𝙏𝙃𝙀 𝙁𝙐𝘾𝙆𝙄𝙉𝙂 𝘾𝙍𝙀𝙏𝙄𝙉
ɪ ʜᴀᴠᴇ ᴛʜɪꜱ ᴛʜɪɴɢ ᴡʜᴇʀᴇ ɪ ɢᴇᴛ ᴏʟᴅᴇʀ ʙᴜᴛ ᴊᴜꜱᴛ ɴᴇᴠᴇʀ ᴡɪꜱᴇʀ
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Picchiettava. Le dita continuavano a forare i tasti del piccolo MacBook e accompagnavano un tamburello meccanico; stavano scrivevano, quello che era in principio, un lungo e tortuoso processo divenuto ora molto breve, come la distanza che si era creata fra Ki Dalai e una fottutisisma laurea in Sociologia.
«Da uno a undici, il tizio che ho conosciuto qualche giorno fa, é decisamente un otto» una palla colorata alla ciliegia sgusciò appiccicosa e insalivata dalla bocca, «Se solo fosse più alto...»
«Si dice da uno a dieci» rispose la proprietaria delle dita picchiettanti senza guardarla minimamente, troppo concentrata a deteriorarsi le retine al computer. L'altra alzò gli occhi al cielo davanti alla puntigliosità dell'amica. «Il dieci é sottovalutato, Dio, hai bisogno di essere aggiornata»
Dalai digitò l'ennesimo punto e a capo scrocchiando il collo sfinita. «Certo, quando piace a te e ai tuoi comodi»
«Da permalosa aggiornata sui trend, permettimi di dissentire sull'argomento. É la base, Dal, fattelo piacere perché é utile. Così non sei costretta a limitarti al dieci» smosse una mano, forse anche l'altra, fatto sta che pensava di avere assolutamente ragione su un discorso irrilevante e privo di logica.
Inarcò un sopracciglio. «Così utile che ti sei limitata a dare otto a tutti quelli con cui sei uscita negli ultimi due mesi, Hien» sentenziò riprendendo a scrivere il paragrafo, soprannominato da lei stessa, figlio di Satana.
La stessa Hien, nata a Hanoi, ovvero nella capitale del Vietnam dove ha vissuto fino all'età di cinque anni, drizzò il lecca lecca alla ciliegia contro la faccia brutalmente corrucciata di Dalai. «Attenta a quello che insinui, ci sono stati anche dei sette fra i tanti otto»
«Ah,» mormorò disinteressata, «Touché»
«Sei dannatamente irritante quando mi ignori e,» sbuffò affranta, scrollandosi addosso ogni insulto, ormai caduto nella ritirata per annoiarsi un altro po' sulla sedia del piccolo appartamento della sua amica, «fottutamente stitica. Evadi mai al giorno?»
«Evadere?» si mise a fissarla, «Si dice evacuare, Hien, Cristo Santo. Si evade da una prigione e non dal cesso di casa» la corresse con uno micro sorrisino sotto i baffi mentre la faccia dell'amica subiva l'incandescente danno dell'imbarazzo. «É colpa della lingua, credi che sia così facile imparare il coreano?!»
«Tsk» la beffeggiò, «Sei qui da diciotto anni e quando sei arrivata a Seoul non parlavi neanche vietnamita e, dialetticamente parlando, sei molto meglio tu di mio padre. Continuo a non capire un cazzo quando viene fomentato dai drama girati nelle contee di Jeolla, sembra un orso ubriaco con crisi di identità»
«Non avrai preso il dialetto di Jeolla ma, tesoro, imprechi dignitosamente. Ci vuole una certa costanza—»
«Non prendermi per il culo, ormai mi sono ambientata benissimo a Seoul e ci vivo da quindici anni. Non sono maleducata» si pigiò le dita ai lati della fronte e mugolò stanca. «Se continuo a scrivere diventerò matta»
«Se vuoi ti posso raccontare qualcosa di me e dell'otto per staccare un po'. Prendi una tazza di tè!» disse Hien ma Dalai non era fu per niente convinta dalla proposta dell'amica. E, poche aspettative, le diede comunque una parte d'attenzione acustica.
«É un otto ma per come la sa leccare potrebbe raggiungere un bell'undici»
L'ultimo neurone di Dalai arrivò al capolinea, scese dal treno rosa e costruito da cervella cerebrali per scaricare il suo misero corpo nella stazione centrale con dei buoni sconto sull'analista dietro all'angolo. Il neurone spaccato a metà riuscì ugualmente a scorgere, nonostante fosse ormai menomato, le idiozie della sua migliore amica stampate sui cartelli d'uscita della stazione.
Non c'era una fine a questo sconcerto.
«Sai cosa ti dico?» chiuse il laptop e strisciò la sedia all'indietro per alzarsi dal tavolo del salotto e raggiungere la credenza, in modo che fosse più lontana da Hien, «Credo che andrò a prendermi quel tè e andrò a evadere in bagno, per scaricare insieme ai ieri resti del mio corpo anche la testa, giù per lo sciacquone»
«No! Dai! Fatti il tè e torna qui che fra meno di un'ora devi andare a lavorare, non ho finito di raccontarti di come mi sono seduta sulla sua faccia» allungò una mano drammaticamente mentre menzionò un dettaglio che vece venire i brividi a Dalai.
Il lavoro.
Sua madre l'aveva portata via dal meridione di Jeolla per iniziare una nuova vita al di fuori dei campi arancioni e verdastri che profumavano di terra appena smussata dall'aratro, delle città rustiche e dai mercati che ogni quattro giorni venivano organizzati fra la puzza di calamari e soia fermentata. Credeva che trascinare quel piagnone isterico del marito in una città come Seoul potesse in qualche modo fargli tornare un po' di sale in zucca ed essere un buon esempio per la loro bambina.
Credeva, un imperfetto che poi venne cambiato fino a declinarsi in un presente per nulla dignitoso.
Spedì a calci nel culo il marito a fare il suo solito lavoro come dipendente statale dietro a un computer in città, sottopagato, e lasciò che sua figlia, l'intelligente e temprata Dalai, studiasse in una scuola con sistemi di aria ventilata nelle classi — tutte le avevano, ma abituati a Jeolla avevano aspettative precarie.
Studia. Studia tanto, Dal, impegnati! — le ripeté fino a vomitare gli occhi, andrai in una bella università e troverai un buon lavoro.
Era riuscita a entrare in quella benedetta università dopo aver perso cinque chili per lo stress e quintali di capelli durante gli esami di ammissione, ma il lavoro... Quello era un tasto dolente.
Hien si era congedata poco dopo il suo tè e quando vide l'amica chiudersi la porta alle spalle dovette alzarsi dal divano, farsi forza, e ciabattare verso la cabina armadio per racimolare l'uniforme del negozio. Mentre camminava con quella maglietta nera, con il titolo della catena stampata come logo dietro la schiena, credeva che al posto del nome ci fosse la scritta "fallita".
Chiuse gli occhi prima di entrare, provò a cacciare indietro il vomito che le salì dall'esofago alla vista dell'insegna e sbuffò, riproducendo lo stesso identico rumore di un bollitore a pressione.
Le porte scorrevoli si aprirono appena fece apparire l'ombra del suo piede e quella puttana automatica sembrò scorrere più velocemente del solito — più di quando ci metteva a uscire in chiusura, é poco ma sicuro. E all'improvviso le luci del neon le arsero le retine, la musica delle casse strappavano timpani e capelli ed era così alta che era impossibile comunicare con chi vi era in cassa.
Alzò il capo, strinse i glutei e serrò i pugni all'altezza dei fianchi per poi avanzare verso le sei corsie che separavano quel negozio — ai suoi occhi orrendo — con scaffalature alte quasi quattro metri e lunghe cinquanta. Salutò alla svelta la sua collega, privata di vita e dignità, alla cassa dove era impegnata a litigare con una vecchia della capitale a proposito dell'impazienza e sui prodotti di scarsa qualità.
«Iniziamo bene» mormorò sottovoce Dalai ormai davanti agli armadietti blu oltremare di quella prigione. Sentì uno scarico alle spalle e un piede che calciò la porta di ferro con poca grazia. «Porta di merda! Prima o poi ficcherò della dinamite in quelle giunture del cazzo» si bloccò, vide davanti a sé un paio di occhi grandi e una cascata di capelli mori e sorrise.
«Dal! Sei dannatamente in anticipo» allargò le braccia mentre Dalai tornò a chiudere semplicemente lo sportello. «Mancano solo dieci minuti al mio turno, per te sono troppo in anticipo perché sei abituato a farti richiamare per i ritardi»
Jacob sembrò pensarci un secondo e si ritrovò indubbiamente in accordo. «Potresti avere ragione»
«É diverso,» sogghignò legandosi i capelli lunghi, «ho ragione e quella che hai sotto le scarpe é carta igienica» gli indicò le scarpe antinfortunistiche. Jacob fece una smorfia e prese un qualcosa per staccarselo dalla suola.
Entrambi uscirono dal magazzino e presero a camminare lungo le corsie devastante dal disordine. «Programmi per oggi?» chiese un po' terrorizzata dallo scoprire quale corsia doveva sistemare nella fretta. Il biondo tinto fece mente locale e le disse che da sistemare c'era il reparto della cancelleria.
Dalai sbarrò gli occhi e afferrò tutto l'occorrente per lavorare da sotto la cassa: «Ma l'ho fatta due giorni fa! Come é possibile che sia stata ribaltata di nuovo, quella maledetta corsia?!» domandò scioccata. Jacob fece spallucce, «Studenti,» masticò criptico, «hanno un gran da fare»
«Anche io avevo un gran da fare quando studiavo all'ultimo anno ma non consumavo carta e penna ogni settimana» socchiuse gli occhi imprecando mentre lasciava Jacob al suo lavoro come cassiere temporaneo.
Il suo lavoro costituiva nel sopravvivere meglio che poteva dall'inizio del turno fino alla fine, in mezzo alla bolgia, con clienti maleducati e privi di considerazione nel rispettare chi lavorava in quel posto di merda, e doveva spacciarsi come semplice commessa davanti agli occhi di tutti, mentre in realtà, si spaccava il culo come una magazziniera.
Usciva dal magazzino, ripieno di bancali, con una decina di scatole da esporre — era merce mista, le capitava fra le mani scopini per il bagno, presine per la cucina o vasi con sessanta centimetri di circonferenza da riporre in cima alla scaffalatura con il solo uso della scala — mentre lungo il collo era obbligata a tenere una pesante radiolina per comunicare con i colleghi.
E correva. Dalai era sicura di aver potuto partecipare alla maratona di New York per la moltitudine di chilometri che il suo conta passi indicava sull'orologio. Veniva sballottolata per quasi settanta metri di negozio come meglio piaceva ai compratori, perché alla fine lei era pagata per servire i clienti come un fottuto cane.
Quel pomeriggio, per lei, sarebbe stato difficile e lo capì dopo aver riordinato da cima a fondo matite, raccoglitori e calcolatrici con persone che per poco non la calpestarono nella bolgia. Arrivò il turno di starsene in cassa e sorbirsi la maleducazione suprema di chiunque le capitasse a tiro, stando attenta a non sbagliare resti e scannerizzare volti non sospetti.
Fino a quando, dalla porta d'ingresso, non spuntarono dalle scarpe da ginnastica, giacche di pelle e giubbini scuri, insieme a risatine estremamente fastidiose, pronti a sprecare un pomeriggio libero e senza accademie serali. Dalai alzò gli occhi dallo schermo e sbuffò vedendo l'ennesima comitiva di ragazzini che veniva a creare solamente problemi.
Scorse con la coda dell'occhio il più alto di tutti loro, ghignate nei suoi — presumibilmente parlando — diciotto anni, facendosi giocoso e sbruffone nei confronti di uno leggermente più basso di lui.
Gli ultimi clienti davanti a lei finirono di pagare e, dopo un breve inchino col capo, andarono via per lasciare il posto ai cinque liceali rumorosi. Il ragazzo di prima, quello alto e con il ghigno sulle labbra, arrivò spavaldo davanti a lei: «Buonasera,» erano quasi le sei del pomeriggio, «prendo un paio di auricolari, entrata lighting e un pacco di sigarette, scegli tu, una vale l'altra»
Dalai non si fece problemi a girarsi per prendere le cuffiette e posarle senza delicatezza sul bancone. «Sono duemila won, vuoi un sacchetto?» ripeté la stessa e identica frase che propinava a ogni cliente.
Il ragazzo abbassò gli occhi e si lasciò scappare una risata. «Mancano le sigarette, forse non mi hai sentito» Dalai non batté ciglio, «Ti ho sentito, invece. Non sono affetta da otosclerosi»
Gli altri ridere dietro le spalle del moro, la scena del loro amico playboy freddato da una commessa doveva essere veramente appetibile.
«Oh, okay» si leccò le labbra un po' stupito ma non fece cadere la faccia da imbecille per nulla al mondo, «Non so neanche che cosa sia. Potresti darmele e basta?»
«Sei minorenne?» domandò appoggiandosi sulla cassa con una mano, inclinandosi sul fianco.
Il moro si mordicchiò il labbra e ridacchiò nervoso. «Sì ma—» ma Dalai gli parlò sopra senza più degnarlo di uno sguardo. «Allora sono duemila won. Preferisci contanti o carte di credito?»
«Oi, andiamo cazzo, nessuno direbbe che sembro un minorenne» insistette ancora e l'ultima frase fece provocare una risatina, un'acida smorfietta, sul suo bellissimo viso. «Eppure io te l'ho chiesto lo stesso, quindi, se fossi in te smetterei di usare questa scusa per fregare la legge»
L'amico, quello con lo sguardo vispo e ammaliatore, sbatté una mano sulla spalla giunonica dell'interessato e, con la mano ancora sulla pancia per le troppe risate, si prodigò a esordire: «Guk, dai. Ci conviene andarcene e basta» si leccò le labbra gonfie per scoccare un'occhiata sexy alla mora dietro alla cassa ma la sua faccia di pietra non venne minimamente scalfita.
Ma per favore, mica sono Hien. Non mi scopo i mocciosi.
«Cosa?! No!» lo guardò arrabbiato e tornò a fare lo stesso con la corvina, «Cazzate, deve averglielo detto qualcuno» La mora sbuffò: «Nessuno mi ha detto niente e poi...» lo squadrò in malo modo, «Perché mai dovrebbero parlarmi di te? Hai ancora i baffi da latte sotto il naso e non sei sicuramente un idol con qualche fama se vieni in posti come questo» indicò il negozio col capo.
Odiava con tutta se stessa gli arroganti, ogni sfumatura e limitatezza che sfociava solamente in povertà sul bene umano, le ricordava quel perditempo del suo ex fidanzato. E quel "Guk" pensava di sbandierare le sue doti fisiche per conquistare un pacchetto di sigarette, mentre ad averlo più lungo e più duro con Dalai non serviva a niente. Solo ad alimentare l'astio che provava verso le persone e i ragazzini immaturi.
«Come hai detto?» domandò con la bocca chiusa, «Baffi da latte a chi?!» Dalai schioccò la lingua, «A te. Ragazzino» un paio di ululati si elevarono, il corvino con gli occhi ammaliatori fece scatenare una serie di borbottii e scommesse su chi l'avesse avuta vinta.
Il più alto non si fece intimorire e, da spaccone playboy, appoggiò una mano sulla cassa imitando Dalai e si avvicinò con il busto al suo viso. Guardò bene il suo corpo e sussurrò arrochito. «Io un ragazzino? Chi ti credi di essere per parlarmi così?»
Dalai avvertì uno svolazzo. Era timido, microscopico, quasi inesistente, ma diavolo, c'era stato. Trattenne grumi di saliva alle appendici della gola e rispose al suo gioco. «Una che è troppo vecchia per te, perciò gira a largo e lasciami lavorare in pace, bamboccio» cercò di non mordersi il labbro davanti agli occhi color carbone di quel ragazzino insolente, «E vedi di farlo in fretta, hai creato la fila»
Dietro alla schiena ampia del diciottenne e degli altri studenti la fila per pagare sembrava essere cresciuta e diramata come un grosso serpente. Guk non ci fece caso, non gli interessava e si limitò a drizzarsi sulla schiena con tutto il suo metro e ottantotto per cercare di avere un po' di autorità nei confronti di quella commessa, tanto sexy quanto arida.
«Me ne vado» esordì lasciandole i soldi per le cuffie sul banco, «Ma non é finita qui» non uscì come una minaccia bensì un avvertimento, lasciandole intuire che quella non sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe rivista. Ad ogni modo, Dalai non rispose per il groppo di saliva che mandò giù, deglutendo rumorosamente, solamente dopo che lo spilungone e la sua corte di bambocci si dileguarono dal perimetro.
Chiamò immediatamente in cassa Jacob per sostituirla e con la scusa di andare in bagno lo lasciò da solo senza troppe spiegazioni. Ignorò la terza collega, stesa sul pavimento, intenta a creare stupide composizioni di palloncini per una cliente, si rifugiò in bagno calciando la porta di ferro. Si mise la mani sul viso e si sentì bollente e per questo si tuffò davanti allo specchio per guardarsi.
Le guance erano color porpora e Dalai non volle mai sapere se, in quel giovedì pomeriggio, quel rossore venne dipeso dalla rabbia... O dall'imbarazzo.
ᴘɪᴇʀᴄᴇᴅ ᴛʜʀᴏᴜɢʜ ᴛʜᴇ ʜᴇᴀʀᴛ,
ʙᴜᴛ ɴᴇᴠᴇʀ ᴋɪʟʟᴇᴅ
«Credo che quell'otto, con un bell'undici per l'eccellente "orale", potrebbe trasformarsi in un nove» se ne uscì Hien dal nulla, senza staccare gli occhi dalla televisione del salotto di Dalai, mentre quest'ultima sembrava semi assorta davanti ai file di laurea. «Cos'è? Hai fatto la media dei voti?» tirò a indovinare.
«Ancora no, per farlo mi manca il voto più importante» disse ammiccando dal divano, alludendo alle prestazioni sessuali di questo otto. «Ancora non gliel'hai data?» domandò sbalordita Dalai da quella scoperta, «Non è da te»
«Dovrei offendermi?» si accigliò.
«Dovresti se la mia constatazione fosse errata o detta con lo scopo di farti uno sgarbo. Ma dal punto che tu, evidentemente parlando, scopi con ogni ragazzo con cui inizi a frequentarti non dovresti farlo. Mi sembra solo strano tu non che ci abbia fatto nulla» spiegò legnosa, riprendendo a scrivere.
«Ehi! Anche io posso avere i miei tempi» la fulminò dallo schienale del divano. «A meno che non sia stato lui a volerlo» osò Dalai, «A non fare sesso, intendo» beccata.
Hien arrossì vistosamente e tornò a guardare Single's Inferno ignorandola, incrociando le braccia al petto e allungando i piedi come se fosse a casa sua.
«Perché stiamo parlando di me? Parliamo di te, invece!» Dalai le scoccò un'occhiata, per chiederle se fosse seria. «Hai problemi di memoria per caso?»
«Quindi vorresti dirmi che dopo Ryum non hai avuto nessuno? Non ci credo» rise, «Neanche se lo vedo»
Dalai chiuse il libro di sociologia: «Credi a quello che vuoi allora» il tono divenne aspro, «Non é un mio problema» si passò una mano sul viso stanca e guardò l'ora sul display.
Doveva tornare al lavoro e si ritrovò a fare la stessa strada una volta parcheggiato l'auto nel retro del negozio. Imbucò le mani nelle tasche del giubbotto pensierosa: era normale innervosirsi così tanto quando la propria socialità veniva messa in discussione?
Alzò gli occhi al cielo, osservò il cielo limpido che Seoul, in quella giornata di Sole, stava donando a tutti gli abitanti della capitale. No — si rispose da sola, il problema non era la socialità. Il problema era il rapporto che si ritrovava ad avere ora nei confronti del prossimo.
Due anni di storia; litigi, mancanza di empatia e immaturità avevano portato solamente aridità nel suo cuore. Non piangeva più per Ryum, non si ritrovava a pensarlo e, per fortuna, né a vederlo. Era uscito dalla sua vita e Dalai era tornata a respirare, ne era convinta, ma si accorse del contrario quando, dopo di lui, i suoi occhi e il suo cuore iniziarono a detestare ogni cosa davanti a lei.
Avrebbe preferito, se avesse potuto, rinchiudersi solamente dentro casa e insonorizzare ogni muro per non sentire più niente. Né un lamento, una risata, le imprecazioni che qualche vicino si faceva scappare o il rumore di un aspirapolvere la domenica mattina, ed era per colpa sua, di quell'ignobile bastardo immaturo che si era scopato, nel loro vecchio appartamento, una delle sue ex migliori amiche.
Si ritrovava nel fiore dell'età a fare un lavoro che odiava per coprire le spese del nuovo appartamento in città, e cercava di sopravvivere in quel negozio da incubo almeno fino alla fine degli studi. Ma molte volte, quando sentiva che il mondo si stava piano piano allontanando per le sue esigenze, desiderava solo mollare e tornare a casa dai suoi genitori come una fallita.
Si era ripromessa di non cascare, di non perdere più tempo e di non rischiare ulteriormente. Voleva — doveva — tutelarsi, cacciando ogni tipo di infantilità nella sua vita. Aveva sbagliato a fidarsi dell'amore e dell'amicizia, il cuore aveva sanguinato abbastanza ed era arrivato il momento di non lasciarsi più abbindolare da nessuno.
Sapeva che la sua era una depressione radicata nel profondo, immersa nelle cervella e nelle viscere dell'anima, ma non voleva ammetterlo: stava bene, il resto non contava.
Si strinse tra le braccia ed entrò ancora una volta in quell'inferno: ennesima corsia da sistemare, soddisfare i clienti e spaccarsi lo stomaco per le imprecazioni che doveva trattenere quando il titolare si presentava sul posto di lavoro per denigrare e sfottere ogni loro risultato. Quando quell'uomo faceva il grosso davanti ai clienti, Jacob smetteva di sorridere e Mira, la collega del suo turno, si incatramava i polmoni con dieci sigarette in più alla fine della giornata. Dalai invece si legava ogni parola al dito per avere la soddisfazione, quando presenterà le sue dimissioni in futuro, di sbattergli in faccia ogni suo sgarbo.
Sentì la porta scorrevole aprirsi un'altra volta, alle diciotto di quel pomeriggio, per far sguanciare un ragazzo moro e ben piazzato. Lei si mise a guardarlo e appena incrociò i suoi occhi lo riconobbe subito come l'idiota minorenne dell'altra volta. Se avesse insistito ancora avrebbe chiamato Jacob con la sua inquietante pacatezza per farlo uscire.
Lui la guardò e si morsicò il labbro inferiore per non ridacchiare, gongolò entrando in una corsia qualsiasi e sparì dal suo campo visivo. Lo faccio fuori, pensò già infervorata, pronta a inseguirlo dentro le sue scarpe infortunistiche talmente fuori misura che le sue caviglie, microscopiche e sottili, sembravano sguazzarci dentro.
Il liceale continuò a camminare ignaro dello sguardo affilato della mora su di sé, impegnata a esporre nuova merce arrivata quella stessa mattina mentre lui, il ragazzo, girovagava senza una destinazione precisa con le mani nelle tasche dell'uniforme e il bomber di pelle troppo largo. Eppure gli stava bene.
Nonostante la misura extralarge per la sua vita sottile e i fianchi ugualmente tondi, nonostante la natura da maschio giunonico, quell'outfit gli stava dannatamente bene, dannazione.
Poté osservarlo meglio tra le fessure degli scaffali; notò il taglio corto ai lati della fronte, quest'ultima era coperta dai finissimi ciuffetti mori che spuntavano dalla frangetta spaccata in due. Stranamente non portava il comune taglio circolare sul capo (come una scodella) che si portava al liceo e lo apprezzò istintivamente: era bello.
Per quanto la natura con quel ragazzo, a livello celebrale, fosse stata una tale matrigna, aveva compensato a renderlo infinitamente figo nell'aspetto fisico. Saltò all'occhio persino un anellino intorno al labbro che continuava a martoriare assorto e si rese conto che quel piercing, l'altro giorno, non c'era.
Un cliente la svegliò da trans per chiederle aiuto e lei, sporca di polvere sulle ginocchia e con i tagli sulle dita, non poté che seguire il suo lavoro in silenzio.
Era passata un'altra mezz'ora e ora toccava a Dalai a spaccarsi i coglioni e subirsi le lamentele dei clienti in cassa. La fila chilometrica divenne corta, due persone in totale prima del famigerato turno dell'idiota e poi sarebbe sopravvissuta. Il liceale aspettò ardentemente il momento giusto per camminare davanti alla più grande e sfoggiare un mezzo e micidiale sorriso con il labret laterale.
«Ci incontriamo di nuovo» aizzò immediatamente gli animi il moro, sfrontato come sempre. Lei lo guardò torva, «Già, ma non per mio piacere»
«Svegliata con il piede sbagliato stamattina?» ironizzò spavaldo.
«Mi sveglio sempre con quello giusto, sono le persone che lo rendono, in seguito, sbagliato»
La guardò dritto negli occhi, «Per avere questo umore il piede devi averlo amputato direttamente»
Dalai assottigliò lo sguardo ma non cascò nella sua provocazione: «Allora? Hai aspettato quindici minuti di fila per startene lì impalato o vuoi chiedermi qualcosa, Guk?» il moro strabuzzò gli occhi e si fece improvvisamente rosso.
«Come...» balbettò, «Come—»
«Il tuo amico. L'idiota che ammicca, quello che stava al fianco dell'idiota con la faccia da scemo e in mezzo a un altro idiota che sembrava aver salutato la pubertà, comunque qualche giorno fa, eri circondato da altri idioti. Idiota che ammicca é stato l'unico ad averti consigliato qualcosa di sensato quel giorno. Begli amici, comunque» si permise di aggiungere con certa soddisfazione per averlo fatto stare zitto.
«Ad ogni modo é Jungkook»
«Cosa?»
«Il mio nome,» disse, «é Jungkook, Guk é il soprannome»
«No, intendo, cosa me ne frega?»
Jungkook la guardò stupito per la seconda volta ma, quella volta, invece di prenderla sul personale se la rise grossolanamente. Oh no, no che non era abituato a tutto ciò. Non era abituato a una ragazza del genere.
«E tu, invece?» i capelli mori scoprirono i scintillanti occhi roventi di Jungkook, «Non ce l'hai un nome, noona?»
Con— Con che cazzo di voce l'aveva appena detto noona?!
«No, non ce l'ho. Allora ti sei ricordato cosa prendere o devi ancora finire di fare il giro al parco giochi?» guardò oltre le spalle di quel Jungkook e non vide neanche un cliente in fila.
Che stregoneria é mai questa?
«Quanta pesantezza» borbottò Jungkook, stufo di sentirla starnazzare. «Dammi un pacco di preservativi»
Dalai per poco non scivolò su uno scontrino appisolato per terra e si appoggiò con entrambe le mani sui fianchi per svegliarsi. «Aspetta, cosa?»
«Preservativi. Profilattici. Cappucci,» ghignò sadico, «chiamali come ti pare, sai cosa sono almeno? Per quelli non c'è bisogno di un documento» la prese in giro. Dalai gonfiò le guance arrabbiata, «Semmai dovrei essere io a chiederlo a te, bamboccio! Come minimo sei ancora dell'ultimo anno e alla tua età dovresti studiare, invece di fare battute del genere»
Jungkook si mise le mani in tasca, adocchiandola dall'alto: «Cosa?» chiese.
«Ho detto—» ma la interruppe. «No, intendo, cosa me ne frega?»
Dalai alzò lentamente gli occhi verso di lui, lo vide sogghignare e con sua immensa sorpresa non si ritrovò a massacrarlo di calci per aver usato la sua battuta contro di lei. Anzi, un minimo la divertì, ma non glielo avrebbe mai fatto capire.
Perciò, con grande nonchalance, si girò verso l'angolo per afferrare un pacchetto di profilattici a caso e sbatterlo sul bancone. Non li guardò ma Jungkook fece calare il suo sorriso da coglione sulla piccola mano che stava agguantando la scatola. Schioccò la lingua al palato: «Non vanno bene» disse.
La corvina lo sguardò scocciata. «In che senso non vanno bene?» Jungkook fece scintillare i suoi denti perfetti ancora una volta. «Non sono della mia taglia, non vanno bene» Dalai guardò la scatola e vide i centimetri di lunghezza e circonferenza trascritti nella scatola e affianco la scritta "Classic size", perciò lo squadrò da capo a piedi e tentò di zittirsi e di non farsi licenziare.
Ma non ci riuscì.
«Sai che puoi infilarci un piede dentro a un preservativo? Alcuni persino la testa»
Jungkook divenne pallido e, non aspettandosi di certo una riposta del genere dopo averla instigata con un'allusione così esplicita delle sue rinomate dimensioni, cercò di rimettere in moto il cervello per non farsi sgonfiare l'ego come un palloncino.
«Un ragazzo ti sta dicendo che ha delle dimensioni fuori dal normale e tu... Pensi ai piedi che si possono infilare dentro?» si azzerò completamente, aspettandosi il colpo di grazia. «E io, da brava noona adulta quale sono, cerco di preservare la razza umana dalle inseminazioni incidentali di certi idioti. Quelli che inciampano sulle bucce di banana con una ragazza facendo i manzi, solitamente dicono: "Non uso i preservativi perché il mondo non é ancora pronto per me."» sorrise sarcastica alla fine, «Mi dispiace, Guk, ma tu sei uno di quelli»
Ma con sua grossa sorpresa, questa volta, Jungkook stette zitto e con le guance che, mano a mano, si imporporavano. Abbassò lo sguardo in difficoltà e provò a non mollare.
«Potresti darmeli lo stesso?» Dalai rimase scioccata dinanzi a quegli occhi giovani, timidi e quasi... Insicuri. Forse, pensò, aveva un po' esagerato ma Jungkook sembrava avere la risposta sempre pronta e piccata. Ciò non toglieva il fatto che era un cliente e poteva spingersi fino a un certo limite.
Comunque, rimise apposto quelli di prima e prese quelli di taglia XL per batterli sul computer. Gli chiese in tono formale se quelli andassero bene e Jungkook disse di sì, dopodiché infilò la scatola in un sacchetto e se ne andò da quel posto dopo aver sussurrato un saluto.
Lì, Dalai, si sentì stranamente in colpa.
ɪᴛ'ꜱ ᴍᴇ,
ʜɪ, ɪ'ᴍ ᴛʜᴇ ᴘʀᴏʙʟᴇᴍ,
ɪᴛ'ꜱ ᴍᴇ
Mira masticava una gomma da masticare e sembrava che questa fosse talmente grande da spaccarle la mascella. «Credo che stasera mangerò qualche schifezza, deve arrivarmi il ciclo e vorrei ficcare le patatine fritte dentro la pizza, imbevuta nel brodo dei noodles» e poi sbadigliò.
Dalai fu l'ultima a uscire dal negozio e ridacchiò schifata: «Hai già provato a mischiare il dolce col salato?» l'altra annuì fiera. «Sicura di non essere incinta?» la schernì Jacob guardandola sottecchi in mezzo al parcheggio.
«Ehi, coglione» lo fulminò, «Non bestemmiare. Il mio corpo non porterà nessun fottuto bambino dentro di me, chiaro?» Jacob la squadrò dall'alto del suo metro e ottanta e sospirò, quasi sollevato.
«La cosa mi da sollievo» ma lontanamente dalle sue aspettative, Mira ficcò la faccia sotto il suo naso per affrontarlo, «Cosa vorresti insinuare? Con quel sorriso da stregatto e —» ma si bloccò, portò il mento giù dopo che vide, con la coda dell'occhio, un movimento flebile nel buio.
Dalai la seguì stranita con lo sguardo e quando portò gli occhi verso la strada, che affiancava il parcheggio, trovò sotto un albero uno stangone incappucciato per il freddo e la fronte scoperta dai capelli. Lo scintillio scaturito dal sorrisetto impertinente scatenò una serie di reazioni a catena.
«Chi cazzo é quello?» borbottò Mira mentre Jacob, fattosi serio, si mise davanti alle ragazze per coprirle.
Dalai riuscì a riconnettere il cervello prima che il suo collega rischiasse di finire in prigione per aver picchiato un liceale e alzò un braccio, mentre tremava, per bloccarlo. «É tutto a posto» non sapeva perché lo disse, «Lo conosco é... Un mio amico» eppure non lo conosceva e non era neanche un suo amico.
Jacob si tranquillizzò all'istante e sorrise premuroso, «Oh, per fortuna. Odio fare a cazzotti, non sono per niente bravo» Mira sospirò, «La cosa non mi sorprende per niente» e senza lasciare il tempo per un'ultima battuta fece un brevissimo inchino di saluto per congedare i colleghi e riscaldarsi in macchina. Dopo che Dalai diede il via libera a Jacob, quest'ultimo, fece la stessa cosa.
I soli rimasti in quel parcheggio lugubre dalla notte, intiepidito dalla Luna e abbandonato dalle stelle, erano loro. Due estranei, diversi e senza nessuna logica che potesse legarli insieme eppure, erano lì a guardarsi o forse a studiarsi meglio prima che Jungkook, con le sue lunghe gambe, oltrepassasse la strada per raggiungerla.
Indossava gli stessi pantaloni dell'uniforme scolastica della Chung dam High School, il liceo pubblico nel distretto di Gangnam-ugu, a qualche isolato dal negozio nel quale lavorava e le capitava di vedere tantissimi studenti frequentare quelle vie grezze, il solo scopo di prendersi un milkshake prima di tornare a studiare.
Dalai guardò l'ora e vide la lancetta che sbatteva sulle otto e mezza di sera. «Vieni due volte in negozio, mi fai discorsi sui preservativi e ora ti ritrovo nel parcheggio appena ho staccato il turno, devo prenderlo come stalking?»
Jungkook si fermò a due metri e ghignò: «Per così poco?» scosse la testa, «Ho avuto lezione fino a tardo pomeriggio, oggi, perciò sono venuto adesso»
Che faccia da schiaffi, pensò Dalai: «E con ciò? Dovrei riaprire il negozio per te? Dubito che ti servano altri preservativi se sei venuto solo tre giorni fa»
Il moro ridacchiò e rimase a guardarla con i suoi grandi occhi color carbone e talmente espressivi che Dalai dovette distogliere lo sguardo e guardarsi i piedi. «No, sono venuto per te» esordì, con una strana tranquillità. Dalai scattò sul posto e si ritrovò a balbettare: «Per me?!»
Jungkook annuì, «Volevo vederti e ti ho aspettato qui, sono arrivato in tempo con la metro—»
«Perché?» lo fermò sconvolta, «Perché volevi vedermi?»
L'altro rise. Secondo lui la situazione era evidente e fin troppo semplice da spiegare.
«Perché mi piaci» sorrise, «Per questo sono qui»
Fu forte, una botta violenta, come prendersi un cartello stradale sulla fronte e capace di stordirti con un ricovero da bella addormentata nel bosco. Si sarebbe aspettata una battuta o uno scherzo di qualche ragazzino che aveva voglia di buttare la noia contro qualcuno di più grande ma... Quel liceale le aveva appena fatto una dichiarazione?
«Stai scherzando spero»
«Perché dovrei?»
«Perché sono più grande di te, Jungkook! Sei all'ultimo anno di liceo, ci separano quasi cinque anni e... E neanche mi conosci!» la voce si consumò nel panico, «Sei un ragazzino, almeno per me»
«Sono un ragazzino perché sulla carta ho diciotto anni? Neanche li dimostro» ribatté alludendo al suo aspetto: fisicamente poteva anche dargli ragione perché se lui, quel giorno, non fosse entrato con qui pantaloni o con la combriccola di idioti con il moccio sotto il naso, non l'avrebbe mai scambiato per un ragazzino.
Jungkook era dannatamente forte e attraente. Sfiorava il cielo con la sua altezza statuaria, squarciava l'aria circostante insieme alle sue larghe spalle da nuotatore e le cosce, scolpite sotto il tessuto, erano perfette per seminare chilometri anche con uno sbadiglio. Il viso, squadrato e marcato come un uomo, veniva evidenziato da questa mastodontica mascella affilata, aveva un naso con la punta adorabilmente tonda e due occhi vispi, a volte curiosi e fin troppo furbi. Ed era sicura, Dalai, che quelle gemme nere potessero arrivare ad ardere l'intero inferno se lui lo voleva.
«Il fattore fisico é un dettaglio irrilevante in questo caso non credi?» Jungkook non mollò la presa, «Secondo me ti sbagli»
«Jungkook, non mi interessa» cercò di farglielo capire senza sembrare troppo indelicata con le parole, «Il fatto che tu non conosca il mio nome o niente della mia persona, oltre al mio aspetto fisico, é la prova che la tua é una frivola infatuazione di un adolescente e lo capisco! Perché é normale essere così e avere questi desideri ma non posso sono essere la tua "noona esperta" così da vantarti con gli amici, non sono quel tipo di persona» non voglio e non posso perdere tempo con un ragazzino.
Visibilmente, Jungkook, ci rimase molto male. Capiva il punto di vista di quella ragazza, o almeno una parte, ma lo strano l'interesse che provava nei suoi confronti lo rendevano ancora più idiota di quanto non sembrasse già ai suoi occhi.
«Non voglio che diventi solo la mia "noona esperta", é vero, io non conosco niente di te e viceversa» marcò l'ultima frase, «Ma potrei essere un ragazzino che potrebbe sorprenderti»
«Jungkook...» sospirò Dalai.
«Fidati di me, noona, riuscirò a farlo e proverò che tutto quello che pensi di me é in realtà sbagliato, perché io non mollo mai. Ricordatelo bene» la guardò con un sorriso e decise che, per quella sera, imitare un cavaliere potesse bastare.
Alzò i tacchi e camminò indietreggiando senza mai staccare gli occhi dal volto ammaliante della noona. Fece un rapido occhiolino e dopodiché iniziò a correre verso la metro e tornare a casa, stampandosi bene in mente il viso paonazzo di Dalai nei suoi ricordi.
Dio, eccome se ci sarebbe riuscito.
Due giorni dopo, era un sabato sera, Dalai si trovò a subirsi il maggiore afflusso di gente della serata; era iniziato il weekend e le persone non sapevano come passare il loro tempo se non dentro un magazzino privo di riscaldamento in pieno inverno. Il suo titolare li aveva lasciati nella fossa dei leoni senza spade e armi, cercavano di fare il meglio nonostante il numero del personale facesse pena in confronto al numero di scontrini che battevano al minuto.
Era stanca, si sentiva sporca di polvere e fuliggine ovunque, e pregava che le otto arrivassero alla svelta quel giorno. Mancava circa mezz'ora d'orgoglio e la massa si stava mano a mano smaltendo sempre di più fino a quando, delle inconfondibili scarpe da ginnastica, non entrarono nel suo campo visivo insieme a Jungkook stesso.
Entrò e non fece neanche un giro nel negozio ma si schiantò immediatamente davanti a Dalai, sulla cassa. Lei lo guardò stordita e gli chiese: «Cosa stai facendo?»
«Stacchi tra mezz'ora, giusto?» rispose Jungkook con un'altra domanda e l'altra annuì. «Bene» si leccò le labbra, «Ti aspetto nel retro del parcheggio» ma Dalai scosse immediatamente la testa innervosita. «No. Ne abbiamo già parlato, Jungkook»
«Facciamo così: esci con me questa sera»
Dalai spalancò gli occhi e per poco non si strozzò con la saliva. Era impazzito? «Sei ubriaco?»
«Cos...? No! Ovvio che non lo sono»
«E allora perché dovresti chiedermi di uscire dopo tutto il discorso che abbiamo fatto ieri, Jungkook?!» un'anziana passò lì vicino e guardò sottecchi quei due. Dalai arrossì imbarazzata e si sbrigò a dire: «Esci, non vedi che sto lavorando?»
«Uscirò da qui se tu mi dirai di sì» la mise alle strette avvicinandosi col suo petto per abbassarsi su di lei, «Andiamo noona...» mugolò come un bastardo insieme alla sua voce roca, «So che lo vuoi anche tu»
Dalai boccheggiò, quella frase... Era la stessa frase che la tormentava da due giorni ogni notte. Da quando Jungkook aveva piantato il seme della discordia nella sua vita non riusciva più a chiudere occhio; si lasciava cadere sul letto, affondava la faccia sul cuscino e, dopo l'arrivo del sonno, una serie di sogni a luci rossi iniziava a soffocarla fra le lenzuola.
Grondava ogni sera, si svegliava madida di sudore e con gli slip fradici e le voglie insoddisfatte perché, alla nascita del Sole più bello, l'orgasmo che scoppiava veniva sempre brutalmente interrotto dalla sveglia.
Sognava quel mastodontico ragazzino spogliarsi e mostrarsi nudo davanti a lei, insieme ai profilattici XL — da lei venduti — che scivolavano sul suo cazzo con difficoltà, inseguito lui la toccava in mezzo alle cosce e rimaneva comunque ubbidiente ai suoi comandi.
Jungkook era un simbolo di pura dominanza, visto dall'esterno, ma in realtà amava — nei suoi sogni — lasciarsi toccare, torturare dalla bocca letale di lei e farsi cavalcare fino a sentirsi risucchiare dalla sua intimità, portandola alla pazzia ogni volta che la stringeva per la vita e alzava i fianchi verso l'alto per farla urlare.
E percepiva il suo enorme cazzo dentro di lei, con dimensioni altrettanto esagerate dalla sua fantasia carnale, spaccarla in due e sbatterla come nessuno dei suoi ex era mai riuscito a fare.
I capelli colavano. Le labbra schiuse e vivide di ansiti. Ricordava gli addominali sotto i palmi delle mani e il sudore che rendeva scivoloso ogni movimento fino a quando, forte e costante con le stoccate del bacino, l'orgasmo iniziò a presenziare la sua comparsa con il formicolio.
So che lo vuoi, noona, so che lo vuoi anche tu — ansimava bollente. Poi, tutto finiva, la sveglia o la luce del Sole, irrompeva nel sogno portandola alla follia e completamente insoddisfatta.
Erano passati due giorni e nei suoi sogni era sicura di aver provato ogni posizione possibile. E lei, tutto questo, non riusciva ad accettarlo. Non dopo essersi immaginata di farsi prendere a novanta nel tavolo della sua cucina.
«Io—...» deglutì accaldata, «Non dire più quella frase»
Jungkook la guardò confuso ma non disse niente, si tenne per sé la domanda. «Okay, ma solo se mi dai questa opportunità» Dalai strisciò le mani sulla faccia e imprecò a bassa voce.
«Va bene! Una sola sera e poi mi lasci in pace, cazzo, sei pesante Jungkook» lui non si offese minimamente, era troppo impegnato a gongolare e si fece subito fuori dalla sua visuale per lasciarla finalmente lavorare in pace.
«Non te ne pentirai»
Che cazzo ho combinato?
... 𝑻𝒐 𝒃𝒆 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒊𝒏𝒖𝒆𝒅...
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Buon Natale🎄🎄🎄
E finalmente siamo arrivati con questa benedetta OS totalmente Humor, ragazzi mi fanno morire questi due. A Jungkook é caduto il naso tanto quanto a Dalai, entrambi clown.
Ci saranno delle sorprese e il carattere di Jungkook é tutto da scoprire! La prossima parte arriverà a breve e vedremo tanti lati di Dalai che la rendono forte e fragile al contempo.
Non a caso ho scelto Anti-Hero di Tylor Swift come canzone rappresentativa per il suo personaggio, una delle mie preferite e personali💔
- Il lavoro di Dalai é il mio, solo reso più alleggerito 🥲 e lei incarna esattamente una parte dj me che possiedo e non riesco a superare: la negatività, la stanchezza e la sfiducia nel prossimo
Vi lascio l'aspetto di Jungkook in questa storia👀
Alla prossimo capitolo❤️🌈❤️
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