꒰ 𝘃𝗲𝗿𝗺𝗶𝗹𝗹𝗶𝗼𝗻 𝘀𝗸𝘆 ꒱ da finire!!
i don't care if i lose my mind i'm already cursed
꒰ 𝘀𝘁𝗮𝗿𝘁𝗲𝗱: 25.06.2021 ꒱
꒰ 𝗳𝗶𝗻𝗶𝘀𝗵𝗲𝗱: 11.08. 2021 ꒱
꒰ 𝘄𝗼𝗿𝗱𝘀:
꒰ 𝗺𝗮𝗶𝗻 𝘁𝗮𝗴: TAMVMO ꒱
꒰ 𝗼𝘁𝗵𝗲𝗿 𝘁𝗮𝗴𝘀: silvyamuzz -odissea -ljttlehobbit -eneide -chaoscore snake-skin-cloat -mvrderhouse ꒱
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꒰ 𝗥𝗨𝗢𝗟𝗢: 𝘸𝘦𝘵𝘯𝘶𝘳𝘴𝘦 ─ 𝘧𝘢𝘵𝘢 ꒱
Bagna i piedi nel fresco ruscello poco più in là della staccionata di legno, pitturata di bianco, in cerca di rinfrescarsi sotto le fronde degli alberi.
I pettirossi che cinguettano rompono la quiete pomeridiana che era solita calare sulla casetta intorno alle tre del pomeriggio. D'altronde, chi poteva venirla a trovare: era ben nascosta, lontana da qualsiasi centro abitato, sola in mezzo al bosco in un piccolo spiazzo in leggera pianura. Stava lì tutto l'anno, raccoglieva i funghi e le castagne verso ottobre, coltivava le zucche fino a novembre, nei mesi invernali aveva le scorte dell'estate e in primavera inoltrata gli alberi si preparavano a darle dei succosi frutti.
Ogni tanto si faceva degli infusi con i fiori raccolti qua e là; non che avesse fame, poi, era solo golosità la sua. Mica le marmellate si facevano per essere messe in mostra, no?
È il freddo a risvegliarla, a momenti non si sente più i piedi; con la gonna alzata per non bagnarla, è nuovamente sull'erba fresca, più verde del solito per essere metà dicembre.
Oggi non ha nulla da fare, il bucato l'ha già ritirato e la cena è già pronta, sono gli avanzi di ieri. Si guarda intorno, alla fine la sua vita è un po' noiosa; lo sguardo finisce sul forno e dopo qualche attimo di meditazione si illumina.
Con passo velato -era tipico di lei essere estremamente delicata, quasi per non far del male al legno del pavimento- si china per aprirlo e tirare fuori un piccolo tortino con la marmellata di fragole.
Torna seduta sul tavolo e lo divora con gusto, la sua merenda preferita.
Felici novantatre anni si augura sorridente.
Se vi steste chiedendo come sia possibile arrivare ad avere una vita così longeva la risposta non sta nelle droghe recentemente scoperte -grande cosa, la medicina!- quanto più la soluzione al quesito potrebbe lasciarvi perplessi. Aprite la mente, chiudete gli occhi e immaginate due ali grandi quanto leggere portare un corpicino esile, di bassa statura, con la pelle candida quasi cadaverica e una lunga veste della medesima sfumatura di colore.
Un paziente in un'ospedale psichiatrico? No, una creatura magica, una fata.
Di quelle che si leggono nei libri, delle storielle che si narrano ai bimbi prima di metterli a letto, dei racconti intorno al fuoco crepitante in mezzo ad un bosco.
Non se ne vedono spesso in giro, verrebbe da pensare che non esistono nemmeno, che sono inventate. Ebbene no, ma l'indole dell'uomo sa essere veramente crudele ed divenire soggetto di persecuzioni ha fatto in modo che tali creature speciali prendessero le distanze dai centri abitati, o mimetizzandosi tra gli uomini, unendo le culture, fondendo le etnie, decretando un miscuglio di razze.
Così, nel corso dei secoli, per riuscire a sopravvivere hanno dovuto modificare il loro aspetto, rendendosi simili alla gente che incontravano per strada. Chissà, il panettiere può essere un folletto che si sta nascondendo da una folla inferocita armata di forconi, oppure la fruttivendola un lupo mannaro senza l'influenza lunare.
Dei tanti gruppi fatati esistenti, è fiera di appartenere proprio al suo. È una wetnurse, una balia, nata per accudire cuccioli e bambini, portando loro doni e prendendosi cura di ogni piccolezza: i primi passi, il cibo, i giochi, la parola. Vegliano su di loro anche da lontano, instaurando un forte legame come fossero loro bambini.
Hanno un animo buono, altruista e propenso ad aiutare il prossimo, soprattutto se in difficoltà, svolgendo le veci di una vera e propria madre. Effettivamente, tutto di loro sembra emanare sicurezza e protezione: il largo sorriso sul volto lo illumina in un'espressione serena, mentre le mani lunghe e morbide sembrano create per accarezzarti i capelli; la voce, pacata e rilassante, mira a rasserenare il corpo del bimbo, cullandolo con dolci nenie per addormentarlo in tranquillità.
L'aspetto da totale estranea -nome, ricordiamo, di tutte le creature non umane, la vera forma di sé- è armoniosa nel complesso.
La parola chiave è bianco: a partire dall'alone di luce che sembra accompagnarle ad ogni passo, forse emanato dalla pelle chiara, fino alla veste stessa, candida come la purezza del loro animo, ricordante le tuniche delle sacerdotesse dei culti druidici, lunga fino ai piedi. Le orecchie sono molto sensibili, leggermente appuntite come gli elfi e solitamente piene di orecchini che possano ornarle, come era tradizione riempirsi di gioielli. Anche i capelli virano su quelle tonalità: una scala di grigi, un platino, fino ad arrivare talvolta ad un rosato, oppure un biondo cenere; solitamente sono lunghi fino alla schiena, lasciati sciolti oppure raccolti in uno chignon ordinato, a voler rimarcare la compostezza della loro persona.
Solo le ali sono invece più scure, forse una qualche vena di blu o sulle tonalità del verde e giallastro, grandi e appuntite, per fendere meglio l'aria durante il volo.
Non è pura, ha un miscuglio di umano e magico che scorre nelle sue vene, ma ciò non la fa sentire inferiore o non la rende meno valida dei purosangue; conosce i suoi poteri, seppur limitati e sa gestirli in ogni evenienza. Dopotutto, è ormai centenaria, ha un'esperienza sul campo tale per cui si può quasi definire veterana.
Benvenuti nel mondo degli Estranei.
꒰ 𝗡𝗢𝗠𝗘: 𝘳𝘪𝘦𝘭𝘺𝘴 ─ 𝘳𝘦𝘣𝘦𝘬𝘢𝘩 ꒱
Aveva insistito tanto per darle quel nome, la nonna Margareth. Si era messa in mezzo ai genitori, aveva allargato le braccia così da separarli e aveva fatto tintinnare la miriade di braccialetti colorati per farsi ascoltare.
Rielys aveva detto, la voce ferma e decisa. Un nome straniero forse, non si era mai sentito in quelle terre prima d'allora: suonava delicato, dolce, magico, proprio come la sua etimologia. Le fate non parlavano la lingua degli uomini, avevano un alfabeto loro, segreto, che derivava dai quattro pilastri della natura -aria, acqua, fuoco e terra- e dai prodotti che essi offrivano -vento, pioggia, calore, frutti, fiori, piante.
Ogni nome era strettamente legato al gruppo fatato di appartenenza. Nel caso di Margareth -Mahamelk in lingua fairyana- era quello delle wetnurse, le balie, il cui significato era quindi culla. Sapeva che non sarebbe vissuta tanto a lungo da vederla diventare adulta quindi, prossima alla sua ora, si era imposta per tramandare le sue origini, nella speranza che potesse ereditare i poteri.
Jade -che il nome fatato l'aveva nonostante la madre gliel'avesse tenuto nascosto: Jëlayel, gioia- non replicò, sapendo che sarebbe stata una battaglia persa. Spacciandola per usanza del suo ramo familiare, perché era ciò che credeva che fosse, aveva così convinto il marito -un comune mortale, totalmente umano- a chiamarla tale, a patto però che fosse seguito da un altro nome. Di base erano una famiglia strana, non si sarebbero potuti permettere un ancor più singolare modo di appellarsi alla figlia; correvano tempi bui per il mondo magico, era meglio rimanere nell'ombra.
Rebekah, era quindi stato scelto per la neonata, che stava in silenzio tra le braccia della nonna, cullata dal dolce profumo di miele che la sua veste emanava.
Profondamente religioso, il padre si era rifatto alla tradizione ebraica -Rebecca era infatti la moglie di Isacco, figlio di Abramo- ed oltre ad amare come usciva deciso il suono dalle labbra, trovava che anche il significato fosse perfetto.
Derivante infatti dalla lingua antica, רִבְקָה (Rivqah o Ribqah) è unione, connessione. Aveva da subito capito che fosse adatto a lei dal modo in cui si stava aggrappando alla nonna in quel momento, quasi a non volersi staccare.
Il destino forse rideva, ché il significato di Rielys era proprio legame familiare, stretto e indissolubile anche a migliaia di chilometri, contro ogni ostacolo.
Chissà perché Roger non si era mai chiesto perché quel tipo di legame la figlia non l'avesse anche con lui. Era perché era donna, oppure era solo diversa?
Rebekah, figliola, scendi dall'altalena e vieni a mangiare! sarebbe stata la frase che le avrebbe ripetuto più spesso, prima di scoprire la verità e rinnegarla per sempre.
Che comunque, aveva sempre preferito Rielys, lei.
꒰ 𝗖𝗢𝗚𝗡𝗢𝗠𝗘: 𝘨𝘦𝘭𝘭𝘦𝘳 ─ 𝘨𝘪𝘢𝘭𝘭𝘰 ꒱
L'aveva ereditato dal padre, nonché unico membro della sua famiglia a possederne uno vero e proprio: gli Estranei purosangue non ne hanno bisogno e data la natura ibrida della madre, il cognome era preso dal nonno umano. Significa giallo, che nella simbologia dei colori è associato a sentimenti positivi come la gioia, la felicità, la spensieratezza e l'ottimismo. La speranza di avere una famiglia come quella messa su dai genitori, con cinque figli maschi e una sola femmina e amarsi sempre incodizionatamente.
Il palazzo giallo nella via di Londra dietro al mercato ospitava da generazioni una piccola comunità ebraica di banchieri e uomini d'affari, che negli ultimi tempi si era arricchita facendo affari con l'Olanda e lasciando che alcuni signori potenti inglesi chiedessero loro prestiti, per potersi indebitare e ricevere soldi.
A Roger piacevano i giochi di parole, i messaggi subliminali, i significati propri di termini misteriosi e importanti, per questo aveva premuto tanto per tingere le pareti di camera sua di un canarino acceso.
Proprio per caso aveva conosciuto Jade, ché la gioia e l'ottimismo portati dal colore non erano mai troppi a quanto pareva. Era consistito tutto in un incrociarsi delle loro strade sulla via del mercato e qualcosa -come per magia, o forse chissà, solo cliché- era immediatamente scattato, un luccichio nei loro sguardi e l'anno dopo lei aspettava il primo figlio maschio. Uno dopo l'altro (potevano permettersi una famiglia così numerosa), i bambini si erano riuniti un anno intorno alla culla della quarta neonata, l'unica femmina.
Una gioia ma anche una martellata nel petto, nessuno le avrebbe detto che lei non avrebbe ereditato il lavoro di Roger come facevano gli altri fratelli.
Ah, la società.
Ad oggi le pareti gialle del palazzo vicino al mercato sono sbiadite e l'intonaco viene giù con un solo soffio di vento; andrebbe ritinteggiato, ma nessuno in quel complesso di case ha intenzione di farlo.
Ora che era di nuovo in città, ci tornava ogni tanto, a vedere se c'era ancora qualche cognome conosciuto sui campanelli -ultima invenzione del momento- di qualche famiglia amica della sua. Di sicuro Geller non era più lei, che era stata sradicata dal terreno come un'erbaccia cattiva, calpestata per bene e lanciata il più lontano possibile, laddove non aveva neanche le forze per rialzarsi.
Però Geller c'era sul campanello, magari suo fratello Jacob, l'ultimo della famiglia, aveva un pronipote che viveva lì; doveva essere bello, raccontare ai propri bambini le loro origini, magari dopo il pranzo del venerdì santo, in salotto.
A lei invece avevano tolto tutto.
꒰ 𝗘𝗧𝗔': 𝘰𝘯𝘦 𝘩𝘶𝘯𝘥𝘳𝘦𝘥 𝘢𝘯𝘥 𝘴𝘪𝘹 ─ 𝘤𝘦𝘯𝘵𝘰𝘴𝘦𝘪 ꒱
Nata il 15 dicembre 1743, Rebekah ha la modica cifra di centosei anni. Possono risultare parecchi per un comune mortale, ma in realtà equivalgono a circa il trentacinque per cento della vita di un ibrido; continuando in questo modo, con un veloce rapporto tra uomo ed estraneo, troviamo che questa percentuale corrisponde, per una speranza di vita umana stimata sugli ottanta anni, a ventotto.
Ebbene la nostra fata, fosse una donna, avrebbe quell'età.
Ammettiamolo, dai diciotto ai trenta ai giorni nostri è perfetto: le responsabilità ci sono ma minime, il lavoro inizia ad essere stabile e si può sperimentare ogni forma di relazione possibile, ché non si hanno preoccupazioni se non di se stessi.
Nell'Ottocento, invece, sappiamo bene non essere così, soprattutto per le donne: devono darsi in sposa, lasciare la famiglia e andare a vivere sotto il comando di chi spesso neanche si ama, avere rapporti e svariati figli con quest'ultimo.
Meno male che non è stato il caso di Rielys! Non che non le piacciano i bambini, anzi, proprio per essere una wetnurse li adora, ma la sua concezione d'amore e matrimonio è ben diversa dalla mentalità corrente e vorrebbe innamorarsi per davvero. Vorrebbe una storia come quella dei genitori, il loro amore eterno ricambiato e scelto reciprocamente; invece si guarda intorno e vede che per lei non sarà così, suo padre stava già cercando di farla maritare prima che dimenticasse di avere una figlia femmina.
Solo che a Rebekah va bene anche così: soffre tremendamente la solitudine, ma con un profondo respiro ogni lamentela viene sotterrata negli antri più remoti del suo cuore, che dà l'ordine al cervello per sorvolare il pensiero e andare avanti. Crede nell'amore sincero -secondo l'Astrologia la sua Venere è in Scorpione: passione, sensibilità e attaccamento da vero segno d'acqua- e non accetta di finire a passare il resto dei suoi giorni con qualcuno che ha degli interessi anni luce lontani dai suoi, come il Mercurio in Capricorno suggerisce (gli individui con questa posizione astrale hanno infatti bisogno di certezze e faticano ad andare d'accordo con dei pensieri opposti ai propri).
Ventotto anni umani, centosei da ibrida, per i primi considerata vecchia per i secondi una bambina. Solo il trentacinqe per cento della sua intera vita, una esperienza sufficiente dei suoi poteri da permetterle di poterli usare senza il rischio di essere pericolosa per chiunque le si trovi intorno al momento del loro utilizzo -non che si possa, in realtà: sono estremamente limitati e gli effetti positivi.
È dunque una fata che sta iniziando a maturare per davvero, che ne ha di esperienze da fare ma è sulla buona strada per concludere in bellezza qualsiasi obiettivo voglia mai raggiungere. Attualmente ne ha due: dimostrare che da Estranea è degna di ogni diritto umano e dimostrare a suo padre -pace all'anima sua, pregava non a Jahvè come le aveva insegnato lui, ma alla sua Dea, perché nonostante tutto rimaneva chi l'aveva cresciuta- che non era un mostro.
Era il pensiero che la tormentava più di tutti e non poteva stare schiacciato nel suo cuore, né il suo cervello poteva passarci sopra.
A centosei anni, ventotto da umana, è abbastanza grande prendersi delle vere responsabilità e rimanere fedele alla sua persona. Sta maturando, le servono esperienze ed è pronta a farne.
Solo cadendo si impara a rialzarsi, giusto Rielys?
꒰ 𝗡𝗔𝗭𝗜𝗢𝗡𝗔𝗟𝗜𝗧𝗔': 𝘦𝘯𝘨𝘭𝘪𝘴𝘩 ─ 𝘪𝘨𝘭𝘦𝘴𝘦 ꒱
Da nome e cognome si pu
ò intuire ch'ella altro non possa essere se non inglese. Il suo ramo paterno è originario di Golders Green, un quartiere settentrionale di Londra dove la stessa Rebekah è cresciuta, mentre quello materno della campagna inglese al sud della grande città, quasi vicino alle bianche scogliere.
Le wetnurse britanniche vivevano lì in comunità dalla grande migrazione avvenuta ancora prima della nascita di Cristo. In normali circostanze avrebbero odiato spostarsi dal loro luogo di nascita, ma a seguito di un grave incendio nelle foreste della Bretagna, da cui provenivano, erano state costrette a volare nel territorio più vicino, atterrando in Inghilterra.
Così, le fate inglesi si erano stanziate nella brughiera, adattandosi presto al clima che non era poi così differente da quello bretone; in fondo, la distanza tra i due posti era circa cinquecento chilometri, che seppur potevano sembrare molti per la scarsa disponibilità di mezzi, al contrario ci era voluto solo un mese alle fate per arrivare con le loro ali.
A Rebekah piace sentire la madre raccontare di come era la brughiera: ampie distese di erbe come l'erica e il brugo, che coloravano il paesaggio di sfumature rossastre, rosa, lilla e ancora verde e giallo. Le piaceva sentire di quando Jade usciva a piedi scalzi per il prato insieme al cane da pastore a raccogliere le more dai roveti; rideva sempre quando arrivava alla parte in cui tornava a casa con le spine nei piedi e nonna Margareth gliele toglieva con la pinzetta e nonno John -un pastore umano che aveva sposato la fata, che da allora aveva abbandonato la comunità di wetnurse per non metterle in pericolo- le faceva la ramanzina.
Al contrario, quando Roger provava a raccontarle di come era stata la sua di infanzia, lei si trovava disinteressata, poiché non le piaceva lo smog della città, il grigio del cielo londinese delle fabbriche, tantomeno la gente che c'era.
Preferiva la vita di campagna, le malghe, il pascolo e sentire il vento tra i capelli in cima ad una collina.
Avrebbero dovuto capirlo subito quale fosse la sua vera natura.
꒰ 𝗙𝗔𝗠𝗜𝗚𝗟𝗜𝗔: 𝘭𝘢𝘳𝘨𝘦 ─ 𝘯𝘶𝘮𝘦𝘳𝘰𝘴𝘢 ꒱
𝙈𝙖𝙧𝙜𝙖𝙧𝙚𝙩𝙝, 𝙞𝙨𝙛𝙟 ─ 𝘭'𝘢𝘭𝘵𝘳𝘶𝘪𝘴𝘵𝘢.
Madre di Jade e quindi nonna di Rebekah e tutti i suoi fratelli, la donna è una wetnurse ibrida, nata dal rapporto occasionale di una fata e di un uomo, che poi non si erano più rivisti. Ella cresce quindi nella comunità di wetnurse in brughiera, lontano dagli umani, imparando sia la lingua della Dea sia l'inglese nel momento in cui le fate si accorsero che le campagne tornavano ad essere popolate da pascoli. Non si aspettava di innamorarsi proprio di uno di loro, John Wood, vedendosi quindi costretta a lasciare la comunità per non mettere a repentaglio la loro vita e crescendo la figlia nella baita del pastore.
I'll always be by your side darling, no matter what, poi aveva sorriso e chiuso gli occhi. Si era addormentata elegantemente, con stile, come d'altronde Jade si era aspettata che avrebbe fatto: Margareth era di agosto, era un Leone, tenace ed egocentrico, consapevole del carisma e della forza mentale che possedeva.
Se ne era andata per una tubercolosi, alla quale era predisposta geneticamente per colpa del padre umano, della quale anche Jade avrebbe potuto morire e che poteva passare ad ogni suo figlio al momento del parto.
Rielys era proprio lì accanto alla nonna, un fazzoletto su naso e bocca per evitare di inalare aria infetta e tante, tantissime lacrime. Era stata una presenza significativa per la sua prima infanzia, la sua babysitter, la sua seconda mamma. Il legame affettivo che aveva avuto con la donna sapeva che non si sarebbe mai sciolto. Le aveva insegnato cosa era giusto e cosa era sbagliato -si era stupita di quante cose nel mondo appartenessero alla seconda categoria!- a riconoscere le persone buone da quelle cattive e a non vergognarsi mai di sé, insegnamenti che Rebekah sapeva che avrebbe tenuto nel cuore per sempre, così come il sorriso della donna quando le faceva i pancakes la mattina dei giorni festivi.
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𝙅𝙖𝙙𝙚, 𝙞𝙣𝙛𝙥 ─ 𝘭𝘢 𝘥𝘰𝘭𝘤𝘦.
Jëlayel, poiché a Margareth stava molto a cuore la scelta dei nomi e quando la bambina esalò il suo primo vagito, con quello sguardo simile ad un sorriso, tutto fu immediato.
Il significato era gioia, la felicità della madre per essere nata; certo, se l'era tenuto per sé, poiché John non avrebbe capito la lingua della Dea, lasciando ch'egli decidesse il nome con cui tutti l'avrebbero chiamata, Jade. Aveva scoperto che era un'ibrida per caso, notando la madre che faceva degli incantesimi per curare una mucca malata una sera piovosa di un inverno freddo, quando ormai era già maggiorenne.
È importante che questo resti un segreto, Jëlayel le aveva ordinato a bassa voce dopo averle spiegato le sue origini e il suo secondo nome, che neanche John sapeva. Poiché non aveva dato segni alcuni di stranezze magiche fino ai sedici anni, di solito periodo in cui si manifestano i poteri, poteva stare certa di non averli ereditati dalla madre; a volte succedeva che non arrivassero di diretta successione e aveva tirato un sospiro di sollievo nel sapere che aveva scampato il pericolo di poter morire solo per una natura magica.
Nata nel 1668 sotto il segno dei Pesci, sin da piccola ha dimostrato una forte sensibilità, timidezza, creatività, altruismo e una propensione verso il prendersi cura del prossimo. Tutte queste doti l'avevano resa desiderata da molti uomini, che quando Jade andava in città per vendere il latte delle mucche del padre, subito le puntavano gli occhi addosso. Eppure lei non voleva nessuno, voleva essere libera -diceva sempre a Rebekah che era da lei che aveva ereditato questa sua concezione d'amore vero- fino a quando non avrebbe trovato la persona giusta. Gli sguardi diventavano troppo invadenti, doveva andarsene via il pomeriggio per essere sicura di non correre pericoli.
La paura la fece chiudere in casa, curando le mucche e i cavalli, prendendosi cura della madre, che ormai aveva centovent'anni (sicuramente non dimostrati grazie all'invecchiamento più lento del suo corpo) e del padre, che non essendo un ibrido aveva una durata di vita molto minore, abbandonando le due donne a cinquant'anni per una febbre fin troppo alta dopo un colpo di freddo notevole. Passarono gli anni e quando si decise ad uscire di casa aveva ormai settant'anni in un corpo da ventenne.
L'incontro con il suo futuro marito era stato decisamente significativo, dove il mondo si era fermato per l'attimo in cui i loro occhi si erano incrociati e poi era tornato a girare, e il suo cuore a battere.
Si erano andati contro l'uno all'altra mentre Jade era intenta a portare latte e formaggi in città; tornata a casa dalla madre le aveva detto velocemente che si sarebbero trasferite da un certo Geller e sei mesi dopo aveva l'anello al dito.
Everyone comes to the table right now kids! Time for dinner! aveva ottant'anni in un corpo da trentenne, eppure la sua voce risultava ancora leggermente acuta e candida, dolce anche nel momento di richiamare i figli a cena. Era il suo momento preferito della giornata, dove finalmente tutta la famiglia si riuniva attorno al tavolo della cucina e mangiavano insieme ciò che lei aveva cucinato; cominciava a non esserci più spazio per tutti, il penultimo della famiglia aveva appena iniziato a mangiate sul seggiolone e il nuovo arrivato era invece in braccio alla mamma, attaccandosi al suo seno.
Suo marito iniziava a raccontare come era andata la giornata, il lavoro, gli affari dell'ultimo periodo e i due bambini più grandi di rispettivamente nove e sette anni ascoltavano interessati; il terzo aiutava il quinto a mangiare, cosa che avrebbe dovuto la quarta ma era troppo triste per farlo, la nonna era morta da poco e stava ancora rielaborando il lutto.
Mentre allattava il bambino di pochi mesi, Jade guardava la sua famiglia e sorrideva felice.
Era questo quello che aveva sognato per ottant'anni.
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𝙍𝙤𝙜𝙚𝙧, 𝙚𝙨𝙩𝙟 ─ 𝘪𝘭 𝘵𝘳𝘢𝘥𝘪𝘻𝘪𝘰𝘯𝘢𝘭𝘪𝘴𝘵𝘢.
Era fine ottobre del 1717 quando il secondo figlio di un banchiere ebreo veniva alla luce, fuori nevicava anche se a metà autunno.
Non era mai stato fortunato, lo si poteva già intuire dal giorno della sua nascita, maltempo nel periodo sbagliato dell'anno; forse era proprio per via della sua buona stella che aveva deciso di girare al contrario che si era adattato di conseguenza per riuscire a fare successo nella vita.
D'altronde il significato del suo nome è proprio quello, guerriero famoso, al quale sono associati prosperità e gloria.
Era sempre stato un po' strano lui: del segno dello Scorpione, era silenzioso, riservato, forse apatico addirittura da sfiorare il cinismo, ma tanto insicuro e bisognoso d'amore dietro a questa maschera. I genitori non è che gliene avessero dato molto, programmavano già di farlo diventare un militare o un frate, così da poter campare senza bisogno di soldi; per loro ciò che contava era il primo figlio, al quale avrebbero tramandato tutti gli averi in momento di morte.
Non era il primogenito, dunque l'eredità del lavoro del padre non sarebbe andata a lui: aveva sei anni quando l'aveva realizzato e gli era dispiaciuto, odiava la sensazione di essere messo da parte, cosa che succedeva dalla nascita.
Ecco perché non si scompose di una virgola al funerale del fratello maggiore, seduto nelle panchine in prima fila a guardare la sua tomba sfilare per la navata centrale della sinagoga.
Povero Adam, che fine indegna e prematura, il morbillo l'aveva portato via; glielo diceva lui, a evitare sempre i contadini, evidentemente mai l'aveva ascoltato.
Il padre gli aveva messo una mano sulla spalla e, porgendogli un fazzoletto -pressoché inutile date le sue condizioni- aveva riposto con uno sguardo tutta la fiducia in lui. È il primo ricordo felice di Roger.
You have no idea of who I met today era ciò che diceva più o meno ogni sera, accompagnato da un sospiro quando si lasciava cadere sulla sedia di legno, sempre troppo a peso morto, uno di quei giorni l'avrebbe rotta.
Trovava sempre il piatto caldo davanti, ringraziando il Signore per i suoi doni e poi iniziando a mangiare insieme alla famiglia, che sempre doveva aspettarlo, anche se rincasava alle nove di sera e i bambini avevano mal di pancia dalla fame.
Come un buon padre, doveva dare l'esempio e far vedere come si stava a tavola: schiena dritta, è la forchetta che va alla bocca, non il contrario, bambini e una posizione composta erano sinonimo di educazione e buone maniere e loro erano una famiglia per bene, mica una banda di pirati, diceva sempre.
Poi, finalmente, Jade gli chiedeva chi realmente avesse incontrato di così strabiliante e lui se ne usciva con un uomo diverso ogni giorno, ché se ne vede di gente strana nel mondo degli affari. Uno che voleva aprire un business di francobolli, uno che voleva vendere una carrozza con uno stemma improponibile sopra, uno che diceva aver catturato una balena e così via, largo all'immaginazione. I suoi bambini adoravano ascoltare le sue avventure, sapere che forse avrebbero collaborato a portare avanti il nome dei Geller nel mondo bancario e questo rendeva fiero Roger, che si puliva la bocca con il tovagliolo e nascondeva un sorriso soddisfatto nel vedere tutti gli occhi puntati su di lui.
Finalmente era il protagonista di qualcosa di concreto e aveva una famiglia intera che dipendeva da lui; non poteva commettere un passo falso o permettere a qualcuno di rovinarlo, chiunque esso fosse.
Per questo aveva deciso di eliminare la figlia.
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𝘼𝙙𝙖𝙢, 𝙞𝙨𝙩𝙟 ─ 𝘪𝘭 𝘱𝘳𝘦𝘤𝘪𝘴𝘪𝘯𝘰.
Golders Green, 17.01.1739
Aveva gli occhi verde bottiglia, pochissimi capelli sul viso grassoccio ed era forse l'unico bambino della sala che dopo un lieve frignare aveva subito cessato di fare rumore.
Fin dalla nascita era stato silenzioso e riservato, forse un po' troppo serio anche per i bambini della sua età, che evitavano di giocare con lui perché impauriti dalle sue labbra sempre serrate. Un vero Capricorno, che invece di correre in giardino se ne stava dentro a disegnare e fare i compiti di matematica.
Nonostante questo, a casa era molto loquace e si prendeva cura dei suoi fratellini più piccoli, stranito quando si vide arrivare una femmina in casa.
Si chiamava Adam perché così era il nome del fondatore degli ebrei e così era il nome dello zio defunto, a cui Roger aveva voluto fare un tributo -Matthew come il padre, invece, al quale era grato per avergli tramandato il lavoro. Si credeva importante e voleva sempre rispetto solo per chiamarsi in quel modo, prendendo molto seriamente il suo rolo di primogenito, esattamente come suo padre gli aveva insegnato. Portava un sorriso fiero sul volto quando, nei giorni in cui aveva meno lavoro, Roger gli concedeva di passare a fargli una visita, illustrandogli la vita di un uomo d'affari, che trovava interessante.
Come ogni Capricorno che si rispetti era precisino, sognava sin da piccolo un lavoro estremamente producente e negli anni aveva anche sviluppato un certo sarcasmo nei toni, guardando i coetanei dall'alto al basso: se lo poteva permettere, era il primo della classe e proveniva da una famiglia ricca, ché tutti conoscevano Roger Geller per quel quartiere, il silenzioso risolutore di problemi.
Si vedeva come lui un giorno, seduto alla scrivania per consultare uomini d'affari o alta borghesia, facendo prestiti e indebitandosi, scalando la vetta del successo ma rimanendo sempre umile d'animo, così gli avevano insegnato. Non si preoccupava di ostacoli, perché studiava nei minimi dettagli ogni via possibile per evitarne, costruendosi il futuro già dall'infanzia. Sorrideva nello specchio mentre la madre annodava la sua cravatta nera delle cerimonie e anni dopo la madre non l'aveva più e si era dimenticato di avere una sorella.
Andava bene così, erano dati irrilevanti per il suo successo.
Tell me more, father la faccia interessata e la vocetta, ancora acuta dati i nove anni, i capelli neri che a volte gli andavano sugli occhi e li scostava velocemente con la mano libera, perché l'altra era occupata a sorreggere la testa.
Quasi non si accorgeva più dei Latkes di patate nel piatto -i suoi preferiti tra l'altro- che si stavano raffreddando per tutto il tempo che ci metteva a mangiarli. Prendeva appunti dentro la sua testa, rifletteva, adattava il modo di pensare del padre al suo, come a volersi fondere con lui, capirlo al meglio ed entrare nel ruolo, conformandosi alla perfezione per ciò che la società voleva da lui.
Rispettava le regole e pretendeva che venissero rispettate dai suoi fratelli, che rimproverava più dei genitori stessi, geloso anche del secondogenito che, come lui, ascoltava il padre interessato; un giorno sarebbero diventati soci in affari, chi lo poteva sapere.
Sicuramente Adam avrebbe preferito lavorare da solo, ché chi fa da sé fa per tre, eppure a quanto pareva le volontà dei genitori erano diverse. Roger infatti, condizionato dal suo passato, mai nella vita avrebbe permesso di incentrare tutta l'eredità su un solo figlio, preferendo quindi dividerla nei figli maschi, cinque su sei della famiglia. Per la femmina c'era tempo di farla crescere, aveva molte conoscenze con figli della sua età a cui avrebbe potuto darla in sposa e scaricarla.
Adam quindi di questo non si preoccupava, ma si assicurava piuttosto di essere sempre un gradino sopra ai suoi fratelli, che invece parevano, soprattutto i più piccoli, non molto interessati alla faccenda. D'altronde cosa ne poteva sapere il bambino di due mesi che la madre stava allattando. Ergo, lui aveva più esperienza, sarebbe cresciuto prima e avrebbe iniziato a lavorare per primo.
Un sorrisetto soddisfatto spuntò sul suo viso a quella affermazione nella sua testa, dove tutto quadrava e non c'era un tassello fuori posto.
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𝘿𝙖𝙫𝙞𝙙, 𝙚𝙨𝙩𝙥 ─ 𝘭'𝘢𝘷𝘷𝘰𝘤𝘢𝘵𝘰.
Golders Green, 20.08.1741
Dall'attimo in cui era nato, era più che chiaro come si sarebbe chiamato: portava il nome del secondo re d'Israele, celebre condottiero, musicista e poeta.
Sarà per quello, sarà per il Sole in Leone, ma di certo il carisma non gli mancava.
Al contrario del fratello maggiore, riservato, precisino e talvolta anche scortese, egli era un piccolo narciso, consapevole dei propri talenti che sottolineava ogni volta che poteva per non sembrare un completo idiota in ciò in cui non eccelleva. Simpatico, alla mano, di certo David non era timido: sapeva come coinvolgere i compagni a far qualcosa che voleva lui soltanto trasformando il loro punto di vista in uno simile al proprio, con tanto di argomentazioni e sorrisi convincenti. Manifestava una grande voglia di imparare e conoscere il più possibile, per cercare sempre di migliorarsi e far fiero quello che per lui era un eroe: suo padre. Ereditare parte del suo lavoro era infatti ciò che più bramava, un desiderio che si era presentato da quando ne aveva memoria e che con gli anni non aveva fatto altro che crescere.
Decisamente David ci sapeva fare, aveva una bella parlantina che avrebbe saputo incastrare anche i più furbi, estroverso e faccia allegra: una combinazione letale che sicuramente gli avrebbe riservato soddisfazioni nella vita.
Era proprio quel tipo di bambino che se gli veniva spiegata la matematica come un qualcosa da applicare e basta, lui rifiutava, cercando di capire cosa ci fosse dietro, non voleva essere fregato. Se la famiglia fosse stata cristiana, il suo nome sarebbe stato Thomas, come San Tommaso lo scettico, che aveva chiesto a Gesù resuscitato di far vedere agli apostoli le ferite su mani e piedi.
Era così un po' per la nascita e un po' per Roger, perché di questi tempi non ci si può fidare di nessuno, a momenti neanche della propria famiglia! diceva ogni sera a tavola quando tornava arrabbiato, magari per un socio che gli aveva soffiato un cliente o per quest'ultimo che non aveva pagato come avrebbe dovuto. David stava lì ogni sera ad ascoltarlo parlare, immagazzinando le informazioni, estrapolandole e analizzandole, forse con un po' troppa fretta, suo difetto peggiore, che lo rendeva impulsivo se troppo sicuro di sé.
Non c'è da stupirsi se era stato lui il primo ad accusare la sorella di peccati che non aveva.
What an injustice, Father! la vocetta squillante del bambino di sette anni era arrivata chiara e tonda alle orecchie di Roger, con tanto di pugno sul tavolo (che aveva fatto poco rumore, vista la sua corporatura esile) e alzandosi in piedi.
Era solito intervenire quando raccontava qualcosa che non gli stava bene, che riteneva sbagliata o che semplicemente era fuori dalla sua portata cognitiva; non che non fosse bravo a comunicare con chi non la pensava come lui, ma cercava sempre di incentrare l'attenzione su di sé, con comportamenti spesso esagerati, propri di un bambino. Aveva fatto spaventare il fratello nel seggiolone, che adesso piangeva tanto da far tappare le orecchie ad Adam, che con uno sguardo fulminante si era girato proprio verso il bambino in piedi a guardare il padre negli occhi, come se a tenergli testa avrebbe vinto un premio.
Intimato di sedersi, l'aveva fatto solo quando tutti avevano finito di mangiare, guadagnandosi la punizione di aiutare la madre a lavare i piatti, con disgusto di David, siccome era una cosa da donne. Un po' ribelle aveva dovuto accettare per forza, venendo aiutato dalla sorella più piccola, che gli aveva sorriso dolcemente ma che era stata bellamente rifiutata, ritenendosi capace di farlo da solo. Sì, David era un po' egoista, ma chiedere aiuto era per i nullafacenti e lui era bravissimo in tutto, così credeva. Alla fine si ritrovarono un piatto in meno, ma almeno anche quella sera si era coricato col volto sereno.
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𝙄𝙨𝙖𝙖𝙘, 𝙞𝙨𝙩𝙥 ─ 𝘪𝘭 𝘤𝘳𝘦𝘢𝘵𝘰𝘳𝘦.
Golders Green, 04.02.1742
Il terzo figlio aveva un ciuffo biondo in testa e degli occhi blu come il mare, tant'è che Roger non pensava nemmeno potesse essere suo figlio, fin troppo diverso. Con gli anni però i capelli si erano subito scuriti e gli occhi, ereditati sicuramente dalla nonna, avevano conservato l'azzurro della nascita. Il sorriso, o meglio, quell'accenno di smorfia sorridente, appariva sul suo viso quando si trovava davanti una bambola di pezza della sorella da aggiustare, magari decapitata -poverina, Rebekah scoppiava sempre a piangere.
Di segno Aquario, originale, idealista e di pensieri che sfiorano l'utopia, si mostrava per lo più propenso a riparare qualsiasi cosa non andasse in casa, come un piccolo ingegnere, costruendo con i pezzi che trovava in giro delle creazioni strambe, che la madre gli applaudiva con un sorriso, incitandolo a continuare a sviluppare la sua creatività. Manteneva un certo distacco quando a chiederglielo era David, che riteneva troppo diverso da lui, di mente introversa, cercando di evitarlo per non finire nei guai. Passava il suo tempo a giocare con la terra del giardino, aiutando la madre a piantare i semi di stagione in stagione e, quando gli girava, ad andare a trovare il padre in ufficio per vedere che tipo di lavoro gli sarebbe toccato fare.
Non gli piaceva ingannare le persone -con i soldi poi, che trovava futili- preferiva anzi creare, costruire invenzioni che potessero giovare alla società, ricevere dei meriti ler il suo impegno e vivere di quello.
Ma, ahimé, il padre vedeva futuro diverso per lui, che non sapeva imporsi e preferiva lasciarsi scorrere tutto addosso, consapevole che non si può cambiare una mente cresciuta come quella di Roger. Così Isaac cambiava, si adattava, cresceva secondo gli standard di una Londra industriale, di quelle fabbriche che lui avrebbe tanto voluto dirigere ma che sarebbero rimaste un desiderio lontano. Prendeva la forma di un uomo d'affari di mente subdola e carismatica, completamente differente dalla sua percezione di persona a modo eppure costretto a conviverci, l'eterni infelice ragazzo. Sbuffava, si lamentava silenziosamente, si rifugiava nei sogni la notte, mentre il giorno gli veniva insegnato il futuro a cui si sarebbe conformato per non deludere la famiglia, sicuro che alla fine sarebbe stato discreto anche in quello. Perché la grande dote positiva di Isaac stava proprio nel sapersi adattare alle esigenze, studiando la situazione ed immedesimandosi in un ruolo che nessuno avrebbe detto non gli appartenesse.
Forse era calato troppo nel ruolo di apatico uomo di successo, ché quando guardava la sorella sanguinante aveva un volto impassibile che non era di certo il suo.
Could you be more quiet, for the love of God? il sussurro stizzito del bambino che aveva la testa fra le mani e si massaggiava le tempie era rivolto verso il fratello maggiore che aveva sbattuto il pugno sul tavolo e che ora stava in piedi a beccarsi la sgridata del padre. Oppure era rivolto al fratellino in lacrime, che per le sue orecchie aveva superato di qualche decibel la concezione di ultrasuono. Odiava il rumore, non poteva sopportarlo, gli provocava il mal di testa e diventava di colpo irascibile e la sua intenzione non era affatto di beccarsi una punizione per qualche risposta poco carina nei confronti di David. Con la calma che gli era rimasta, sapendo che Jade era occupata ad allattare, ci aveva pensato lui a zittire il bambino, accarezzandogli la testa mentre la sorella lo imboccava. Era amico con Rebekah, cercava di proteggerla ogni volta che David era in giro a fare scherzi e per il suo quinto compleanno le aveva regalato una bambola che aveva costruito personalmente con i resti di quella che era stata fatta a pezzi da una carrozza -come ci era finita per strada era un particolare che solo il secondogenito sapeva.
Le sarebbe diventato ostile nel corso degli anni, di certo non per sua volontà, ma per esigenze quali la sopravvivenza di fronte ad una minaccia del padre, che considerava il vero pericolo, non certo Rebekah.
Il corso della vita è imprevedibile, si sarebbero sicuramente rivisti all'Inferno, la magra consolazione che gli rimaneva dopo averle detto addio prematuramente: era sicuro che sarebbe andato lì, dopo quello a cui aveva assistito. Al contrario del resto della famiglia, non l'avrebbe mai dimenticata.
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𝙍𝙖𝙥𝙝𝙖𝙚𝙡, 𝙚𝙨𝙛𝙥 ─ 𝘪𝘭 𝘤𝘩𝘪𝘢𝘤𝘤𝘩𝘪𝘦𝘳𝘰𝘯𝘦
Golders Green, 28.05.1747
Roger Geller ne aveva tanti di figli, cominciava a pensare che cinque erano abbastanza; ma quando vide il faccino sorridente di quest'ultimo e la cura con cui la madre lo stava allattando, di certo si convinse che come lui ne avrebbe voluti altri cento. Sembrava eterea la sua pelle e per questo il suo nome era come uno degli arcangeli, patrono degli sposi, casomai il matrimonio dei genitori si fosse mai pensato vacillante. Imparava in fretta a camminare e parlare, dava soprannomi improponibili ai suoi quattro fratelli maggiori già a un anno di vita, indicandoli con un sorriso che presentava i primi denti da latte. Un Gemelli che non si fa fatica a riconoscere, per la sua curiosità, la parlantina e l'esuberanza; complice era stato David, che sembrava esserselo preso sotto la sua ala, crescendolo come fosse un discepolo, sotto gli occhi attenti di Adam, che invece cercava di tenerlo sulla retta via. Lo divertiva correre in giardino, salire sul cavallo dei vicini quando glielo permettevano e giocare a fare il papà -severo e con tanti figli? aveva chiesto una volta Jade, no, ricco e desiderato! la risposta aveva fatto ridere David.
Come lui, anche Raphael sognava di diventare un banchiere, ché i soldi da sempre l'avevano affascinato, spaventato dai tanti senzatetto che vedeva per strada dalla finestra della carrozza di famiglia quando si usciva per delle scampagnate.
Era così allegro che forse era il pilastro della famiglia dopo la morte della madre, quando lui aveva solo sedici anni. Cercava sempre di tirare su gli animi, intrattenendo i fratelli, in particolare l'ultimo arrivato, più piccolo di lui, poiché con una mente occupata si faceva meno caso al dolore. Eppure, tra tutti era forse quello che soffriva di più, forzato ad odiare un ramo della sua famiglia che non aveva motivo alcuno di essere detestato, arrivare a cancellarlo completamente; che cosa non si fa per i soldi, pensava rigirandosi nel letto, da diverse notti insonne.
Rebekah, please, come back! si era svegliato di soprassalto, con il cuore in gola e la fronte sudata, guardando dormire suo fratello minore. Gli altri tre se ne erano già andati da qualche anno, lavoravano al negozio di Roger e avevano comprato casa ognuno per sé nel vecchio quartiere settentrionale di Londra. Riprendendo fiato, era tornato sotto le coperte, incapace di dormire dopo l'incubo ricorrente da qualche anno a quella parte. Non aveva mai assistito all'avvenuto, il padre non gliel'avrebbe mai permesso; di certo però le aveva sentite le urla, ovattate per Dio sa quale motivo. Erano state quelle ad averlo svegliato, vedendo che Adam, David e Isaac non erano in camera e decidendo di rimanere con l'ultimo della famiglia per evitare anche a lui un trauma. Qualche voce della quale non riusciva a capire la persona, la porta si era chiusa e Raphael aveva chiuso gli occhi per evitare che sapessero che era sveglio, sentendo i tre tornare a dormire. Un'ultimo dialogo e poi si era rifiutato di ascoltare, rabbrividendo allo schiaffo in pieno viso che il secondogenito aveva tirato al terzo.
We killed her! era un sussurro con voce spezzata dal pianto silenzioso del moro che si stava massaggiando la guancia colpita.
He's the one who did it, so shut the fuck up Isaac, or they'll hear us, la minaccia a denti stretti di David non era tardata ad arrivare, puntandogli il dito contro e riferendosi proprio ai fratelli, uno dei quali li stava effettivamente ascoltando inorridito.
Da allora era costante il pensiero di dove fosse finita, ché il corpo, venne a sapere la mattina dopo, non c'era nella camera da letto. Era come paralizzato in una realtà che non era più la sua, che era quella di una società crudele e ostile al diverso, in veloce progresso tecnologico ma in lento declino mentale.
Quando suo padre lo chiamava, sorrideva come un idiota e faceva finta di non saperlo.
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𝙅𝙖𝙘𝙤𝙗, 𝙞𝙣𝙛𝙟 ─ 𝘪𝘭 𝘴𝘦𝘯𝘴𝘪𝘣𝘪𝘭𝘦
Golders Green, 01.07.1748
Jade aveva appena finito di partorire il suo ultimo figlio che già si era messo a piangere disperatamente, facendole tappare le orecchie senza darle un attimo di tregua dopo il lungo travaglio. Se Raphael era stato il miglior parto, questo era stato decisamente il peggiore, motivo per il quale Roger aveva deciso che sarebbe stato l'ultimo. Faceva caldo quella notte di inizio luglio e il pianto del neonato aveva fatto svegliare i vicini, che però andavano a co gratularsi con la coppia per l'ennesimo figlio maschio.
Del segno Cancro, il neonato aveva manifestato subito un carattere passivo e dolce, stringendosi alla madre come se fosse ancora attaccato al cordone ombelicale. Crescendo cercava sempre di giocare con Rebekah alle bambole, venendo sgridato dal padre ogni volta che veniva beccato, facendogliene una colpa. Nessuno capiva Jacob, i fratelli alzavano gli occhi al cielo perché non faceva altro che lamentarsi ogni volta che solo lo si sfiorava, facendo intervenire la madre a separarli. Quando era piccolo non andava d'accordo con loro, decisamente non li sopportava, vuoi per la differenza di età, vuoi per il carattere diverso. Rielys era l'unica che cercava di includerlo in qualsiasi cosa facesse, ché di bontà ne aveva da vendere e regalava il suo tempo al fratello minore, prendendosi cura di lui.
Forse Roger nemmeno voleva renderlo socio in affari, tanto era scarsa la fiducia che riponeva nelle sue doti. Jacob era un piccolo artista, disegnava con le tempere che gli avevano regalato al sesto compleanno sulle mattonelle, aveva la testa tra le nuvole e assolutamente nessuno voglia di scendere nel mondo reale. Non aveva nessuna sorta di ritardo mentale, era più che sano, tuttavia rispetto ai suoi fratelli era sempre stato un di meno: non era intelligente come Adam, furbo come David, creativo come Isaac o divertente come Raphael. Era solo Jacob, con un grande problema a socializzare e le mani sporche di tempere da quando ne aveva memoria. La sua vera passione era il disegno, la scrittura, la musica, la poesia, che avrebbe coltivato con quella minima parte di eredità che gli toccava essendo l'ultimo, di nome e di fatto. A momenti solo Rebekah si ricordava di lui, tornando indietro per prenderlo per mano e caricarlo in carrozza quando era troppo piccolo per salirci.
Era la sua unica vera amica, tant'è che Isaac era diventato quasi geloso del loro rapporto, anche lui molto legato alla sorella minore. Gli avevano portato via l'unico straccio di speranza che gli era rimasta, senza la quale Jacob non sorrideva. Voleva solo scappare da quella famiglia che teneva le sue ali tappate e ricominciare da capo in una che lo supportasse veramente. Invece doveva solo aspettare che l'uomo che più detestava al mondo morisse. Quella notte dormiva, la mattina dopo non aveva più una sorella.
What did you do to her? era una domanda che aveva nella testa da quasi due anni. Non si parlava tanto con gli altri fratelli, nonostante Roger facesse di tutto per tenere la famiglia unita, supportato da Raphael con battute e scherzi per risollevare gli animi; pero non si poteva riparare un cuore spezzato, men che meno rimettere in piedi una famiglia per tre quarti e pretendere che fosse compatta. I Geller erano un grande puzzle, dove nonostante la differenza di età, di carattere, di sesso, ognuno teneva in piedi l'altro, accomunati dal senso di unità. Come tutti i puzzle, se un pezzo manca non è completo ed è visibile ad occhio che qualcosa non quadra.
Aveva deciso di parlare loro andando direttamente nell'ufficio dove una volta il padre lavorava e dove adesso Adam e David si alternavano la mattina. Voleva spiegazioni reali, concrete, che riuscissero a completare gli ingranaggi nella sua testa che non riuscivano a girare senza sapere la storia. Dov'era, cosa faceva, perché non tornava, perché non avevano fatto un funerale se era davvero morta.
Presentandosi davanti alla porta dell'ufficio, la campanella aveva tintinnato come aveva messo piede nel negozio, ritrovandosi davanti ai capelli neri e barba incolta di Adam, che sembrava non dormire da diverso tempo. Anche quella volta, non aveva ricevuto risposte che potessero placare la sua sete di conoscenza e, soprattutto, di vendetta.
We've never had a sister, Jacob. Have a good day, e la campanella sulla porta aveva suonato l'ultima volta che sarebbe mai entrato nell'ufficio dei Geller.
Consapevole che non era un sogno, che davvero sapeva di non essersi immaginato Rebekah, non si capacitava di come nessuno dei suoi fratelli gli dicesse la verità. Era sempre un solo negare con naturalezza di aver mai avuto una sorella tra di loro, facendolo lentamente diventare pazzo. Un giorno si era rassegnato e l'aveva dimenticata anche lui, per sempre.
꒰ 𝗔𝗦𝗣𝗘𝗧𝗧𝗢: 𝘢𝘳𝘪𝘢𝘯𝘢 𝘨𝘳𝘢𝘯𝘥𝘦 ─ 𝘵𝘦𝘯𝘦𝘳𝘦𝘻𝘻𝘢 ꒱
Tutto di Rebekah sembra ispirare una certa tenerezza: dalla statura, che di poco sfiora il metro e cinquanta, alla corporatura esile ed i movimenti delicati, fino al viso dolce e sempre sorridente. Proprio per il rapporto bassa statura-lunghi capelli, è immediato che lo sguardo cada proprio su di essi, dei quali si prende cura ai limiti del maniacale. Per lei è ciò che meglio distingue un uomo da una donna, quello che le ripetevano sempre i suoi genitori e che ha ormai assorbito nella mentalità. Il suo colore naturale, il castano chiaro, scompare completamente nella forma di fata, lasciando posto al bianco che non solo sembra purificare completamente la sua figura, ma dona un'ulteriore lucentezza, un bagliore intorno a sé come una figura divina, l'angelo custode del suo protetto. La prima volta che ha manifestato i poteri si è spaventata e non poco, guardando quel che amava di più scolorirsi come niente, ché neanche la vecchiaia era così veloce. Ci aveva poi fatto l'abitudine, non sapeva bene spiegare il perché di quella trasformazione ma aveva imparato a vedersi bene anche con quel colore. Sono lunghi fino alla schiena, ma ama raccoglierli in una grande treccia e inservi le margherite in mezzo, ché un po' le ricorda Jade che la pettinava, un po' le viene in mente Margareth che le raccontava storie di abitanti magici dei boschi -solo in tarda età aveva realizzato come tutte quelle vicende fossero state vissute in prima persona dalla nonna. Diverse sono le acconciature oltre quella, adora gli chignon ordinati e le code di cavallo, alte a tirarle quasi la cute; la sua preferita è però la treccia, perché può lasciare qualche ciuffo che le ricade comodo sul viso, per nascondere la sua forma allungata (quando viveva ancora con i genitori aveva addirittura la frangetta, per coprire la fronte).
Infatti il primo particolare che spunta sul volto di Rebekah sono le fossette sulle guance quando la sua bocca si curva in un'espressione felice, inarcando le sopracciglia pronunciate per evidenziare la spensieratezza tipica della ragazza. Ha un naso piccolo e leggermente ricurvo in giù, forse parte della sua faccia che le piace di meno oltre la fronte, ma che ha imparato ad apprezzare col passare dehli anni. Gli occhi sono piccoli e marroni, tendenti all'ambrato quando si presenta nella sua forma di Estranea, leggermente allungati che emanano calma e sicurezza; è infatti suo compito, in quanto wetnurse, mettere a proprio agio i bambini, che guardando nei suoi occhi possono tranquillizzarsi. Dai suoi tratti delicati e particolarmente femminili infatti sembra non ci sia nulla da temere; Rebekah è gentile e nei suoi modi di porsi è educata con chiunque si trovi davanti.
Non si vede bella, le sopracciglia potrebbero essere meno folte, gli occhi più grandi, la bocca meno larga e quelle fossette non avere modo di esistere. Cosa sono, buchi? ridendo i bambini le indicavano e subito il sorriso si spegneva. Tuttavia, non ha mai smesso di comparire sul volto della ragazza: sempre sorridente, a nascondere quanto le faceva male essere derisa per esprimere la sua felicità.
Col tempo ha però iniziato ad apprezzarsi di più, ecco che mantenendo un profilo basso si guardava allo specchio e si accarezzava delicatamente le guance, si toccava la punta del naso, passava le mani tra i capelli, le unghie sulla pelle spesso soggetta a insolazioni. Più cresceva, più quei tanti difetti li vedeva solo come punti di forza: le cosce -che non erano mai state grosse- di colpo erani proporzionate, il seno piccolo andava bene anche così, le fossette erano carine, beh, forse sto bene anche senza frangia.
Ad oggi Rebekah si vede molti carina, armoniosa nei movimenti e perfettamente coordinata, tanto che a volte non la si sentiva nemmeno camminare. Conserva però la sua umiltà, è priva di superbia, nella sua testa ogni creatura è bella a modo suo e per questo apprezza ogni forma di vita.
꒰ 𝗖𝗔𝗥𝗔𝗧𝗧𝗘𝗥𝗘: 𝘸𝘰𝘯𝘥𝘦𝘳 ─ 𝘤𝘶𝘳𝘪𝘰𝘴𝘪𝘵𝘢' ꒱
Può essere un fiore, un insetto, un cartello, un campanello; può ispirare paura, timore, felicità, tristezza; può essere una pistola oppure una tegola, quello che sentirete dire da Rielys non cambia: what is it?.
Che cos'è, qual è la sua funzione, da chi è stato inventato e perché: solo domande, che quasi sempre non trovavano risposta dalla madre, poco istruita, men che meno dal padre, che non aveva tempo per quelle sciocchezzuole infantili. Così passava in rassegna tutti i fratelli più grandi, ma nessuno sapeva darle delle risposte soddisfacenti, fatta eccezione forse per David, che spiegava in modi alquanto discutibili l'origine di tutto ciò che gli veniva chiesto.
Anche quando otteneva delle risposte non era soddisfatta, rimanendo il più delle volte con il dubbio, è davvero come le hanno detto o è solo quello che credono di sapere? Sapeva a malapena leggere, altrimenti avrebbe dato qualsiasi cosa per entrare in una biblioteca e cercare tutto quello che voleva.
La curiosità è sempre stata il tratto più distintivo -oltre alla gentilezza, certo- del suo carattere. Ogni fratello la descriveva in modo diverso: per Adam era una linguaccia e un prova a prendermi!, per David era tirare la manica della camicia e chiedere che cos'è questo? mostrando una semplice spazzola, per Isaac era un abbraccio e una risata; e ancora, per Raphael un sorriso e parole di conforto e infine, per Jacob era una corsa insieme fino al muretto dei vicini.
C'era, come è ovvio, chi andava più d'accordo con lei e chi meno, ma sicuramente tutti riconoscevano solo tratti positivi di Rebekah, iperattiva compulsiva bisognosa di attenzioni, timida e affettuosa, che se esagera torna subito al suo posto.
D'altronde, nata la seconda settimana di dicembre, altro non è che Sagittario, un segno di fuoco mobile, famoso nello zodiaco per la sua curiosità propria di Odisseo, a costo di prendere rischi e fare un salto nell'ignoto, amante dell'avventura ma anche saggio e composto, d'animo buono. Ha perso il conto di tutte le volte che è stata rimproverata per curiosare nei vicoli stretti dei palazzi vicino al suo, quello giallo con l'edera che vi cresceva al lato; la curiosità uccide il gatto -forse non era neanche così il detto, neanche ascoltava il padre quando glielo ripeteva, perché la soddisfazione lo riporta in vita.
Anche se con il tempo ha imparato a modificare il suo carattere, a crescere e ad adattarsi al mondo che la circonda, Rielys ha radicata nella sua natura la voglia di fare, non sta mai ferma e sembra non avere freni. Ciò le ha fatto sviluppare una serie di azioni quotidiane -non fateglielo notare, odia la routine e vi risponderà che non è ripetitiva, tiene solo la mente allenata!- che le permettono di fare sempre cose diverse nonostante siano abitudinali, quali l'alzarsi presto la mattina, andare nel bosco a raccogliere i frutti di stagione, allontanarsi fino alla sorgente del fiume che passa vicino a casa sua e tante altre che si dimentica troppo spesso.
Di parlantina facile, è sempre propensa a fare la prima mossa e ad iniziare una conversazione. Le piace parlare -la voce ce l'hanno data per essere usata!- soprattutto di ciò che le interessa maggiormente: le conversazioni filosofiche sul senso della vita, gli animali, i bambini e il cibo. Oh, come ama mangiare! Non si serve della bocca solo per parlare, anche per riempirsi di frittelle, torta di zucca, brodini di carne e tante altre leccornie che aveva imparato a cucinare solo guardando la madre farlo. Rebekah è infatti dotata di acuta osservazione, riuscendo a replicare ed adattare ciò che la circonda e vede velocemente; è intuitiva, ha un ottimo senso dell'orientamento e le piace imparare nuove cose, il che rende più immediato il suo apprendimento.
Può essere però un po' pesante, ché riuscirebbe a dirti la stessa cosa più volte ripetutamente, come un tarlo: questo difetto è riuscito a migliorarlo negli anni, ottenendo molta più pazienza e soprattutto cercando di farsi sovente gli affari suoi. Relazionandosi con il suo protetto, ha anche imparato ad adattare il linguaggio e le maniere in base all'età con cui parla: i modi dolci e infantili di approcciarsi metterebbero chiunque a proprio agio, persino i più timidi, che con lei potrebbero avere una conversazione tranquilla come se la conoscessero da una vita.
Questo, oltre che all'aspetto docile, è senz'altro frutto del suo Marte in Scorpione -come se conoscesse l'astrologia, poi: suo padre l'ha sempre tenuta lontana dalla magia nera e pericolosa- che tende a non imporsi sugli altri, e anzi a lasciare che siano loro a riversare le loro decisioni su di lei. Un atteggiamento passivo che denota però il non voler opprimere il prossimo, cercando di prostrarsi con tatto a chiunque egli sia, con parole gentili ed educate (e una vocetta stridula quando incontra animali o bambini!). Ciò nonostante, se costretta a decidere per gli altri, sembra quasi una mamma chioccia che si rivolge ai pulcini con dolcezza, non con severità, preferendo quindi raggirare l'ordine non come se lo stesse imponendo, ma anzi come suggerimento. Rebekah è brava a leggere il linguaggio del corpo: osserva l'interlocutore e capisce il suo modo di porsi, cosa ha intenzione di dirle e come poter manipolare il discorso a suo favore; sebbene possa sembrare subdolo come ragionamento, è una caratteristica di lei che viene fuori più facilmente delle altre, utilizzandola per cercare di aiutare il prossimo. Ma non fatevi ingannare da quest'attenzione meticolosa che ripone nell'osservazione: per natura non è particolarmente attenta ai dettagli, quanto piuttosto all'insieme generale, che deve essere sempre armonioso e ogni ingranaggio deve incastrarsi alla perfezione per funzionare senza intoppi.
Come l'ascendente in Pesci suggerisce, Rielys è un'inguaribile romantica, una sensibilona con un gusto particolare per l'estetica: le piace l'arte in tutte le sue forme, soprattutto la danza e la pittura, che vede come ritratto della femminilità (fine alla propria persona) e un modo inplicito per esternare una determinata sensazione, che altrimenti rimarrebbe schiacciata dentro, consumando cuore e mente. Dotata di grande creatività il suo passatempo preferito da bambina era aiutare la nonna e poi la mamma a cucire tanti vestitini per le sue bambole, con lo spago che avanzava per non dare fastidio.
I Pesci sono un segno docile, di indole tranquilla, contrariamente al Sagittario, che invece sfiora l'esuberanza. Proprio per questo l'umore di Rielys è in continuo cambiamento: col tempo ha imparato ad essere più silenziosa e meno impulsiva, eppure vige sempre in lei l'indole estroversa e curiosa. Energie contrastanti di segno di fuoco e segno d'acqua convergono però in un'unica grande caratteristica comune: l'estrema bontà e gentilezza. Non importa se le hai fatto un torto vent'anni prima, non importa se non ti conosce, Rebekah è disposta ad aiutare chiunque. Di certo non pecca di altruismo, ché con un sorriso si risolve il mondo, e il suo ottimismo contagia chi le sta intorno, che alla fine finisce per farsi una risata in allegria. Eppure, una così grande qualità va di pari passo con un altrettanto grande difetto, l'ingenuità, comune al segno solare e all'ascendente della fata.
È infatti estranea al mondo, come se vivesse in uno tutto suo, e sebbene con gli anni si sia fatta un'idea della crudeltà delle persone, a volte il suo buon cuore la manda in contro a fregature, alle illusioni, al dolore che tutti intorno a lei sembrano infliggerle, approfittandosi della mancanza di logica e razionalità che a volte le farebbe proprio bene. Sembra essersi auto convinta che ognuno meriti una seconda chance, che non c'è persona che si rispetti che debba essere discriminata per qualunque causa e dunque si pone come protettrice non del giusto, ma delle vite. Che abbiano peccato o ragione ci sarà sempre, nella sua mentalità, un modo per uscirne preservando la sicurezza del singolo. Estremamente empatica, è naturale per lei immedesimarsi negli altri, motivo per il quale è abile a riconoscere i bisogni altrui e soddisfarli al meglio. Legge il tuo problema negli occhi -lo spettro dell'anima- e non lascia il tempo di sbattere le ciglia che pensa ad un modo per risolverlo, dimenticando i propri, arrivando a trascurarsi.
Sono molto più importanti gli altri di me, specialmente se in condizioni pietose è il suo mantra da circa i sei anni, quando aveva visto un gatto venire torturato per strada da una banda di delinquenti e lasciato morire in un miagolio flebile; quanto aveva pianto quella notte, e quella dopo, e quella dopo ancora! Ogni creatura è splendida a modo suo e siamo tutti degni di vivere al meglio delle nostre possibilità.
Svegliati Rebs, il mondo fa schifo e tu devi essere più furba di lui solitamente erano queste le parole di David che, rimproverandola per la sua estrema bontà, la prendeva anche in giro, a momenti si mette a piangere se cammina sull'erba e la pesta, non la vedi?
Ci rimaneva male, forse troppo, ma stava zitta, sorrideva e si limitava a fare attenzione a non strappare i fiori. Doveva ammettere che era davvero permalosa, lo riconosceva e preferiva darla vinta ai fratelli piuttosto che far diventare un problema questo suo tratto fin troppo caratteristico.
Soprattutto sulle sue insicurezze -e da bambina ne aveva tante- Rebekah piangeva nel letto, si pizzicava la pelle e metteva il broncio con se stessa. Perché prenderla in giro?, lei non lo faceva con gli altri; ma molto spesso quando dai non ricevi come ti eri aspettato, l'ha capito con l'esperienza che solo il passare degli anni ti regala. Nessuno le ha mai dato come lei faceva con tutti: a parlare di favori non guarda in faccia nessuno e anche se le vengono fatti dei torti è sempre pronta a passarci sopra e perdonare. Attenzione, senza mai dimenticare ciò che le è stato fatto: è tanto cara e buona, ma non completamente scema. Quando viene superato il limite della pazienza di Rebekah, solitamente molto ampio, ecco che l'acqua esce dagli argini e inonda i campi, portando distruzione e travolgendo chiunque si pari davanti. Proprio per il suo grande limite di sopportazione, non è mai arrivata a tanto, ma ciò non toglie che non ne sia capace.
Dovreste avere paura, in quel caso, ché Rebekah potrebbe usare i poteri contro di voi in un momento di scarsa lucidità.
Non c'era ancora Jung alla sua nascita, ma se ci fosse stato l'avrebbe sicuramente inserita nel gruppo di personalità ENFJ, denominati i protagonisti. Costituendo il tre per cento della popolazione è una delle personalità più rare. Protagonista della sua storia è di natura estroversa non tanto per la spigliatezza quanto per la disponibilità che dimostra di avere non appena la si conosce, senza distinzioni. È intuitiva, ciò significa che si affida all'intuito più che al sesto senso, e prende decisioni a sentimento, senza stare a rimuginarci troppo sopra, non è da lei, le fa venire il mal di testa. Giudica il mondo che la circonda con spirito di osservazione, che le permette di trarre spesso conclusioni affrettate ma corrette, sempre un passo avanti agli altri; potrebbe essere il suo punto di forza, se solo non fosse così tanto buona e ingenua da sottovalutare ogni situazione potenzialmente pericolosa per lei. Empatica com'è, riconosce del potenziale in chiunque incontri, portandolo con carisma e ovviamente il consenso del soggetto a svilupparlo e renderlo concreto. È quindi una sorta di mentore, una spalla su cui appoggiarsi, della quale però spesso e volentieri si dà per scontato l'aiuto, che finisce per essere sfruttato.
È anche colpa sua in questo caso, dopo un favore che fa si sente subito di vitale importanza, portandola ad essere forse un po' troppo invadente per mantenere il controllo della situazione (che nessuno le ha chiesto). Quando glielo si fa notare, ovviamente si mostra mortificata a primo impatto, eppure è più forte di lei: se c'è qualcosa che non riesce a imparare dagli errori e dall'esperienza è proprio il non saper lasciare andare gli altri, a cui si tiene come un appiglio e se ne prende cura come una madre.
È lei a guidare con carisma e ottimismo, eppure sembra quella che si fa trainare, dal carattere senza spina dorsale, che cerca una superficie stabile a cui appoggiarsi.
Rebekah è proprio strana, un miscuglio poco omogeneo di tante qualità e qualche difetto che ogni tanto spunta per ricordare che nonostante la natura di fata anche lei è in parte umana ed in quanto tale non è e non sarai mai perfetta.
Ha da poco iniziato a convivere con questa consapevolezza.
꒰ 𝗗𝗦𝗔𝗥𝗜𝗔𝗦: 𝘣𝘭𝘶𝘦 𝘵𝘢𝘯𝘻𝘢𝘯𝘪𝘵𝘦 ─ 𝘵𝘢𝘯𝘻𝘢𝘯𝘪𝘵𝘦 𝘣𝘭𝘶 ꒱
È la pietra di ogni estraneo, ibrido o purosangue non vi è differenza, nel caso di Rebekah posizionata sulla falange, tant'è che sembra essere quasi un anello (la fascia di rame gliel'aveva fatta fare su misura la nonna, per proteggere la sua identità e far passare inosservato ciò che altrimenti non lo sarebbe stato).
Dsarias, un nome antico, che sembra quasi un sibilio di un serpente, pericoloso per gli umani quanto vitale per gli estranei; il fulcro dei loro poteri, potremmo dire la centrale da cui provengono, che li tiene incatenati e li sprigiona in qualunque momento il proprietario decida. Curioso come tipo di pietra, colore e proprietà possano rifarsi strettamente al carattere del corpo su cui si appoggiano e vivono.
La tanzanite blu è infatti la dsarias di Rebekah, comparsa sul suo dito sin dalla nascita; apparentemente scambiata per una voglia poiché piccola, è cresciuta con lei fino a prendere la forma di pietra preziosa, di minime dimensioni e blu oceano. Sì, forse giallo sarebbe stato più divertente a pensarci, data l'etimologia del suo cognome risalente al colore, ma di sfumatura blu incarna la tranquillità, rilassa l'occhio che lì vi posa lo sguardo. Secondo la cristalloterapia evoca energia e aiuta a trovare il proprio lato spirituale, a riscoprirsi, riconnettersi con gli altri e amare sé stessi. Oltre che a rilassare e pensare positivo, la tanzanite ha impatto effettivo con gli attacchi d'ansia e rafforza il sistema immunitario.
È stata Margareth a parlargliene, aveva una passione per ogni tipo di pietra preziosa e gliel'aveva raccontato in segreto che cosa significava; le piace pensare che parte del suo carattere derivi appunto dalla dsarias in simbiosi con lei, che la sua energia positiva influisca sulla mente e il suo umore. Anche perché Rielys punta a fare proprio quello: aiutare gli altri ad amarsi, a scoprirsi e ad entare in pace con sé. Intorno a lei non si hanno brutti pensieri, ma si verte al meglio delle proprie possibilità. L'impatto d'autostima che le cure della dsarias irradiano sono tali per cui non riesci a piangere se ti trovi nel suo raggio d'azione. Guardandoti allo specchio l'occhio avrà una percezione migliore, camminerai a testa alta e -guarda un po'! Come basta cambiare prospettiva- il mondo apparirà meno crudele. Non è illusione, non distorce la realtà, non inganna l'apparenza; è tutto nello stile di vita condotto.
Se sembri sicuro di te, qualcun altro lo penserà e riporrà in te le responsabilità che rendono persone di riguardo.
Se sembri cosciente di quello che fai senza dubbi e ripensamenti, qualcun altro ti riterrà pieno di carisma e seguirà le tue istruzioni.
Non si tratta quindi di fortuna ma di sicurezza. La tanzanite risolve quelle piccole imperfezioni nel modo comune di pensare col fine di invogliare a dare il meglio ogni giorno, non come fosse l'ultimo ma come volessi viverne altri milioni di giorni così.
Non appena è diventata cosciente dell'estremo potere della pietra, Rebekah si era posta l'obiettivo di aiutare il più possibile numero di persone in pessime condizioni, quali la depressione, la malattia o anche solo le banalità, come il pianto di un bambino -magari Jacob-, i litigi e le influenze negative.
Le pareva però che tutto ciò venisse incanalato nella pietra, che a volte bruciava sulla sua pelle, era pesante e le faceva male: erano solo percezioni della sua mente, che persa a prendersi cura degli altri si era trascurata.
꒰ 𝗣𝗢𝗧𝗘𝗥𝗘: 𝘩𝘦𝘢𝘭𝘪𝘯𝘨 𝘱𝘳𝘰𝘱𝘦𝘳𝘵𝘪𝘦𝘴 ─ 𝘱𝘳𝘰𝘱𝘳𝘪𝘦𝘵𝘢' 𝘤𝘶𝘳𝘢𝘵𝘪𝘷𝘦 ꒱
Come già accennato, la dsarias è ciò che scaturisce il reale potere di ogni estraneo, la fonte della natura magica. Nel caso di Rebekah, si tratta di proprietà curative effettive non solo sull'umore, sulla mente e sullo spirito, ma anche sul corpo. Vi è da specificare però che circa la metà dei poteri, se non anche i tre quarti non è possibile applicarli sugli umani, ché vedrebbero che si tratta di qualche stregoneria e tebterebbero altrimenti di farla fuori. Ha già sofferto troppo per la sua natura, non può rischiare che ciò accada nuovamente.
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Tears.
Le lacrime sono il potere più forte che possiede. Da esse infatti dipende la cura di molte ferite di armi da taglio e da fuoco, come coltelli affilati e pistole, ma anche per cause più gravi, se intervenendo per tempo.
Non appena le lacrime toccano anche solo la punta del dito di qualcuno, ecco che intorno ad egli si forma una bolla protettiva e trasparente, che serve ad isolarlo dagli agenti esterni e dare il tempo al potere dell'acqua del pianto di fare effetto. Certamente la durata dell'effetto è direttamente proporzionale alla gravità della ferita: finché sono tagli o spari, per quanto gravi possano essere sono comunque velocemente rimarginabili. Ci pensa a volte, se lavorare come infermiera sul campo di guerra, per guarire i soldati più in fretta possibile, ma ahimè è capitata donna in una società maschilista, non perde neanche tempo a cercare di farsi prendere.
Anche la magia ha un limite e un prezzo,gli effetti non durano per sempre: è il motivo per il quale non riesce a curare malattie come il tumore, arrivando solo a ritardare e alleviare il dolore, che non scompare. Non si può scappare alla morte, Rielys lo sa fin troppo bene, l'ha visto in Margareth, l'ha visto in Jade, stava per verificarlo da sé. Però poteva dare una speranza a chi soffriva, farli vivere col sorriso fino all'ultimo respiro e poi lasciarli andare con la consapevolezza di essere liberi da ogni peccato.
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Happiness.
In contrasto con il precedente, la sua allegria condiziona l'umore altrui tanto da definirlo un vero e proprio potere. Come uno sciamano che scaccia via i brutti pensieri soltanto soffiando sulla testa, così l'energia positiva della dsarias si manifesta sugli altri in egual misura.
Se una coppia sta litigando e urlando addosso, basta che Rebekah si avvicini perché i due si abbraccino e si chiedano scusa, tornando ad amarsi incodizionatamente.
Basta una piccola conversazione con lei per tornare con il buon umore dopo una lunga giornata lavorativa e stancante.
Se un bambino piange, Rielys lo prende in braccio e lo culla per qualche secondo e il piccolo ha già ripreso a ridere.
Per una fata del suo tipo, le balie, le dolci casalinghe babysitter che si prendono cura dei bambini, questo potere risulta fondamentale: immaginate tenere un neonato in fasce che non fa altro che piangere dal mattino alla sera e non avere la possibilità di calmarlo se non sperare nella fortuna.
D'altronde Rebekah non sarebbe davvero una brava balia se non avesse almeno un piccolo aiuto magico dalla sua; deve essere migliore rispetto alle balie umane, che almeno lo faccia bene. Dunque basta una culla e una nenia lenta e melodiosa, cantata con voce delicata quale quella della ragazza, che il frignare cessa di esistere e le orecchie possono avere un po' di riposo.
Il sorriso del bambino è quindi ciò che Rebekah vede con gioia, posando un bacio spesso e volentieri sulla fronte liscia, ispirando l'odore di latte e legna da ardere, ché siede sempre sulla poltrona vicino al caminetto quando deve cullarlo.
È proprio felice di essere una balia.
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Hands.
Il più comune tra i suoi poteri, anche questo molto utile per via della sua natura di fata e considerabile come sottocategoria delle lacrime.
Dalle mani infatti scaturisce un calore coagulante per cicatrizzare le ferite superficiali e più comuni, come un ginocchio sbucciato, un taglietto sul dito col coltello per il pane o una scottatura, chi più ne ha ne metta.
Si sa quanto possono essere maldestri i bambini, che non dovrebbero neanche avere accesso alle cucine, ma che la curiosità spinge ad inoltrarsi in meandri della casa a loro sconosciuti. Oppure in giardino, scorrazzando qua e là, capita talvolta di ritrovarli per terra a piangere con le ginocchia tutte sporche e il gomito pieno di sangue, ché le maniche della camicia si sono aperte nello schiantarsi contro il vialetto di pietre. Per questi casi e mille altri, Rebekah sa come intervenire: si avvicina a loro, si inginocchia alla loro altezza e sorride dolcemente, ché il potere della dsarias possa farli smettere di piangere; dopodiché posa una mano sulla ferita -dov'è che ti fa male, dolcezza?- e viene cicatrizzata in qualche minuto.
I suoi poteri sono stati pensati per una fata che a che fare con bambini anch'essi estranei, possano loro essere folletti, licantropi, sirene o draghi; Rielys è però in parte umana, per questo tutto il bene che può fare deve rimanere segreto.
Gli umani sono crudeli, per i loro pregiudizi chiudono i battenti ad un mondo che per loro ha solo che da offrirgli del bene.
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Wings.
L'ultimo potere in mano alla fata sono proprio le caratteristiche ali che le permettono di volare e che le hanno concesso di scappare via dal suo passato e aprirsi una nuova strada per una vita lontano dal pericolo.
Sono grandi e appuntite, per permetterle di volare al meglio con situazioni climatiche difficoltose, come pioggia o vento, se le nuvole sono basse.
Ciò di cui era stata più sorpresa, oltre alla felicità di vedere le sfumature gialle, blu e verdi su di esse, era la naturalezza con cui era riuscita a librarsi in volo, come se le avesse avute da sempre addosso (ché in fondo era così, ma non erano mai uscite allo scoperto). Si possono infatti vedere su Rielys durante la sua trasformazione in estranea, che le è possibile decidere con la mente, un'abilità che ha affinato col passare del tempo. In casi estremi però, ad esempio di morte quasi certa, la trasformazione avviene da sé, così come le lacrime iniziano a scendere autonome per farle riprendere conoscenza e tentare di isolarla e curarla per qualche minuto.
Le ali sono considerate un potere poiché le permettono di schivare qualsiasi arma da fuoco umana in volo, portandola a proteggersi dalla paura del diverso che la razza umana ha sugli estranei. Non producono la famosa polverina magica che permette a chi se ne cosparge di volare; naturalmente se avesse questo potere lo userebbe per far provare ai piccoli umani la sensazione di vedere il mondo dall'alto, ma queste sono solo credenze e miti che non possono avverarsi, almeno non sulla razza delle wetnurse, specialmente su di lei.
Tuttavia non usa le ali se non nel caso più disperato, ché la paura di farsi vedere nella sua forma più naturale davanti agli estranei è tale per farla nascondere e uscire allo scoperto a mali estremi. Quando impareranno a misurare il loro ego senza credersi l'unica razza degna di abitare la Terra?
꒰ 𝗕𝗔𝗖𝗞𝗦𝗧𝗢𝗥𝗬: 𝘴𝘢𝘤𝘳𝘪𝘧𝘪𝘤𝘦 ─ 𝘴𝘢𝘤𝘳𝘪𝘧𝘪𝘤𝘪𝘰 ꒱
Golders Green, London, 15.12.1743
Fioccava ormai da qualche giorno sulla grigia Londra industriale, il fumo delle fabbriche aggiunto a quello dei camini copriva lo strato candido di neve con uno di sporco inquinamento. Erano tutti indaffarati, carrozze che giravano nelle vie più trafficate, negozi ove commercianti erano alle prese con trattative importanti, orefici che consigliavano doni per Natale e macellai che mettevanobin vendita i migliori tacchini e polli per le cene di famiglia.
Non mancavano che dieci giorni alla festività più importante dell'anno e tutto ciò che Roger Geller era riuscito a dire quella mattina era orrore!
Sì, perché alle prime luci del mattino, oltre che a sentirsi già il rumore di zoccoli sul selciato e la frusta dei cocchieri, si era aggiunto anche un pianto da neonato, che proveniva dalla casa gialla in fondo alla via principale di Golders Green, il quartiere ebraico di Londra. Era nato il quarto bambino di Roger e Jade, ma la faccia del padre era tutt'altro che contenta: "Ma è una bambina!" aveva esclamato con disgusto, mentre la moglie lì di fianco cercava di riprendersi dal parto, iniziando subito ad allattarla.
"Dovevi aspettartelo che prima o poi sarebbe arrivata" lo canzonò Margareth, che teneva a bada i tre maschietti che cercavano di vedere la loro nuova sorellina.
La madre aveva uno sguardo intenerito e stranamente felice, accarezzandole la testa delicata e macchiata di sangue e sorridendo. Margareth aveva subito interrotto il suo flusso di pensieri, strappando dalle sue mani la bambina, che si era stretta al suo grembo, ancora in fasce. Cullandola dolcemente, si era illuminata e aveva pronunciato il nome della bambina Rielys, che era il legame familiare che le univa. Ne aveva approfittato perché Roger era ancora scosso dalla scoperta del sesso della neonata e non aveva di che ribattere a proposito della scelta bizzarra, che sicuramente non avrebbe condiviso.
Però Jade era lucida e si era ben guardata dal concordare con lei; si impose quindi con uno sguardo che lasciava intendere che ne avrebbero discusso in privato.
"È pericoloso per lei, lo capite o non vi entra in testa? Attirerebbe l'attenzione e non possiamo permettere che ciò accada" le bisbigliò una volta sole, cullando la piccola che aveva smesso finalmente di piangere e si era addormentata.
"Lasciamelo fare Jëlayel, voglio poter mandare avanti una tradizione che continua dalla nascita della nostra specie: non lo saprà nessuno, non verrà riconosciuto come nome ufficiale, come abbiamo fatto con te" la voce di Margareth, nonostante fosse sua madre, suonava più come una supplica che come un'imposizione.
A lungo avevano discusso, per quasi tutto il giorno, fino a che col calar del sole non si erano riappacificate, giungendo alla conclusione che si sarebbe chiamata Rebekah: nome antico ed ebraico come il ramo paterno, la sorte volle che il significato fosse proprio unione, legame, a ripensarci il destino stava ridendo nel vederli. Aveva da ridersi ben poco, però, ché, l'unione era proprio ciò che aveva distrutto la famiglia Geller.
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Golders Green, London, 09.10.1749
A guardarla era proprio una bambina a modo: gentile, altruista, educata e riservata, con le mani sempre pulite e la veste ben piegata. Le piaceva farsi raccogliere i capelli in una treccia e metterci i fiori che aveva raccolto dentro, per essere un po' più colorata. Ascoltare le storie della nonna mentre erano sedute sulle poltrone del salotto, davanti al caminetto acceso d'inverno e sul davanzale d'estate, a prendersi la brezza fresca della sera in pieno viso.
Ad inizio ottobre guardava l'albero in giardino colorare il vialetto di rosso, arancione e giallo, poiché si spogliava delle foglie che ricadevano sul terreno: quel pomeriggio piovigginava e dalla finestra del quinto piano si poteva vedere una divertente scena di David e Isaac in galosce e mantellina cacciare dei lumaconi striscianti per il vialetto. Le urla divertite dei due fratelli sovrastavano talvolta la vecchia voce della nonna, che con tocco delicato le acconciava i capelli; ogni tanto si ricordava che era lì dietro di lei solo per l'inebriante profumo di miele che emanava, per chissà quale motivo.
"Comincia a diventare grande" borbottò Margareth tra sé e sé, estraendo dalla tasca un fil di rame, come la base di un anello.
L'aveva richiamata e fatta girare verso di lei, poi le aveva preso la mano con dolcezza e ne aveva accarezzato il dorso.
Si era guardata bene intorno due volte prima di parlare, era un discorso estremamente delicato ed era necessario che nessuno lo venisse ad udire, per l'incolumità di entrambe se non addirittura di tutta la famiglia.
"Piccola Rielys, la nonna vuole farti un regalo, che non dovrai mai togliere, e che sarà parte di te da ora in poi" le fece giurare con una fermezza nella voce, che però usciva calda e tranquilla, tant'è che la bambina addirittura sorrideva, guardandosi la mano con curiosità. La nonna stava rimarcando con il polpastrello la piccola voglia bluastra che aveva sul dito medio, che con suo stupore aveva constatato stesse crescendo assieme a lei; di quel passo si sarebbero incuriositi tutti e prima o poi avrebbero fatto domande: se Rebekah non sapeva, come poteva dare loro spiegazioni?
Non esiste uomo che non approfitti dell'innocenza e ingenuità di un bambino per raggirarlo e addossarlo di colpe che non ha.
Aveva visto Margareth circondare la strana voglia con un fil di rame e legarla stretta, come se l'avesse appena regalato un anello tanto era lucente quel piccolo pezzo di blu sul suo dito; piano piano si era guardata la mano ed aveva sorriso felice, senza sapere bene il perché.
"Cara bambina, è bene che mi prometti che d'ora in poi non toglierai mai questo dono dal dito: so che hai tante domande, a loro tempo tutte saranno soddisfatte. Questo mondo è pieno di insidie e il potere -perché questo è Rielys, non giriamoci attorno- al tuo dito deve essere tenuto nascosto; da oggi diventa il tuo nuovo anello, un regalo da parte della nonna, un gioiello della sua famiglia, se così lo vuoi chiamare. Sei una bambina intelligente e sono sicura che farai quello che ti dico". Aveva poi sorriso e donatole una carezza in volto, sulla guancia morbida.
Lasciava Rebekah con tante domande e dubbi -come al solito- senza però aiutarla a trovare risposta. La faccia della nonna poteva significare solo mettersi cuore e anima in pace a riguardo e seguire il suo consiglio, facendo finta di aver ricevuto in regalo uno splendido anello di tanzanite blu lavorata.
Con un piccolo sorriso per il suo nuovo gioiello -aveva iniziato a credere che lo fosse, era decisamente più bello così che sapere di avere una pietra incastonata nel corpo- aveva lo sguardo di nuovo fuori sul vialetto coperto di foglie bagnate dalla pioggia. C'era l'arcobaleno, ché il Sole era spuntato mentre ancora faceva qualche goccia e presto si ritrovò ad addormentarsi cullata dal tocco delicato della nonna sui suoi capelli e dalla voce che raccontava storie di fate nelle radure.
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Highgate Cemetery, London, 31.01.1752
La veste nera si confondeva con quella di tutte le altre del medesimo colore, una chiazza petrolio su una vasta distesa innevata, nella quale si divertiva ad affondare il piede, non fosse stato per le circostanze. Non capiva nulla dell'ebraico, di quello che il rabbino stava dicendo alla tomba, del perché fossero tutti là attorno a piangere a strofinarsi fazzoletti di stoffa contro il naso, alcuni addirittura strappandosi lembi dei propri vestiti.
Andava per i nove, quell'anno, li compiva alla fine, eppure nonostante l'età faticava a comprendere il perché di quello che la circondava. Era accaduto così in fretta da non realizzarlo appieno e l'unica cosa che era in grado di fare era farsi abbracciare da Isaac e consolarlo nel suo silenzioso singhiozzare.
L'aveva vista la sera prima di andare a dormire, un bacio della buonanotte, una storia sulle fate; le aveva rimboccato le coperte e poi aveva chiuso la porta e la mattina dopo Jade la stava vestendo per la cerimonia d'addio. "Sta andando lassù, dove finalmente può ricongiungersi a Dio" le aveva spiegato con un abbozzo di sorriso; non è che ci credesse a quel genere di cose, anzi, quasi per nulla, ma era Roger che aveva insistito neanche fosse la sua di madre deceduta.
A Rebekah bastava solo sapere che ora era da qualche parte al sicuro e stava bene ed anzi era anche meglio che fosse morta, così che la sua anima potesse elevarsi ed entrare nel Regno Dei Cieli, così diceva il padre. Era in una fase dove tutto scorreva a rilento o addirittura non si muoveva e lei era l'unica in grado di farlo: passava in rassegna il mondo che la cirondava, chiedendosi nei particolari se davvero era successo quello per cui erano lì, se Margareth era morta davvero o se era tutto uno scherzo, forse da un momento all'altro avrebbe aperto la bara e sarebbe tornata ad accarezzarle i capelli e raccontarle le fiabe. La fase del rifiuto del lutto, dove no, non è vero che è successo, ché l'anima è ancora abbastanza vicina al suolo terrestre per sentirla ancora tra le pareti della casa, la voce riecheggiare e i passi far scricchiolare il parquet; l'incapacità di lasciare andare qualcuno di caro perché consapevoli della propria instabilità altrimenti. A nove anni come puoi essere conscio che ciò che stai facendo ha davvero un significato involontario delle proprie insicurezze, Rebekah guardava solo davanti a sé con sguardo assente. Domande, domande, domande, la tenevano sveglia la notte nei giorni successivi al funerale, si rigirava nel letto stringendo la bambola che le aveva regalato per il suo settimo compleanno: chiedeva risposte, cosa c'è oltre la morte? che cos'è davvero? come posso andare avanti?
Quando l'aveva capito che no, la nonna non c'era più, aveva iniziato a passare più tempo vicino al davanzale, tirava la manica della mamma per farsi fare le trecce e metterci dentro i fiori e le chiedeva di raccontarle le fiabe della buonanotte. Era il suo modo di ricordarla, di tenersela vicino nella quotidianità, ora che non poteva più starle in braccio e stringersi a lei per un po' di calore umano. A nove anni si è ancora piccoli per comprendere il vero significato della morte, ma Rielys aveva sviluppato una sensibilità tale per cui anche i grandi misteri della vita le sembravano parte integrante di essa, da vivere appieno con gioia o tristezza, da farsi colpire in faccia o da cavalcare con il sorriso.
Al cimitero i pini profumavano di resina, ma a lei mancava il dolce odore di miele della sua pelle.
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Golders Green, London, 29.05.1759
Si era fatta amica una bambina del palazzo e appena poteva ogni giorno andava a giocare con lei. Si chiamava Abigail e aveva gli occhi grandi e azzurri e i capelli biondi, una spruzzata di lentiggini in faccia e un sorriso grande e contagioso come quello di Rielys.
Si era subito trovata d'amore e d'accordo con lei, ché prendevano il tè insieme alle proprie bambole e poi di nascosto cercavano di uscire in giardino per fare le torte con la terra. Erano cresciute insieme da quel giorno ed anche in adolescenza continuavano ad essere in sintonia, nonostante Abbie -così la chiamava- fosse di tre anni più grande di lei.
I pomeriggi di sole uscivano per andare nel grande parco a dare da mangiare alle anatre nel laghetto, poi si stendevano sul prato, la testa di Rebekah sulle gambe di Abigail, che le accarezzava i capelli e le leggeva un libro, suo fratello lo sapeva fare e gliel'aveva insegnato.
I pomeriggi di pioggia o di neve invece, dove fa freddo e non si può uscire, si ritrovavano a casa o di una o dell'altra e con il permesso dei genitori si mettevano a cucinare la cena. Talvolta dormivano insieme, ché Rebekah si sentiva sola nella sua stanza e chiedeva compagnia per non avere paura del buio -lo temete? Siete proprio una bambina ancora- si abbracciavano e si addormentavano così, strette l'una all'altra.
Poi però Abigail aveva iniziato ad essere strana; quasi non la salutava più, le dava le spalle, non si trovava in giardino a giocare, non andava più al parco con lei.
Rebekah si domandava il motivo, tant'è che aveva cercato di scriverle una lettera, con la sua scarsa conoscenza dell'alfabeto, cercando di farsi aiutare da suo fratello Isaac, che invece sapeva leggere e scrivere.
Fortunatamente aveva ricevuto una risposta positiva, incontratemi al lago del parco oggi pomeriggio, sarò lì e Rebekah fremeva dall'emozione, il cuore le batteva forte e avvampava talvolta -sei innamorata, sorellina? la prendeva in giro David senza neanche sapere il motivo del suo stato emotivo.
Si era presentata al lago anche vestita bene, girandosi quando aveva riconosciuto i passi di Abigail, delicati e attenti a non schiacciare le foglie. Non aveva fatto in tempo a salutarla con il suo solito sorriso, che subito esso le era scomparso dal volto: "Mi sposo, Rebekah" le aveva detto con le lacrime agli occhi.
Era evidente che un matrimonio combinato non era mai stato nei suoi piani, ma la società borghese di quel tempo riteneva fosse giusto a quel modo, ché spesso erano i padri a decidere per la sorte delle loro figlie. Per lei voleva dire soltanto che non l'avrebbe più rivista, avrebbe perso l'unica cara amica -era un'amica? Si definiva così? Decisamente era sbagliato provare qualcosa per lei, allora perché si sentiva talmente male?- che aveva.
Doveva essere felice per lei, era quello che le aveva chiesto Abigail, perché, perché non riusciva ad esserlo?
Si trasferiva, andava a Manchester, lontano da lei, ché i genitori forse avevano capito fossero troppo affiatate ed era giusto separarle.
"Non scordatevi di me, vi prego" aveva sussurrato Rebekah, cercando di allungare la mano per stringerla nella sua, per sentire il calore familiare un'ultima volta.
Ed Abbie, con un amaro sorriso, si era avvicinata per poggiare la fronte sulla sua "Non potrei mai dimenticarvi" aveva replicato con una dolcezza infinita.
Con un ultimo bacio sulla fronte -che Rielys però voleva sulle labbra, un po' più in giù, fa freddo, scaldami- l'aveva vista andare via senza neanche girarsi, forse le avrebbe fatto troppo male guardarla con il braccio proteso verso di lei cercare di trovare il coraggio di fermarla e scappare insieme.
All'improvviso il rumore di bambini che giocavano e il verso delle anatre nel laghetto erano diventati talmente assordanti da farle venire il mal di testa.
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𝗩𝗘𝗡𝗧'𝗔𝗡𝗡𝗜 ─ 𝘢𝘵𝘵𝘰 𝘱𝘳𝘪𝘮𝘰
Golders Green, London, 23.07.1764
Una delle settimane più calde a Londra era quella sul finire di Luglio, dove neanche le finestre aperte potevano salvare gli abitanti della città, i più nobili tenevano sveglie le serve per farsi sventolare in faccia un ventaglio durante il sonno.
Erano giorni tristi per la famiglia Geller, ché Jade non stava bene, chiusa in camera da letto con le coperte rimboccate fino al naso nonostante il caldo afoso dell'estate. Sputava sangue, i medici parlavano di tubercolosi, Rebekah non capiva quello che dicevano; non credo si salverà, staremo a vedere mormoravano a Roger, che si passava le mani sul viso con fare preoccupato, sospirando a lungo.
Rielys voleva andarla a trovare, salutarla, fosse anche per l'ultima volta; eppure non poteva, è una malattia altamente contagiosa, di questi tempi è meglio starne alla larga. Era sua madre, valeva la pena ammalarsi per stare con lei, ma le era stato categoricamente negato di entrare in quella stanza, chiusa a chiave tranne quando le dovevano portare dei pasti: si era detta che magari poteva infilarsi dentro in quel momento, ma l'avrebbero scoperta in un niente.
Andavano avanti in quelle condizioni da circa una settimana, l'ultima volta che la madre le aveva parlato era stato per chiederle di andarle a prendere un fazzoletto, ché si sentiva poco bene. Non era vecchia, ma la malattia non guarda in faccia nessuno: povero o ricco, vecchio o giovane, se toccava te non avevi altre chances.
Ogni singola notte tra le pareti di casa Geller riecheggiava il respiro affannato di Jade e il suo tossire costante, che la tenevano sveglia e preoccupata per le sorti di sua mamma. Non era più una bambina, sapeva che la morte ormai era all'ordine del giorno, le immagini sui giornali parlavano chiaro; vederlo però da vicino, sotto ai propri occhi, fa sempre un effetto diverso. Adam era più taciturno del solito, David non faceva scherzi di alcun tipo, Isaac non costruiva nulla di nuovo, perfino Raphael, che di norma cercava di sdrammatizzare con un sorriso e una battuta, sembrava avere il morale a terra.
Che cosa stavano aspettando?
La situazione era stabile ma allo stesso tempo in bilico, quasi pareva una foglia che, immobile sulla punta del ramo, bastava un soffio di vento per farla cadere.
Quel rivolo d'aria arrivò la notte dell'ottavo giorno di agonia, quando Jade si spense del tutto in un ultimo colpo di tosse, il fazzoletto vicino a lei ormai pregno di sangue e nessuno che le stesse a fianco per tenerle la mano. Era forse la morte peggiore, quella da sola, nessuno dei suoi figli aveva potuto salutarla e Roger si era catapultato in camera troppo tardi, quando già il cuore aveva smesso di battere. Quella notte il cielo aveva deciso di scaricare un potente temporale sulla città di Londra, di quelli estivi, carichi e potenti ma di breve durata; così era morta Jade, tutto d'un colpo, rapido ma non altrettanto indolore come sarebbe piaciuto che fosse.
La mamma è morta, Roger non sapeva il significato di tatto e anche l'avesse conosciuto se ne sarebbe di certo dimenticato in tali circostanze; il filo che teneva in sospeso tutta la famiglia da una settimana, che ogni giorno si andava ad assottigliare sempre di più, si era definitivamente spezzato e tutti quelli che vi stavano appesi erano crollati giù. Nessuno aveva replicato, nessuno aveva reagito in qualunque reazione immaginabile: solo il silenzio e lo sguardo perso, forse il ritratto più effettivo del dolore.
Proprio quella notte, il legame della famiglia li fece dividere. Circa all'una, Rebekah si era svegliata con un unico pensiero in mente: salutare la mamma.
Con piccoli passi in punta di piedi, per non svegliare neanche un'anima aveva raggiunto la porta della camera dove si trovava il corpo, ancora circondato da fazzoletti insanguinati e il naso sporco.
Madre, perché a voi? sussurrò con voce strozzata, incline al pianto nel vedere la sofferenza nell'espressione con cui era morta, avvicinandosi a lei per una carezza sul viso. Era coperta di piccoli graffi e lesioni sul corpo, probabilmente fatti da sé per cercare di non urlare dal dolore della situazione; la sua pelle, pallida com'era iniziava già ad essere un po' più fredda, per confermare come se non fosse stato ancora ovvio, che n'era andata per sempre.
In quel momento, inginocchiata al capezzale della madre, altro non era che una bambina vulnerabile, non più una ragazza di vent'anni; era piccola e bisognosa di affetto, che non poteva avere da un mondo crudele come quello in cui viveva, che si era portato via la persona più importante della sua vita.
Lacrime di dolore cominciavano a scendere dal viso nell'attimo in cui cercò la sua mano per stringerla un'ultima volta, lì appoggiata alla sua pancia, bagnando le lenzuola; ed avvenne il miracolo, una magia, non si può bene descrivere, contando ch'ella neanche se n'era accorta, persa nel suo dolore a piangere la madre.
Da un occhio esterno era visibile che man mano che le lacrime toccavano il suo corpo, in un silenzioso grido di addio e disperazione, i piccoli graffi andavano scomparendo e la pelle riacquistava colore: Rielys -ché il suo nome da umana non sarebbe stato di vero impatto- aveva scoperto i suoi poteri per puro caso in circostanze insospettabili, e stava curando con il suo dolore la persona che più amava.
Stringeva la sua mano, la stringeva così tanto che poteva sentirla scaldarsi nuovamente nella sua, senza accorgersi che stava riparando i danni della morte per preservare il suo corpo, rendendola bella come lo era sempre stata.
Roger guardava tutto dallo spiraglio della porta, stringendo i pugni con rabbia, ché voleva stare da solo con sua moglie defunta e c'era sua figlia -l'unica figlia femmina, la disgrazia di un uomo d'affari- a impedirglielo.
La figlia femmina che non era sua figlia, ma una strega, posseduta dal demonio: non avrebbe toccato ulteriormente Jade, se l'era promesso, non avrebbe potuto permettere che se la prendesse il diavolo e portasse via. La stava curando, ché l'espressione nel suo viso era quasi un po' più sollevata, ma lui vedeva solo che gliela stavano strappando via e le stavano facendo chissà quale maledizione.
Jade andava salvata dalla strega e dalla magia nera, così l'unica cosa che venne in mente a Roger in quel momento fu di eliminare la fonte del male.
Rielys si rese conto che aveva smesso di piangere quando un dolore lancinante alla spalla a fece accasciare a terra.
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TW: ABUSO E VIOLENZA!!
non descrivo molto -sia perché non sono una cima a farlo sia perché sono temi che urtano la mia persona- ma per favore se siete molto sensibili a questo tipo di cose non prendetevela con me e skippate almeno la prima parte del "capitolo".
per abuso non si intende la molestia -che oltre che sbagliato sarebbe immorale e poco etico- ma piuttosto il potere di un padre esercitato in modo spropositato sulla figlia, prendendosi libertà che non ha diritto di avere, approfittando della situazione scomoda per la protagonista della scheda. preferisco specificarlo per evitare spiacevoli inconvenienti.
grazie e scusate l'interruzione <3
𝗩𝗘𝗡𝗧'𝗔𝗡𝗡𝗜 ─ 𝘢𝘵𝘵𝘰 𝘴𝘦𝘤𝘰𝘯𝘥𝘰
Golders Green, London, 23.07.1764
Non riusciva a capire con precisione quante coltellae avesse ricevuto, se quindici o venti, tutte non troppo profonde forse, ché Roger in cuor suo non avrebbe mai voluto ferirla gravemente.
La mente degli uomini è contorta, ma facilmente manipolabile dal male nel momento del dolore, che li porta a fare ciò che non si aspetterebbero mai. Roger, con un affilato coltellaccio da cucina, per colpa del dolore aveva riempito il corpo di sua figlia di ferite e sangue, guardandola contorcersi e piangere sotto di lui. Le aveva messo un panno sulla bocca per evitare di svegliare il vicinato -o peggio, i suoi figli- e perdere la reputazione di uomo onesto in quel momento e per sempre.
Lo guardava negli occhi con paura, ché la sua espressione sembrava quasi assatanata mentre le sferrava un calcio tra le costole, sperando di rompergliene qualcuna visto il corpicino esile della figlia, che una volta era tale, ora non più.
Schifosa, bastarda, puttana, un insulto ad ogni calcio.
Lurido mostro, devi morire, diceva a denti stretti mentre la prendeva a schiaffi, il viso rosso e gonfio e occhi che imploravano solo la sua pietà.
La compassione non era cosa che in quel momento Roger conosceva, poiché davanri al corpo della moglie e madre di Rebekah, stava uccidendo lentamente e a mani nude una povera innocente.
Maledetto il giorno in cui sei nata.
Sei uno scempio, uno schifo.
Dovresti bruciare al rogo, figlia del demonio.
Per ogni frase che pronunciava quasi sputandole addosso, si sentiva morire lentamente, senza neanche il coraggio di piangere di fronte a lui, il dolore lancinante che la colpiva in quasi ogni parte del corpo. In un attimo di lucidità, Roger aveva finalmente smesso, guardandola in cagnesco: "Ti lascio vivere perché non ho intenzione di sporcarmi le mani per una feccia come te. Non sei mia figlia, troia" aveva sentenziato severamente, chiudendo la porta a chiave, e lasciando Rebekah in agonia, a contorcersi sul pavimento di legno.
Finalmente -nel senso contorto e contestualizzato del termine- poteva lasciarsi andare a piangere, sicura che sarebbe morta di lì a poco, senza neanche una benda -se non quella che aveva per stare zitta- per fermare l'emorragia.
Singhiozzi silenziosi e respiri affannati riempivano il vuoto tra i muri della stanza, che avevano assistito all'orrore e ora guardavano una scena più unica che rara. Rielys piangeva, piangeva, sapeva fare solo quello, non c'era arto o muscolo che non le dolesse (e a dire la verità anche il viso era messo male, ma non poteva fermare una reazione naturale). Più piangeva più pensava che non potesse andare peggio, invece a poco a poco il dolore si affievoliva senza che riuscisse a realizzare, sull'orlo di perdere coscienza di lì a poco.
Il suo potere stava salvando anche lei, ché per fortuna le ferite erano poco profonde e facilmente rimarginabili; non avevano toccato punti vitali, come cuore, polmoni, reni o cervello, ma soltanto gambe e braccia, per cui le lacrime potevano permettersi di curarla. La pietra sulla sua mano aveva deciso di rivelarsi come fulcro del suo potere -non che lei se ne rendesse conto, in quelle condizioni- riuscendo a calmarla e non farla andare nel panico per ciò che stava accadendo.
Perché ora Rebekah, o Rielys, qualunque fosse il suo nome, delle ferite aveva soltanto la cicatrice, e le costole rotte avevano lasciato un ematoma, ormai riparate dalle lacrime e dal flusso di potere della pietra che viveva in simbiosi col suo corpo da tutta la vita. Non lo sapeva, ormai era svenuta, ma c'era qualcosa che la stava sollevando e portando via da lì, fuori dalla finestra, seppur in modo maldestro e sgraziato, ché le sue condizioni erano quelle che erano.
Grandi ali erano apparse dalle sue scapole ed erano riuscite, fin tanto che la ragazza era ancora cosciente, a farla lievitare in aria, portandola fuori dalla finestra; quando però era svenuta del tutto, ché anche il suo cervello aveva smesso di mandare comandi, allora era svanito tutto e giaceva per terra tra i cespugli, nel giardino sul retro del palazzo giallo. Non potevano funzionare senza il suo diretto controllo e in quel momento era evidente che non poter far altro che risvegliarsi da sé.
Era quasi morta quella notte, aveva perso tutto quello che le era stato insegnato fosse importante: la famiglia.
Ciò nonostante, era viva, era salva, ed era l'unica cosa che contava davvero per lei, che altro non era che una povera anima innocente.
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𝗩𝗘𝗡𝗧'𝗔𝗡𝗡𝗜 ─ 𝘢𝘵𝘵𝘰 𝘵𝘦𝘳𝘻𝘰
Docklands, London 24.07.1764
Era finita da quelle parti dopo le prime luci del mattino, che l'avevo risvegliata dolorante nel giardino sul retro. Ci aveva messo un po' a realizzare che no, non era un segno, era successo davvero e ne aveva paura: che diamine era uscito dal suo corpo? Perché le ferite si erano rimarginate? Per l'amor del cielo, era quasi morta, come aveva fatto a salvarsi da sola?
Aveva poco tempo per questi dubbi, doveva andarsene via: senza soldi, senza meta, senza nome, addirittura, ché la famiglia l'aveva rinnegata, che cosa poteva fare?
Qual era il suo futuro adesso?
La fame non la faceva pensare adeguatamente, le strette nello stomaco facevano quasi male, aggiungendosi agli arti intorpiditi. L'aspetto non era certo dei migliori: coperta di graffi e cicatrici, la il colorito pallido era sporcato dalla terra su cui aveva dormito, così come la sua veste turchese, piena di rametti, foglie e terriccio. Ripulendosi velocemente aveva cercato di mettersi in piedi, camminando a stento con un unico pensiero in testa: devo andare via da qui.
Prima che Roger si accorga della sua scomparsa, lei deve andare via.
Prima che qualche vicino la veda e la riconosca, lei deve andare via.
Zoppicando si era quindi recata per caso verso le parti del porto, aveva rubato una pagnotta quando nessuno vedeva -devo farlo o non devo farlo? era stata ferma dieci minuti davanti all'insegna a decidere- e si stava guardando intorno.
Nonostante l'odore decisamente discutibile, ché pesce marcio e petrolio non era il massimo per le narici, specie a quell'ora del mattino, le piaceva guardare gli operai caricare casse di qualsiasi tipo nelle stive, pronti a importarle all'estero.
Era un bello scenario, uno di quelli che se fosse stata brava a disegnare avrebbe ripreso con uno sketch. Masticava il pane caldo e intanto si chiedeva cosa avrebbe fatto, finché un'idea data dall'estremità della situazione le aveva fatto muovere i piedi da sola.
Era pericoloso, lo sapeva, ma aveva scelta? A guardarsi indietro in quella città non aveva speranza di campare senza il supporto della famiglia e vivere per strada era vita assai pericolosa per un fanciulla, soprattutto di notte.
Poteva perdersi, poteva finire chissà dove, incontrare chissà che gente, dove avrebbe vissuto? Non aveva soldi per comprare un'abitazione.
Queste domande sembravano ripetersi nella sua testa e farsi sempre più grandi, da un sussurro ad un grido di avvertimento, che le gambe non coglievano.
Velocemente si era avvicinata al porto e in un momento di impulsività si era caricata nella stiva insieme al carico di tè: qualche ultimo sguardo a Londra, il cielo grigio e l'odore scarico, poi il buio e il freddo del deposito l'avevano colta. Non poteva tornare indietro, a meno che qualcuno non l'avesse notata e rispedita da dove veniva; doveva solo sperare di non morire di fame e di freddo, cercando di rubare qualcosa di sopra. Ora che ci era dentro fino al collo, aveva paura.
Il viaggio era durato circa un mese, forse, non sapeva dirlo con certezza, il giorno era tutto uguale: stava al buio, pensava alla sua vita e qualsiasi cosa sarebbe venuta dopo, a volte piangeva, poi saliva nelle camere dei marinai per rubare qualcosa da mangiare quando loro erano sul pontile e tornava furtivamente al suo posto.
Ormai il suo profumo era di té, legno e salsedine, a stare seduta sempre nello stesso modo le era venuto mal di schiena; fortuna che non soffriva l'andamento altalenante, avrebbe già rimesso dietro le casse.
L'ultima cosa che si ricordava era il rumore di passi verso la stiva, i marinai che scaricavano le casse di tè e lei che usciva furtivamente e scendeva sul molo con felicità per aver finalmente toccato terra. Sì, ma dove?
Il prossimo passo era capire dove era arrivata e muoversi di conseguenza; girando per la città aveva capito dalle insegne in lingua sconosciuta di non trovarsi in Inghilterra.
Era disorientata e non sapendo la lingua aveva paura di commettere errori. Si era avvicinata nuovamente al porto, che di certo gli uomini di mare sapevano molte lingue e ad uno di loro aveva chiesto con timore Where are we?
"Bienvenue en France, mademoiselle!"
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Bretagne, France, 01.09.1764
Come aveva trovato quella casa, davvero faticava ancora a crederlo. Era almeno un giorno che camminava a vuoto, un po' per cercare qualcosa da mangiare, un po' per osservare la campagna francese.
La fortuna sembrava finalmente essere dalla sua parte, per una volta, e raccogliendo un po' di tutto, tra more e fiori aveva intravisto tra gli alberi una vecchia costruzione, simile ad una baita di montagna, completamente abbandonata, piena di ragnatele, forse con qualche trave rotta. Sollevando la gonna della veste, che ancora non aveva avuto modo di cambiare, non avendo soldi, si era fatta strada tra i rovi e aveva aperto con delicatezza la porta, facendosi scappare qualche colpo di tosse per la polvere e l'odore di muffa al suo interno.
Non era molto, ma aveva un tetto (non molto solido) sotto cui dormire e ripararsi, senza rimettere un soldo.
Probabilmente l'avrete visto in qualche film, che il rudere diventa una casetta con i fiocchi, ma la realtà è ben diversa. Con l'aiuto della magia era riuscita a dare splendore e stabilità alla sua nuova abitazione, che certo non era delle migliori, ma era pur sempre ciò che chiamava casa per la prima volta dopo il palazzo giallo di Londra.
A volte il pavimento scricchiolava sotto i suoi piedi, non c'era elettricrità e il vecchio letto pieno di tarli e polvere era l'unica cosa rimasta assieme ad un tavolo, una sedia e un piccolo mobiletto con una credenza vuota e qualcosa di quanto più simile ad un piano cottura.
Doveva accontentarsi di quello, in futuro si sarebbe comprata delle pentole, delle posate, delle lenzuola e un cuscino; prima però, doveva guadagnare i soldi.
Come poteva iniziare a lavorare? Era una donna in una società maschilista, in che modo poteva avere di che vivere senza che suo padre le assicurasse un posto?
Aveva perduto il cognome borghese e per questo non poteva neanche utilizzarlo a suo favore per farsi strada; eppure, i ricordi c'erano ancora.
A pensarci bene, sapeva come si facevano gli affari, ché aveva visto Roger all'opera e aveva ascoltato con interesse le lezioni ch'egli faceva ai fratelli più grandi su xome si vende e come ci si indebita.
Facendo un veloce calcolo (per così dire, non sapeva quasi contare, si era ripromessa avrebbe imparato con l'inizio della sua nuova carriera) aveva capito che se vendeva qualcosa avrebbe ricevuto soldi in cambio.
Ora sì che tutto quadrava, finalmente poteva tirare un sospiro di sollievo, rimboccarsi le maniche e darsi da fare: cominciava il lavoro in nero.
Amava la natura, che la circondava ora che viveva in quella nuova casetta, che aveva ancora un aspetto orrido ma che col tempo avrebbe decorato. Raccoglieva frutta di bosco, coltivava ortaggi e uva per il vino, per rinvendere il tutto ad un prezzo modesto; la mattina si alzava di buon ora, caricava tutto su un carretto rubato -qualcosa di illegale l'aveva commessa, sì, ma aveva scelta?- e partiva per Lorient, città più vicina a dove abitava.
Si faceva i clienti, prendeva i suoi soldi e tornava a casa molto tardi la sera, stanca e affaticata, con le schegge nelle mani.
I primi soldi, le prime compere, quanto era felice! Con la vernice aveva pitturato le pareti della casetta di bianco, con scopa e spugna aveva pulito e lavato pavimento, finestre e mobili; aveva delle lenzuola e un cuscino e si era divertita a cercare tovaglie, posate, pentole e barattolini di ogni tipo, ché le ricordavano i vasetti di marmellate della nonna.
Per due anni aveva lavorato, costruendosi un'attività anonima, mano a mano in giro per le città locali, che le aveva permesso di sistemarsi a modo e lasciarsi andare anche qualche sfizio personale. Aveva quindi preso due libri in prestito alla biblioteca di Lorient, uno sull'alfabeto e lingua francese per imparare e poter leggere e uno sulle creature mitologiche, per cercare di capire se avessero a che fare con lei; nessuno era stato in grado di spiegarglielo e ancora non capiva il perché dei suoi poteri, che piano piano imparava ad usare.
Le prenom, mademoiselle? le era stato chiesto, per registrare il prestito dei libri.
Ci aveva pensato un attimo, quasi presa dal panico, poi aveva sorriso leggermente, sistemando i libri nella borsa di stoffa.
Rielys, monsieur.
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Bordeaux, France, 18.03.1837
Leggendo il libro aveva imparato a classificarsi come fata, anche se il termine era fin troppo generico e aveva imparato che poteva bloccare l'invecchiamento di sua spontanea volontà. Rielys, che non si era mai piaciuta, aveva colto la palla al balzo, come si suol dire ai giorni nostri, ed era invecchiata in un corpo da ventenne.
Viveva più a lungo, per questo era riuscita ad arrivare a novantatre anni, età che di quel tempo non era lontanamente stimata da nessuno.
Aveva sfidato il tempo, aveva visto cambiare il mondo da lontano, seduta al tavolo della sua piccola casetta in mezzo alla campagna. Una spettatrice silente, a gambe conserte e un sorriso rilassato sul volto, nel frattempo che bilanciava il peso della saggezza ed esperienza con l'eterna giovinezza.
Viveva bene, lì: vendeva ciò che coltivava e con i soldi ricavati abbelliva casa, comprava libri e vestiti puliti -per il suo compleanno si era convinta a prendere una veste color cobalto, quasi lo stesso della pietra che aveva al dito, il finto anello della nonna, che era come lei, se lo sentiva dentro.
Si era ritrovata a volere più clienti, così aveva preso il cartetto, una coperta e un cuscino e si era incamminata alla volta di nuove città dove poter vendere il vino, unico cibo che poteva portarsi dietro e che sapeva non sarebbe marcito nel frattempo.
Lasciare tutto da un momento all'altro era proprio una cosa da lei, che non sapeva stare ferma e doveva muoversi, esplorare, conoscere. La conoscenza, data dalla curiosità, era l'unica arma per non rimanere fregati da nessuno, ché con l'ignoranza si domina la mente umana.
Dunque camminava con il suo carretto pieno di vino, usando i soldi ricavati dalle vendite mano a mano per comprarsi da mangiare, ignorando lo sguardo torvo di chi vedeva una donna camminare da sola per strada e vendere della merce che non fosse il suo corpo.
Giorni, settimane, addirittura un mese di viaggio, andava matta per quella vita da vagabonda, un po' spericolata e senza un'organizzazione precisa, in modo da non dipendere da niente e nessuno se non se stessa.
Ahimé però, il vino scarseggiava, ed era stata costretta a fermarsi in una città che non sapeva pronunciare, ma che sembrava anzi molto carina a vedersi: Bordeaux, al sud della Francia. Sarebbe rimasta lì fino all'ultima bottiglia di vino venduta, poi si sarebbe imbarcata furtivamente su un veliero pieno di merci e sarebbe tornata alla sua casetta in campagna. Questo era quello che aveva programmato all'incirca, eppure Rielys non è fatta per seguire le regole che si impone: non avrebbe seguito affatto il piano che aveva costruito.
Rimaneva solo un'ultima cassa del liquido ambrato che tanto amavano gli uomini, ma calava il sole ed era meglio fermarsi per la notte in quella città, sperando di trovar dove dormire in un'ostello. Passeggiando per la via principale della città, aveva udito dalla finestra del primo piano di una casa le urla di una donna sgridare qualcuno, che da quella distanza non riusciva a comprendere chi fosse.
La curiosità uccide il gatto, una frase che era solito ripeterle Roger -dio, chissà com'era morto dopo tutto quel tempo, a volte si ritrovava a pensare che avrebbe voluto vederlo prima che abbandonasse la Terra- e anche quella volta si lasciò trascinare dall'ingordigia, avvicinandosi furtivamente alla finestra per capire di che si trattasse.
Ebbene il gatto era stato proprio ucciso, preno a calci, bastonato, che era come si sentiva lei in quel momento, a guardare la scena inorridita: un povero bambino all'incirca sui cinque anni -provava ad immaginare- si era preso uno schiaffo in pieno viso dalla donna che prima urlava, ed evidentemente lo stava sgridando. Ormai viveva in Francia da un secolo, la capiva bene la lingua, ma quasi si rifiutava di sentire le brutte parole della signora, che poi per quale motivo bisogna prendersela con dei bambini in questo modo? La maggior parte delle volte non sanno quello che fanno e se lo fanno non è per cattiveria.
Sapeva cosa volesse dire essere maltrattati da un genitore, lo sapeva più che bene, nonostante il tempo passato erano eventi che non si potevano cancellare, con tutta la forza di volontà del mondo erano irremovibili dalla mente così come lo erano le cicatrici sul corpo.
Sapeva com'era la sensazione si vergogna, di dolore lancinante, di paura, di disorientamento, li conosceva, li sognava la notte risvegliandosi con il cuore in gola e il volto sudato.
Proprio perché sapeva quello che stava provando quel bambino sulla sua pelle, sapeva che lo avrebbe salvato; ormai era una certezza, quell'idea pazza che ti balena in testa come un fulmine a ciel sereno in una frazione di secondo e che può cambiare la vita di una persona per sempre. Non lo avrebbe lasciato in balia di tale donna, chissà poi com'era il marito, di certo tanto meglio non se lo aspettava.
Con un profondo respiro si era data la forza di bussare alla porta e sfoderare la sua miglior faccia triste ed afflitta davanti all'uomo che le si era parato davanti, probabilmente il presunto padre.
"Vi prego, aiutatemi" aveva supplicato con voce flebile, fosse nata in un'epoca diversa avrebbe riscosso successo nel mondo deo cinema "Mio marito mi ha diseredata, lo aiutavo con le vendite di vino che produce ma mi ha tradita e scaricata ed ora non ho casa; ho freddo, potreste farmi d'asilo per una notte? Accettate in cambio questa cassa, l'ultima che mi è rimasta e se necessario farò tutto quello che potrà soddisfarvi" si era inventata tutto di sana pianta, ma con qualche singhiozzo tra una frase e l'altra, come a voler essere più credibile, offrendo all'uomo qualsiasi cosa potesse volere da una come lei.
Non sapeva dire con certezza se egli l'aveva creduta o no, ma si era fatto da parte con uno scorbutico Solo per una notte dopo averla squadrata dall'alto verso il basso, lasciandolo fare titubante nel notare lo sguardo indugiare sulle proprie forme.
Buono il vino, si era finito almeno tre quarti della prima bottiglia, barcollando verso di lei sorridendo di sbieco, biascicando qualcosa che non si era sforzata nemmeno di capire. Ed anche se era contraria, anche se era spaventata, pensare di poter tutelare quel bambino la faceva stare buona e zitta, lasciandosi attirare a sé per la vita, facendosi toccare e spogliare, la porta della camera da letto chiusa a chiave.
Quella notte aveva dato il suo corpo per una causa ben più grande, ché doveva proteggere quella piccola anima a tutti i costi; a Pierre -così si chiamava il padre del bambino- sembrava essere piaciuta particolarmente e da che doveva essere solo una notte si era ritrovata la domestica di un borghese maniaco, in cambio di una fornitura a vita di quel vino angelico.
Si era sentita tirare la veste, il piccolo la stava richiamando Tu es une amie de mon pére? aveva chiesto con una melodiosa voce acuta, di quelle dei bambini ancora non sviluppati, delle voci bianche, di piccoli cherubini.
Gli aveva sorriso con dolcezza, abbassandosi al suo livello, allungando una mano per accarezzare la sua guancia paffuta.
Je suis Rielys, si era presentata.
Dominique, aveva replicato.
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Bordeaux, France, 01.09.1845
Da che era solo un bambino Dominique era diventato un ragazzino di tredici anni, un angelo, ché si faticava proprio a capire da chi avesse preso, tant'era Pierre un essere viscido (la madre se n'era andata di casa quando aveva sette anni, non era nemmeno menzionabile).
Rielys si riteneva abbastanza fiera di come l'aveva cresciuto, l'unica che realmente gli era stata a fianco era lei, che se ne prendeva cura dell'istante in cui aveva messo piede dentro la grande villa di Bordeaux.
D'animo quieto, Domi -così l'aveva soprannominato lei- era tipico stare nel suo e non cercare la compagnia degli altri ragazzetti della sua età -contando anche che non conosceva il mondo esterno- preferendo leggere un libro al caldo, accanto al fuoco scoppiettante e un'invitante profumo di vellutata di zucca, che si preoccupava di fargli mangiare almeno due volte a settimana. Era un po' particolare, lui, se proprio doveva essere sincera. Uno di quei bambini timidi che si nascondono dietro la mamma quando viene tesa una mano verso di loro ad invitarli a giocare. Allo stesso modo Domi ricercava la compagnia della sua amata wetnurse, attaccandosi morbosamente a lei in ricerca continua di affetto e rassicurazioni.
Ed era dolce nei modi, un vero galantuomo, così come lei gli aveva insegnato -gentilezza ed educazione, il suo mantra, come scritte in grassetto nel suo vocabolario- si poneva con calma e rispetto verso di lei.
Signorina Rielys, le vostre mani sono così soffici, gli anelli si intonano con la vostra veste, mormorava mentre, nei giorni di pioggia, stava a letto, protendendo le braccia verso di lei e prendendole le mani tra le sue, accarezzandone il dorso. Gli diceva di non fare il ruffiano, ché con lei non ce n'era bisogno, ma era parte del suo carattere che non poteva essere cambiato e non era poi un grande problema.
La riempiva di complimenti, che pensava veramente, Rielys lo sapeva, non era tipo da inventarsi tutto di sana pianta, sebbene appunto la sua tendenza ad adulare un po' tutti in quella casa. Era semplicemente buono, un bravo ragazzino, di quelli che colgono i fiori nel parco, fanno un piccolo bouquet e lo portano alle proprie mamme.
Un alone azzurro lo circondava, come se gli vedesse l'anima splendere attorno al suo corpo, così come lei emanava luce bianca: c'era qualcosa in Dominique, ormai ragazzino, che l'accomunava a lei, che la faceva sentire così vicina a lui.
Aveva scoperto che fosse un estraneo a piccoli passi, indizio dopo indizio, inizialmente notando di sfuggita un lieve protuberanza sotto l'orecchio, simile alla sua dsarias poiché di colore blu. Lo vedeva turbato ogni volta che provava a sfiorarla, lo osservava da lontano e indiscretamente, non volendo spaventarlo per qualcosa che poi poteva anche rivelarsi inutile.
Continuava a stargli accanto come ogni giorno, a fargli delle piccole lezioni private su tutto ciò che sapeva, a giocare con lui, a rimboccargli le coperte, ma stava molto attenta a come si comportava quando gli raccontava di creature fantastiche, cercando di scovare anche una minima smorfia che potesse provare che erano fatti della stessa pasta. Era quasi inquietante lo spionaggio maniacale che aveva adoperato, ma oltre che per proteggerlo caso mai fosse stato come lei, era anche una questione personale: oltre a sua nonna e sua mamma -delle quali aveva la certezza soltanto perché chi altri poteva averle trasmesso i geni?- non aveva mai conosciuto nessuno così ed essere vicini allo scoprire di avere finalmente qualcuno con cui condividere questo segreto era quasi un sollievo.
Non si dava pace, lo studiava, lo capiva, ma continuava a prendersi cura di lui come ogni giorno, ché era quello ciò per cui sentiva essere destinata, un legame forte e difficilmente dissolubile si era instaurato tra loro.
Il giorno in cui finalmente i suoi sospetti ebbero conferma, qualcuno rimase ferito.
Era stato Domi, ne era più che certa, la pentola d'acqua bollente era riversata su un uomo che giustamente si era ustionato, anche se non sapeva con esattezza per quale motivo, se non il ragazzino che aveva manifestato i suoi poteri inconsciamente. Aveva visto la scena in prima persona, aveva udito l'arroganza con cui quell'uomo si era rivolto al padroncino di casa, che per rabbia e tristezza gli aveva scatenato l'acqua bollente contro: era forse una creatura marina? Chissà quanti Estranei esistevano al mondo, proprio non riusciva ad immaginarlo.
L'aveva preso da parte e asciugato le lacrime, era comprensibile che si sentisse in colpa per l'accaduto, eppure sapeva quante domande gli corressero in testa, la confusione più totale di un bambino che ignora di essere speciale. C'era lei a spiegarglielo, Rielys aveva aspettato paziente quel momento, accarezzandogli il volto dai tratti delicati, quasi femminili: "So che sei spaventato Domi, ma credimi, quello che è appena successo è frutto di grandi poteri, che derivano da una persona fortunata e speciale come te" gli aveva detto, provando a rassicurarlo "Vedi, tu ed io siamo diversi dagli altri siamo...come dire, meno umani" a malapena riusciva a trovare le parole giuste, tant'era delicato il discorso che gli stava facendo.
"Non voglio farti spaventare, perché è una fortuna per noi, ma Domi...tu sei un Estraneo, una creatura magica, sebbene io non abbia ancora capito di che tipo" oh, decisamente era pessima con i discorsi, ma sarebbe stata lì anche per ore a rassicurarlo casomai fosse servito.
Era andata così, un po' strano, doveste proprio chiederglielo, ma aveva lasciato al ragazzino del tempo per immagazzinare quelle informazioni forti, rimanendo al suo fianco tutto il tempo necessario, supportandolo, perché oltre lei chi poteva farlo?
Piano piano gli aveva insegnato la tecnica mentale per riuscire a domare i poteri, poiché siamo in pericolo, l'uomo sa essere una razza crudele: il trucco era prendere dei profondi respiri, pensare immensamente a qualcosa di bello e rilassante per riuscire a placare qualsiasi istinto reputato pericoloso, per i tempi che correvano; era passato un secolo, Rielys l'aveva visto con i suoi occhi il tempo scorrere, ma la situazione sembrava solo che andare a peggiorare e l'ultima cosa che voleva era vedere Domi in pericolo per colpa sua, perché gli aveva rivelato forse troppo presto la sua natura pericolosa.
Era troppo tardi per cambiare il passato, concentrarsi sul futuro era la cosa la migliore per entrambi: insieme era solita dire al ragazzino, stringendogli la mano, quando vi erano degli ostacoli che da solo sembravano insormontabili.
Doveva averlo capito che era preoccupata, perché Dominique le aveva stretto le mani ripetendoglielo, insieme per sempre.
꒰ 𝗣𝗥𝗘𝗚𝗜: 𝘥𝘢 𝘳𝘪𝘧𝘪𝘯𝘪𝘳𝘦 ꒱
To listen.
Un'azione di norma sottovalutata, quasi irrilevante data la natura egoista dell'essere umano, esiste solo lui e nessuno si può mettere in mezzo in quelli che sono i suoi affari. Spesso è schivo, meschino, dimentica le buone manerie ed è il nuovo centro dell'universo.
Io, io, io, il pensiero ricorrente del narcisismo ormai diffuso nel globo, dai borghesi ai più malandati, checché se ne dica anche un vagabondo può agire secondo la sua persona, dimenticandosi del resto. Isolando tutto quello che al mondo esiste al di fuori del proprio corpo sembra invisibile agli occhi, circondato da una bolla trasparente che non gli permette di avvicinarsi all'altro.
Quello era l'uomo dell'Ottocento, questo è l'uomo di oggi, difficile sradicare un'abitudine persistente come quella; tuttavia, ci sono delle eccezioni, dei piccoli spazi di luce nel cielo nuvoloso, una speranza tenue per il mondo rovinato dalla razza umana.
Rebekah sa parlare per ore di sé, della sua vita, di come aveva imparato a superare tutto, ma ciò che è considerato davvero un pregio era l'arte dell'ascolto, indipendentemente dal discorso o dalla faccenda.
È simbolo di attenzione, mette a proprio agio l'imterlocutore, che si sentirà in grado di poter parlare, è pura, semplice educazione.
Anche solo per curiosità, le piace ascoltare ciò che ha in testa la gente, per assurdo riuscirebbe a scoprire la vita di tutti soltanto sedendosi al tavolo con loro. Consola quando ce n'è bisogno, ti lascia parlare mentre ti accarezza i capelli o si sorregge la testa con le mani, guardandoti con interesse, come se quello che le stai dicendo è la cosa più interessante che abbia mai sentito. Non si stufa, perché trova che le vite altrui siano più interessanti rispetto alla propria, le piace sentire più punti di vista e capire a fondo il carattere del suo interlocutore.
Semplicemente ti supporta silenziosa, annuendo sporadicamente e facendo delle smorfie intenerite o allegre, o qualunque reazione possa suscitare in lei ciò che sente.
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To share.
Azione -come la precedente- più unica che rara, ché l'uomo di per sé è egoista e cerca di tenere tutto quello che trova. Viene difficile condividere -a volte anche comprensibile: chi mai vorrebbe donare parte di ciò che ha faticato ad ottenere a chicchessia, senza farsi scrupoli, magari anche ad uno sconosciuto?- se si è abituati a crescere in una società meschina e tirchia.
Con una visione limitata soltanto alla propria strada verso il futuro era difficile riconoscere altre persone degne di camminare insieme, il che non è poi così strano, ognuno per le sue, non ci si può fidare di nessuno, rimani sulla difensiva. Con tutta quell'ansia sulle spalle e paura di essere attaccato quando meno lo si aspetta non si riusciva a guardare a quello che era il vero valore della condivisione.
Rielys non ha più niente da perdere ormai,
l'avevano già accoltellata alle spalle -nel senso effettivo del termine- e ha una visione completa di ciò che la circonda, riconoscendo chiunque la affianchi nel lungo cammino quale la vita.
Per compassione, per gentilezza, per educazione, per semplice voglia di aiutare, ci sono diversi modi di condividere: un pasto, un dialogo, un posto a sedere in carrozza, un percorso. Lei non si fa problemi a regalare un pezzo di sé per gli altri, magari con un dolce sorriso e una parola di incoraggiamento, se serve. Le riempie il cuore e forse la fa anche sentire meno in colpa per le disgrazie altrui, ché lei è fin troppo empatica e ascoltando le storie tristi a destra e a manca -la maggior parte sono vagabondi senzatetto- il suo cuore si stringe e fa troppo male.
Ed anche con una persona che le ha fatto un torto è pronta a guardare indietro e a farle un favore, se necessario, fosse anche solo preparare un piatto caldo o donare una coperta. È buona, non si cura delle apparenze né del passato che una persona può portarsi dietro e se c'è bisogno è pronta ad aiutare.
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To fight.
Può sembrare scontato, ma la determinazione di Rielys è ciò a cui lei stessa si affida di più, che l'ha portata a trovare di che campare e accudire Domi senza mai dubitare delle sue capacità.
Non è sempre stata così, da piccola era molto timida e insicura, ma crescendo ha imparato a non dubitare delle sue capacità, a credere in un obiettivo e perseguirlo fino al raggiungimento, con fatica ma col sorriso.
È il suo miglior pregio, quello di cui potrebbe vantarsi fino a risultare insopportabile, che la rende fiera ogni volta che si guarda allo specchio. Di conseguenza poi la sua influenza sugli altri è di non arrendersi mai, ché la sua positività e determinazione sono contagiose.
꒰ 𝗗𝗜𝗙𝗘𝗧𝗧𝗜: 𝘥𝘢 𝘳𝘪𝘧𝘪𝘯𝘪𝘳𝘦 ꒱
To forgive.
Nel caso di Rielys è proprio un bel problema, ché non si accorge quando le persone meritano o meno il perdono, lasciandole approfittare della sua gentilezza e disponibilità.
Ha perdonato suo padre, ha perdonato i suoi fratelli, non porta rancora verso Pierre, che abusa del suo corpo, senza lasciarle scelta se non quella di acconsentire a lasciarglielo faro. A questo, purtroppo, ne consegue che sia lei quella che poi rimane delusa, ferita, sia mentalmente che fisicamente.
Si dice che dovrebbe cambiare, ma ha troppa compassione dell'uomo, essere debole e semplice nella sua crudeltà.
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To get offended.
Non riesce a comprendere quando si tratta di scherzi e quando invece no, ma Rielys prende sul personale tutto quello che le viene detto; è permalosa, per colpa della sua insicurezza sul corpo e sul carattere, che ancora dopo anni, sebbene sia migliorata, vede pessimi.
Cercando di dare il massimo per gli altri, ci rimane subito male appena le viene fatto notare un singolo difetto, che si impegna per rimuovere all'istante, cercando di non rispondere per le rime o mettere il broncio. È ormai centenaria, ma su quest'aspetto è ancora una bambina, immatura e infantile, che per nascondere la sua paura di sbagliare piuttosto risponde male.
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To ignore.
Per colpa sia della mancata istruzione, nata femmina e quindi esentata dal poter ricevere un'insegnamento adeguato, e sia per la sua innata bontà, Rielys è molto ingenua; chissà quante volte è stata truffata dai clienti, che le davano i soldi sbagliati o lei stessa si è tirata la mazza sui piedi, mettendo dei prezzi più bassi di quelli che avrebbe dovuto mettere.
Non ha praticamente vissuto il mondo esterno, essendo stata in casa per tutta l'infanzia e una volta in Francia soltando delle piccole città di mare e si è creata un'idea di società anni luce lontana da quella effettiva. È forse troppo pura per stare da sola in mezzo agli umani -non che le piaccia troppo, ma ha altra scelta?- ma non se ne rende neanche conto, tanto sopravvalutata è la sua visione della vita.
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Traumatophobia.
È la paura -detta anche aglofobia- di provare dolore ed essere feriti, per qualsiasi azione che possa anche lontanamente portare dolore, impedendo a chi ne soffre si vivere serenamente.
Siccome il dolore è soggettivo, anche un piccolo taglietto sul dito può essere la fine del mondo e l'inizio di una serie d'attacchi d'ansia.
Rielys l'ha sviluppata dopo il tragico episodio avvenuto quella notte d'estate, quando suo padre l'aveva accoltellata, certamente a morte se non avesse scoperto di essere una fata. È istantaneo, come un fulmine, il ricordo del dolore delle ferite, che a volte non riesce nemmeno a tagliare le verdure per cucinare, o a pettinarsi i capelli per paura di tirarli con la spazzola.
Ogni tanto le manca il respiro, si siede, respira a fondo e poi riparte, tagliando piano le verdure, districando ogni nodo dei capelli con delicatezza.
Ha imparato a conviverci e talvolta neanche se ne accorge, cercando di non darlo a vedere neanche agli altri.
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Claustrophobia.
Anche questa derivata dal trauma con Roger, è la paura di trovarsi in uno spazio chiuso, affollato ancora peggio, senza vie d'uscita immediate o finestre.
Si sente soffocare, le gira la testa, ha sbalzi di temperatura di caldo e di freddo e le viene la nausea, costretta a sedersi contro il muro e cercare di non piangere.
In mente ha solo suo padre che la tiene immobilizzata a terra, senza via d'uscita, che le fa del male. Non ha ancora capito come calmare questi attacchi, ma a prescindere preferisce le stanze ampie e aereate, come la sua camera a casa di Dominique, quella più grande della casa.
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𝗡𝗢𝗧𝗘:
Mi dispiace, mi dispiace, sono davvero mortificata, purtroppo non sono riuscita a finirla come volevo, non sto passando un bel periodo e la mia ispirazione è proprio a terra.
Te la consegno senza one shot e con gli ultimi paragrafi striminziti, con la speranza di riuscire poi ad allungarli e ad abbellire -anche esteticamente- tutta la scheda. Per ora ho il morale a terra e rischierei di rovinare tutto; non esitare a correggermi se ci sono problemi nella storia e grazie in anticipo per la comprensione, ti chiedo davvero un milione di scuse.
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