!», quante volte glielo aveva detto? E perchè più gli anni passavano, più l'idea di ringraziarla veniva sostituita da quella di mandarla al diavolo?
Perchè pensa di saperne più di me sulla mia stessa vita?
Non era riuscito a fare altro che maledirla prima di prendere la palla dal borsone e uscire di casa per non farvi più rientro. Aveva ignorato le sue minacce. Non sarebbe andato a quell'incontro. Si sarebbe opposto ad ogni costo.
Ma dopo una giornata persa in quel modo, vagando di parco in parco, si sentiva impotente al punto tale che, per un attimo, si chiese davvero se quello che stava facendo non era altro che un'inutile prolungare l'arrivo delle conseguenze. Si sarebbe sposato in qualsiasi caso. La scelta non era più sua.
La sola realizzazione lo fece imbestialire.
Gli occhi blu puntati a terra, finalmente, piansero lacrime amare. Non avrebbe mai permesso che accadesse davanti a qualcuno. Da solo, però, in quella strada deserta, illuminato solo in parte da un lampione poco lontano, con il buio fitto della mezzanotte a inghiottirlo, si lasciò andare.
Non durò molto. Non fu un vero e proprio pianto. L'espressione vuota non lasciò il suo volto freddo e pallido.
Dieci minuti dopo era già davanti ad un mini market, le mani in tasca per contare i pochi spicci riposti nella giacca. Entrò con l'intenzione di comprare qualcosa di caldo da mangiare, ma ne uscì con una bottiglia sconosciuta di un superalcolico in promozione. Non gli interessava il sapore.
Sperò solamente di poter alleviare il mal di testa che lo stava torturando con quello in circolo nel corpo - o, per lo meno, di potersene dimenticare. Tornò sul marciapiede, si sgolò la bottiglia in vetro e rimase a fissarsi le punte delle Converse nere ormai consumate.
Tutto iniziò a girare solo maggiormente, e per i primi minuti si maledisse. La testa gli stava scoppiando ed ebbe quasi timore di star per svenire. Solo venti minuti dopo smise di tenerla su con le mani. Gli sembrò sempre più leggera, man mano che il liquido si diramava in ogni parte del corpo. Ora aveva perfino caldo, nonostante la temperatura fosse vicino allo zero.
Quasi rise da solo.
Basta questo a far passare ogni cosa?
Lo sguardo cadde quasi istintivamente sul cellulare che sfilò dalla tasca dei pantaloni della tuta. L'azione gli impiegò qualche minuto, a causa del disorientamento provocato dall'alcool: ventidue chiamate perse dalla madre, una dal padre. Nessuna emozione lo scosse alla vista.
Non seppe come, nè perchè, ma le sue dita si mossero da sole.
Il ragazzo dai capelli rossi sobbalzò. Una vibrazione fin troppo vicina lo ridestò dai pensieri che lo stavano schiavizzando da ore, incatenandolo al letto. Sfilò veloce il cellulare da sotto il cuscino.
Il solo leggere quel nome sul display vecchio e ormai rotto gli fece balzare il cuore in gola.
«Kags?», il suo sussurro era confuso, Kageyama se ne accorse. «Che succede?», domandò, in parte terrorizzato, non udendo risposte dal capo opposto. Si alzò a sedere nel letto, stringendo le coperte tra le mani. Una paura malsana gli risalì lo stomaco.
Temeva fosse successo qualcosa di grave. Temeva costantemente potesse succedere qualcosa.
A sua madre.
A sua sorella.
Ora perfino a Kageyama.
Quanto era diventato stupido.
Ma quel terrore non lo abbandonava mai.
Non importava quanto ci provasse.
Non sarebbe mai sparito.
Kageyama inspirò a fondo prima di stringersi maggiormente il cellulare all'orecchio. Una folata d'aria gelida lo investì, ridestandolo appena. Riprese lucidità, e ogni cosa accaduta quel giorno sembrò scorrergli nuovamente davanti gli occhi.
«Perchè diavolo è tutto così sbagliato?», la domanda gli uscì spontanea; il timbro di voce incrinato. Hinata puntò lo sguardo in basso, ammutolendosi. «Vorrei solo poter scegliere. Vorrei avere il diritto di farlo, merda! Non è qualcosa di scontato? Perchè cazzo devo accontentarmi di una vita già programmata da qualcun'altro? Perchè cazzo vivo, se non posso nemmeno decidere come farlo? Dio...», si passò una mano sul volto, percependo la vista offuscarsi appena. Non stava piangendo, o per lo meno, così continuava a ripetersi.
Il rosso non riuscì a fare altro che sentirsi schiacciare ancora una volta contro quel materasso. Un peso strano gli ricadde addosso.
Perchè si ritrovava nelle parole dell'altro più di quanto avrebbe mai ammesso. Perchè non sapeva come rispondere a domande che si poneva lui stesso.
«Fanculo...», un mugugnio fece accigliare il più basso, che rizzò le orecchie, sentendo quello che sembrava un rombo d'auto sfumare via tramite la linea telefonica.
Si stranì.
Di fatto, Kageyama aveva quasi rischiato di farsi portar via i piedi da un'auto che gli sfilò di colpo davanti, ad una velocità sicuramente non consentita.
«Hey, dove sei?», domandò Hinata, già addocchiando le scarpe nell'angolo opposto della piccola e ormai asfissiante camera. Il corvino strinse gli occhi, d'un tratto un conato di vomito gli salì in gola. Riuscì a rimandarlo giù solo dopo qualche respiro profondo. Forse bere così tanto in un colpo solo non era stata una così grande idea.
Il rosso, nel mentre, si stava già vestendo, continuando a riperere all'altro dove si trovasse. Il cuore gli batteva fin troppo forte nel petto. Non sarebbe comunque riuscito a dormire sapendo che Kageyama era fuori casa, in uno stato che non pareva totalmente lucido.
Il corvino riuscì a rispondere in modo appropriato solo dopo aver ripreso il controllo del proprio corpo.
«Posso stare da te stanotte?», mugugnò appena, e la domanda uscì dalle sue labbra fredde così improvvisamente che Hinata si bloccò, per un istante. Per qualche assurdo motivo, sentì il collo farsi sempre più caldo. La gola era a fuoco.
Una felicità strana lo investì, tutto d'un tratto.
Ne ebbe paura.
Eppure, un piccolo sorriso gli illuminò il volto chiaro.
«Ti avrei obbligato a farlo comunque...Non sembri stare troppo bene. Ti vengo a prendere. Dimmi dove sei, però.», tentò ancora, infilandosi la solita giacca gialla che amava indossare sopra la felpa del medesimo colore. Dopo aver afferrato cappello e sciarpa, aver avvisato la madre che stava uscendo per poi tornare subito con Kageyama ed aver chiuso casa si affrettò a fare il giro del piccolo giardino, indirizzato verso la sua bici.
«Vicino al mini market. Quello dell'altra volta...Credo.», borbottò appena il corvino, ricordandosi di aver riconosciuto il cassiere addormentato della scorsa volta. Gli aveve chiesto di sfuggita se fosse maggiorenne prima di accettare i soldi del pagamento e tornare con la testa sotto il giornale. Per il resto, al momento, non ricordava un cazzo, men che meno di come fosse finito per arrivare in quel quartiere. Il rosso annuì al vuoto, già in sella.
«Arrivo. Quindici minuti. Non muoverti.»
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