8 - Il mio riflesso

You have saved yourself from drowning every time before this. You will rescue yourself again.

- Nikita Gill, Powerful One Sentence Reminders To Read When You Are Doubting Your Growth And Healing

Andrés

I polmoni mi bruciavano. Sbattevo le palpebre come se potessi riuscire a togliere quella patina che si era creata davanti agli occhi e che mi faceva vedere tutto sfocato. 

Intorno avevo solo il blu.

Ero rimasto seduto sul fondo della piscina per quelli che mi erano sembrati minuti interminabili. Di solito aspettavo molto di meno, ma era l'unico modo in cui riuscissi a vedere Diego. Mi faceva sempre una strana impressione. Galleggiava a pochi metri di distanza da me e sorrideva a bocca stretta. 

Era così piccolo o forse ero solo io a essere cresciuto.
Avevo paura di dimenticarlo.

Nella mia memoria indossava sempre quella maglietta nera con il sole e gli altri pianeti che gli aveva dipinto Annika nell'ultima e fatidica estate. Gli occhiali tondi erano appoggiati sul naso, esattamente nella stessa posizione nella quale glieli avevo messi io nella bara; la lente di destra era rotta nella parte inferiore. I capelli ricci e castani fluttuavano nell'acqua, liberi da qualsiasi tipo di forza di gravità. Era per questo motivo che li avevo tagliati. 

Non riuscivo a rimanere lì a guardarlo per più di qualche secondo; nonostante fossero passati quasi cinque anni, vedere il suo viso mi faceva ancora un certo effetto. 

Così riemersi in superfice. 

Inspirai a pieni polmoni e l'aria mi riempì in un attimo. 

Ogni tanto, quando per troppo tempo l'ossigeno aveva smesso di arrivare al cervello, capitava che vedessi Diego anche seduto tra gli spalti o sulle sdraio del giardino. 
Quella volta non c'era. 

Era come un perenne nascondino tra noi due: io mi nascondevo sotto la superficie dell'acqua e lui finiva sempre per trovarmi. 

Uscii dall'acqua e il primo pensiero che ebbi non fu asciugarmi, ma guardare in direzione del glicine che avevamo piantato tutti e tre insieme. 
Annika era seduta tra le sue radici, con la schiena poggiata al tronco. Aveva un blocchetto di fogli appoggiato sulle gambe piegate e ci disegnava sopra. 

Un sorriso spontaneo incurvò le mie labbra. Annika odiava disegnare.

Intorno a lei Sirius correva e saltellava tentando di afferrare alcune farfalle che volavano intorno alla sua padrona. 

La nostra mariposa. 

«Mariposa.» Feci scivolare ogni singola lettera sulla lingua. Il sapore di quella parola mi bruciava intensamente. Erano anni che non chiamavo più qualcuno così. 

Mi passai l'asciugamano sulla testa e qualcosa mi investì in pieno facendomi cadere. Sentii un peso gravarmi addosso e qualcosa di bagnato e caldo passarmi su tutta la schiena.
Mi tolsi l'asciugamano velocemente tornando finalmente a vedere. Un bianco muso mi stava occupando l'intera visione. Se ne stava davanti al sole esattamente come un'eclissi. 

Mi misi le mani sul volto per proteggerlo e iniziai a ridere. Erano anni che Sirius non mi leccava, eppure era ancora capace di farmi il solletico. Annika e Diego mi prendevano sempre in giro per questo: ero l'unico che lo soffriva.

Il sorriso mi si spense improvvisamente. 

Mi rimisi a sedere e passai le mani tra il bianco pelo del Samoiedo. 

«Ciao Sirius. Anche io sono felice di vederti.» 

Gli lasciai un bacio sul muso, poi mi alzai e andai a prendere una busta di biscotti bianchi che avevo lasciato sulla sdraio. Ne tirai fuori uno e lo diedi al cane che lo mangiò con gusto. 
Lo accarezzai ancora sulla testa e sotto il mento, e gli feci una foto.

«Sei bello esattamente come ti ricordavo.» Sentii il cuore battere più forte e risalire per la gola. 
Ingollai la saliva che si era creata e mi passai una mano sugli occhi che avevano iniziato a bruciare. 

Una farfalla blu ci passò accanto in quel momento e Sirius ne venne catturato. Saltellò via all'inseguimento di quel bellissimo insetto che odiavo con tutto il cuore.

«Hola, mariposa.» La farfalla mi volò accanto al viso, appannandomi, per un momento, la visuale. Eppure i miei occhi si fermarono ugualmente sulla figura di Annika ancora seduta tra l'erba. 

I nostri sguardi si incontrarono, si scontrarono e danzarono insieme. 

Ero tornato a Bayside, nella mia vera casa dopo anni, mi sarei di nuovo dovuto abituare alla sua presenza, questa volta più silenziosa e meno invasiva di quando eravamo piccoli. Avrei tanto voluto cambiare il passato. 

Quel 20 di agosto abbiamo entrambi perso tanto. Eravamo tutti dei bambini e ancora ne pagavamo le conseguenze.

Fu Annika a porre una fine a quel contatto. Si alzò e richiamò Sirius che corse da lei, fedele.
Strinsi i pugni.

In quel periodo avevo un estremo bisogno di lei, eppure non c'era. Mi aveva abbandonato, e continuava a farlo anche dopo, quando avevo ancora tutte le macerie di quello che era crollato addosso. 

Quando Annika sparì dietro l'angolo gettai l'asciugamano per terra e urlai per poi passarmi le mani sul volto. 

Non era stata l'unica ad essere stata ferita. 

Ripensai alla sera prima, a come i capelli bagnati le incorniciavano il viso, a come la luna le rifletteva pallida sulla pelle chiara. La pioggia le sembrava essere stata disegnata addosso.

Camminai a passi spediti verso casa sua. Non avrebbe potuto mentirmi più. L'avrei costretta a guardarmi e l'avrei obbligata a dirmi che per lei non era più lo stesso, che non provava più lo stesso che sentiva anni fa.

Ma la guardai felice, con Sirius, attraverso il vetro della finestra.
Mi sbagliavo, a quanto pareva ero solo io ad essere rimasto intrappolato nel passato. 

Quando mi voltai per tornarmene indietro mi ritrovai il glicine a pochi metri di distanza. Qualche passo e avrei potuto toccare il suo tronco. Nonostante non avesse fiori, mi ritrovai a pensare a quanto avessi imparato ad odiare quel colore. 

Per me, per il mio cervello, Diego era ancora lì.

Decisi di rientrare, alla fine dentro non poteva essere peggiore di quanto fosse fuori. 
Sbagliarmi era, ormai, diventata un'abitudine. 

Il freddo glaciale che si percepiva in soggiorno aveva riempito di brividi il mio intero corpo, a partire dalla testa fino ad arrivare alla punta delle dita dei piedi. A piedi scalzi il pavimento sembrava quasi caldo a differenza dell'aria che aleggiava pesante.

Evitai di guardare i miei; mio padre con il naso nel suo giornale, e mia madre dall'altro lato del tavolo, ovale, a fare le parole crociate con un bicchiere colmo di vino accanto a lei. Andrai dritto in cucina e aprii le ante ad altezza occhi. Di cibo ce n'era anche troppo e un pugno mi colpì dritto allo stomaco. 

Mi passai la lingua sulle labbra. La saliva aveva iniziato a farsi velocemente strada nella mia bocca. Inutili erano i miei tentativi di mandarla giù, questa tornava ed era sempre di più. 

Mossi gli occhi in fretta, passando dalle merendine al cioccolato ai biscotti integrali. La scelta era piuttosto difficile e troppo vasta.

Aprii un altro mobile e un altro ancora. 

Il cuore mi martellava nel petto e ingoiai a fatica. 
Fu solo quando l'occhio mi cadde su delle merendine all'albicocca che mi fermai. Il cuore rallentò e il fiato si calmò; respirai lentamente. 

Nessuno di noi mangiava merendine all'albicocca, solo Diego. Eppure mamma continuava a comprarle, e loro continuavano a scadere in fondo al mobile. 
Così, sbuffando, optai per dei semplici biscotti. 

Spostai la sedia con lo schienale di ferro nero e mi sedetti sul cuscino bianco quadrato. Il tavolo di vetro era ovale, mio padre aveva appoggiato su una tovaglietta di paglia una tazza di caffè che aveva lasciato raffreddare. 
Evitava accuratamente di guardare mia madre. I suoi capelli rossi erano arruffati e grosse occhiaie avevano fatto capolino sul suo volto circondandole scuri gli occhi. Continuava a scrivere parole a caso sulle parole crociate; lo psicologo diceva che l'avrebbero aiutata a ritrovare un senso di equilibrio, ma erano passati anni e ancora nulla era come prima. 

Addentai un biscotto e qualcosa di freddo si poggiò sulla mia mano. Guardai le ossute e affusolate dita di mia madre che mi stringevano con forza. I suoi occhi azzurri sgranati mi fissavano con intensità.

«Nel mobile ci sono le merendine all'albicocca che ti piacciono tanto.»

Appoggiai la mano sinistra sulla sua e ridussi la distanza tra i nostri visi. La guardai sorridendo e socchiusi gli occhi.

«Grazie mamma, le mangerò più tardi. Va bene?»

Lei annuì e bevve un sorso di vino, la mano che le tremava.

Odiavo vederla in quella condizione, ma in poco tempo sarebbe crollata e avrebbe dormito per il resto della giornata. 

«Smettila di assecondarla.» La voce severa e atona di mio padre proruppe da dietro il giornale. Non aveva intenzione di abbassarlo e guardarci oltre: se poteva evitava mia madre quanto più a lungo possibile, e quando non poteva si isolava nel suo mondo tenendo tutti gli altri fuori. 

Sospirai e mi morsi il labbro. 

«Io non l'assecondo,» Risposi a denti stretti. «cerco di non ricordarle che non sono Diego e che lui non è qui.»

Lanciai una veloce occhiata a mia madre, ma lei era troppo presa a scrivere per rendersi conto di cosa stessi dicendo.

«Invece di lasciarla alle sue fantasie, aiutala e toglile quel vino da davanti.» Abbassò il giornale e mi guardò con insistenza. Gli occhi verdi, attraverso le lenti degli occhiali neri, erano estremamente intensi. 

Mi guardavano con serietà.

Sapeva cosa sarebbe accaduto se glielo avessi tolto, non era qualcosa che avremmo potuto risolvere noi. Era consapevole del fatto che l'unico modo sarebbe stato quello di farla andare in un centro di recupero e glielo avevo ripetuto diverse volte.

«Se continua a bere così è colpa tua.» Lo sfidai a denti stretti.

«Mia?» Poggiò il giornale sul vetro e si sporse verso di me assottigliando gli occhi. «Non è colpa mia se si è ridotta così, è stata una sua scelta. Sai che non vuole essere portata in quel centro.»

Mi alzai di scatto spingendo la sedia con le gambe. 

«Dovresti obbligarla. Non so a te, ma a me non piace per niente vederla così.» Gliela indicai con la mano. «L'hai sentito anche tu lo psicologo, non possiamo lasciarla in queste condizioni.»

Mio padre sorrise con supponenza e riportò la schiena appoggiata alla sedia. 

«Fosse per me non andrebbe neanche lì. Non è migliorata di una virgola.» La guardò per un momento prima di tornare a fissarmi. Potevo benissimo percepire tutta la sofferenza che quello sguardo gli era costato.

Mi squadrò per intero e mi sentii più nudo di quanto non fossi con il costume.

«Dovresti smetterla di mangiare quelle schifezze.» Tornò a leggere con non curanza. «Ci hai messo tanto impegno per diventare così ed entrare nella squadra di nuoto, non mandare tutto all'aria per un po' di cibo.»

Mi squadrò ancora un'ultima volta da sopra gli occhiali. Mi chiesi come fosse possibile che quello stesso uomo che rifiutava di prendersi cura della sua famiglia fosse lo stesso che gli alunni amavano così tanto.

Lanciai il biscotto sul tavolo e me ne andai.

Chiusi la porta del bagno e poggia le mani sul lavandino. Le lacrime cominciarono, veloci, ad uscire da sole. 
Guardai il mio riflesso sfocato nello specchio. Mi passai una mano sugli occhi e me li asciugai inutilmente. 

Poggiai attentamente il mio sguardo su ogni centimetro di pelle scoperta. Le spalle larghe, i pettorali, gli addominali. Avevo sofferto tanto prima di essere così e per essere così, eppure ancora non era abbastanza.

Un nodo mi serrò lo stomaco e un senso di nausea mi invase completamente. Mi piegai sul lavabo e mi liberai di tutto ciò che avevo dentro. 

Nonostante non avessi mangiato niente durante la giornata, mi sentivo ancora pieno.

Brividi di freddo mi percorsero le braccia nude e le lacrime ripresero il loro percorso sulle mie guance. 

Odiavo farlo. Odiavo quello che ero diventato.

Alzai a fatica lo sguardo e mi persi nei giardini dei miei occhi languidi. Non riuscivo mai a riconoscermi quando avevo finito.
Un pianto irrefrenabile prese il sopravvento. Non riuscivo più a sopportare il mio riflesso, quello che, per molti anni, era stato anche il suo di riflesso. Perché un po' era come se lo stessi facendo anche a lui. 

Solo gli occhi erano diversi. I suoi di un intenso azzurro, esattamente come quelli di nostra madre.

Mi sedetti a terra e nascosi il viso tra le braccia.
Ero destinato a condividere con lui, per sempre, una parte di me.

«Perdonami.» Sussurrai a fatica. «Perdonami, avevo promesso che non sarebbe capitato mai più.»

Involontariamente le mie mani si mossero sul pavimento alla ricerca del cellulare. Lo tirai fuori dalla tasca del costume e, nonostante le lacrime, le dita trovarono il numero della dottoressa Spike. 

Le mani tremavano quando avvicinai il telefono all'orecchio.

«Andrés?» La voce della dottoressa era calma. 

Non le risposi, il silenzio era rotto solo dai miei singhiozzi. 

«Andrés?» Riprovò lei. «Che è successo?»

«Io... l'ho fatto.» Parlai a fatica. «L'ho fatto di nuovo.»

«Tranquillizzati e spiegami cos'è successo.» Era così controllata nelle sue parole.

«Io stavo... io ero...»

«Se mi parli così però non ti capisco. Dove ti trovi?»

Respirai un paio di volte prima di rispondere. «In bagno.»

«Bene.» Continuò. «Vai al lavandino e lavati la faccia, ho bisogno che tu sia in grado di parlare per poterti capire e aiutare.»

Feci come mi aveva detto. Mi passai sul viso l'acqua fredda che mi colpì come uno schiaffo. 
Gli occhi si liberarono delle ultime lacrime e la vista appannata tornò ad essere lucida. 

Mi sedetti ancora una volta con la schiena appoggiata alla parete e ripresi il telefono in mano.

«Andrés, ci sei?» Mi chiese la dottoressa Spike dopo un mio sospiro.

Annuii prima di rispondere. «Sì.»

«Ora dimmi cosa è successo, dall'inizio.»

«L'ho fatto di nuovo. Stavo litigando con mio padre sulla situazione di mamma e sono scappato in bagno. Ma non l'ho fatto apposta, non volevo che accadesse. È successo da solo, non sono stato io. Ora Diego tornerà ad odiarmi, non voglio che mi odi.» Spiegai tutto d'un fiato con gli occhi che avevano ripreso a bruciare ricolmi di lacrime. 

«Perché pensi di nuovo che tuo fratello possa odiarti?» Non risposi. «Ne abbiamo parlato tantissime volte. Sei vicino a uno specchio?»

«Sì.» Risposi titubante; sapevo quello che stava per accadere, l'avevamo già fatto altre volte.

«Allora voglio che ti posizioni davanti allo specchio e ti guardi dritto negli occhi.» Feci come mi disse. «Ci sei?»

«Mh.»

«Cosa vedi?» 

Passai lo sguardo da un occhio a un altro. Guardai i capelli che ora portavo sempre cortissimi; passai sul naso dritto e a punta; strinsi la mascella squadrata sulla quale cresceva un leggero strato di barba; scesi sul collo muscoloso e sulle spalle larghe. Poi il mio sguardo fu rapito dal tatuaggio che avevo nella parte posteriore dell'avambraccio sinistro e che potevo vedere solo perché reggevo il telefono all'orecchio. Solitamente dimenticavo di averlo; un grappolo di fiori di glicine. Non avevo avuto il coraggio di colorarlo. 

«Il mio riflesso.» Tirai su con il naso.

«Esattamente: il tuo riflesso. Ripetilo ancora una volta.» La dottoressa Spike era rimasta ad ascoltarmi in silenzio

«Vedo il mio riflesso.»

«È solo tuo, Andrés, tuo e di nessun altro.» Il suo tono di voce era leggermente cambiato, come se stesse sorridendo. «Mi hai sempre raccontato di quanto tu e tuo fratello andaste d'accordo. Non potrebbe mai odiarti. O mi sbaglio?»

«Non si sbaglia.» I miei muscoli si rilassarono, così dovetti appoggiarmi con la mano libera al lavabo per evitare di cadere. 

Con poche parole la dottoressa Spike riusciva sempre a calmarmi. Era sempre stata una bella donna e innamorarmi di lei era stato facile. In più occasioni mi aveva salvato, anche se continuava a sostenere che era solo merito mio se riuscivo ad andare avanti. 
È stato grazie a lei che ho intrapreso il percorso della palestra, gettando tutta la mia rabbia e frustrazione nel nuoto. 

Andarci non era mai stata una mia scelta, ma con il tempo era diventato sempre più facile fidarmi di lei. 

Anche se non le avevo mai raccontato del tempo che passavo in apnea solo per vedere Diego ancora una volta. Ero certo che, se l'avesse saputo, mi avrebbe impedito di ritornare in acqua e, allora, non avrei potuto vederlo mai più.

«Immagino che non avrei dovuto chiamarla più.» Chiusi gli occhi e sospirai sperando che lei non mi avesse sentito. 

«Non potrò mai impedirti di chiamarmi.» La sua voce era serena, tranquilla. «Sei stato mio paziente quasi per quattro anni, Andrés, ma ora che siamo così lontani credo sia arrivato il momento che trovi un'altra psicologa lì nella tua città o vicino. Le sedute a distanza non sono funzionali, non credi?»

No, non lo credevo. Ma non potevo dirglielo.

«Sì, sì.» Mi stava abbandonando anche lei.

«Non credere che voglia lasciarti, anzi.» Era come se potesse leggermi nel pensiero. «Il mio numero sarà sempre disponibile per te; ma se vuoi posso consigliarti il numero di qualche dottore che conosco e che opera nelle vicinanze.»

«Mh.» Se avessi pronunciato una qualsiasi parola ero sicuro mi sarei messo a piangere di nuovo, e decisamente non ne avevo bisogno.

«Andrés?» Rimasi in silenzio, così la dottoressa continuò a parlare. «Non ti sto abbandonando. Io sarò qui in qualsiasi caso e in qualsiasi momento. È importante che tu questo lo capisca.»

«Lo capisco.» E lo credevo sul serio, ma non ero ancora pronto a lasciare andare anche lei. 

«E sai che potrai chiamarmi sempre, anche di notte?»

«Lo so.» Confermai. 

Un rumore dall'esterno catturò la mia attenzione, così mi portai di fronte alla finestra e guardai fuori. Annika stava giocando con Sirius in mezzo alla strada vestita con un completo sportivo nero. 
Il suo volto sorridente era così rilassato. Avrei tanto voluto che anche il mio fosse cosi. 

Eppure vederli così felici mi portò, involontariamente, a piegare gli angoli della bocca in un leggero sorriso. Dalle profondità della gola mi uscì un verso, quasi simile a una risata.

«Cos'è accaduto di divertente? Vuoi parlarmene?» La dottoressa era ancora al telefono. 

«È la mia vicina che gioca con il cane.» Risposi in automatico.

«La bambina con la quale eri amico, da piccolo, insieme a tuo fratello?» Le avevo raccontato di Annika non so quante centinaia di volte. Ogni cosa mi ricordava lei.

«Sì, anche se ora non è più tanto una bambina.» Risi. Avevo imparato da molto tempo che mentire alla dottoressa Spike era del tutto inutile e controproducente. I miei occhi disegnarono linee tratteggiando il fisico di Annika. L'ultima volta che ci eravamo visti ero certo non avesse tutte quelle forme o, almeno, non le avevo notate. 

«Perché non esci e non vai a parlarle?» 

I miei occhi si abbassarono e anche le labbra tornarono dritte. 

«Perché non vuole più parlarmi. Anche se non so il motivo.» Ammisi. 

La dottoressa Spike rimase qualche secondo in silenzio prima di proseguire. «Credo che uscire ti farebbe bene in ogni caso. Non dovete parlare per forza.»

«Ha ragione.» Non dovevamo parlare, ma avremmo comunque potuto passare del tempo insieme. «La ringrazio dottoressa. E prometto che non la chiamerò così spesso.»

Corsi a mettermi qualcosa di più comodo e un paio di scarpe. Non potevo correre scalzo sull'asfalto; l'avevo fatto diverse volte, ma nessuna di quelle era stata piacevole.

Quando la raggiunsi, Annika aveva appena iniziato a correre. Non si accorse subito della mia presenza che la seguiva, evidentemente per la musica che ascoltava con le grosse cuffie che portava sulla testa. 

Fu Sirius ad accorgersi che li stavo seguendo. Si staccò da Annika per venirmi incontro e saltarmi intorno.
Non importava quanti anni erano passati, quel cane mi aveva riconosciuto ed era ancora felice di vedermi come anni prima. 

Annika si accorse della mancanza di Sirius dal suo fianco, e solo allora si voltò nella mia direzione. Il suo passò rallentò leggermente così anche il mio. 
Non volevo correrle accanto se non riusciva a sopportarmi. Anche se, mi rendevo conto, seguirla non era una mossa più intelligente. 

Le sorrisi, in modo che potesse comprendere che non avevo cattive intenzioni. Semplicemente mi guardò un'ultima volta e riprese la sua corsa intorno all'isolato. 
Non richiamò Sirius che, invece, continuò a stare vicino a me. 

Ne avevo davvero bisogno e gliene fui grato.

Quando finimmo l'ultimo giro, forse il quarto, avevo i polmoni che bruciavano. Annika, invece, sembrava serena: non un capello fuori posto, non un rivolo di sudore. Non aveva neanche il fiatone. 

Mi chiedevo come facesse a farlo tutti i giorni due volte al giorno. 

Ormai la vedevo correre ogni mattina e ogni pomeriggio e lei vedeva me attraverso i vetri delle finestre. 

Sentii un leggero senso di impotenza quando Annika richiamò Sirius per rientrare in casa. Il sole stava calando velocemente, le giornate cominciavano ad accorciarsi e dopo qualche ora sarei dovuto uscire per andare alla festa alla quale Isa era stata emozionata di invitarmi.

Mi ero allontanato dai riflettori per quattro anni e non mi era dispiaciuto. Quel mondo non mi mancava affatto una volta rimasto da solo.
Con Annika e Diego era diverso. Passavamo quasi tutto il tempo fuori casa, e gli altri ragazzini vedevano ad Annika come la regina suprema. Era buona e gentile con tutti, eppure non si faceva mettere i piedi in testa. Era la bulla dei bulli e la paladina della giustizia per tutti gli altri.
Diego era il suo braccio destro; io sempre quello più tranquillo, quello abbastanza in gamba da riuscire a studiare per tutti e tre.

Eravamo forti noi tre insieme. 

Guardai un'ultima volta la porta rossa della casa di Annika prima che un brivido di freddo mi prendesse per le braccia nude. 

Feci finta di non vedere né mio padre nel suo studio né mia madre ancora seduta a tavola e corsi in bagno dove mi feci una doccia lunghissima. Anche se la maggior parte del tempo la passai seduto a terra, con l'acqua che nascondeva le mie lacrime. 

Ero rimasto solo ancora una volta. 

La voglia di fare qualsiasi cosa aveva ormai abbandonato il mio corpo. Avrei fatto fatica ad alzarmi dal letto per diversi giorni. Ero già stato in quella condizione e odiavo quando accadeva.

E di più odiavo me stesso perché permettevo che accadesse.

La difficoltà stava nel compiere qualsiasi gesto, anche il solo mangiare non aveva alcun valore.

Quando sospirai, ancora avvolto dal vapore, sentii un peso gravarmi sul petto. Era caldo e mi rendeva difficile respirare. Annaspai e mossi freneticamente le mani in ogni dove in cerca di un appiglio. 

Caddi a terra sulle ginocchia. Il freddo del pavimento entrò di prepotenza nelle mie dita calde irradiando un quasi piacevole senso di freschezza in tutto il corpo.  
Era l'unica cosa che mi faceva capire di essere vivo.

Le orecchie si erano tappate; il cuore mi faceva male; le gambe avevano ceduto e non le sentivo più; il respiro mi era morto in gola. 
Gli occhi mi si riempirono di grosse lacrime che caddero veloci tra le mie dita finendo per abbattersi sulle piastrelle azzurre del pavimento.

Lentamente, e rimanendo fermo per quello che mi sembrò un'infinità di tempo, il fiato tornò a riempirmi i polmoni. 

Quando fui certo di respirare normalmente mi appoggiai con la schiena contro il muro e mi presi qualche minuto per me.

Non potevo permettere al mio cervello di ridursi così, non un'altra volta. 

Avrei voluto chiamare la dottoressa Spike, ma le avevo promesso che sarei riuscito a non chiamarla più spesso come avevo potuto fare fino a quel momento. Sapevamo entrambi che era una bugia, ma avrei voluto resistere un po' per capire fino a dove riuscivo a spingermi per sopravvivere da solo. 

Mi obbligai ad uscire di casa. Sapevo che, altrimenti, avrei passato il resto della serata sdraiato sul letto. E così i giorni successivi. 

Lasciai un bacio sulla fronte di mia madre che dormiva sul divano e le poggiai addosso una coperta calda. Presi la bottiglia di vino che aveva lasciato sul tavolino e il bicchiere vuoto. 
Versai il resto del contenuto della bottiglia nel lavandino. Ero consapevole del fatto che non servisse a niente, che avrebbe semplicemente preso un'altra bottiglia, ma papà aveva ragione: dovevo togliere il vino da davanti. Era per il suo bene. 

«Andrés?» La voce di mio padre mi bloccò non appena aprii la porta. 

Mi affacciai sul suo studio e lo guardai con aria interrogativa.

«Dove vai?» Il suo sguardo era serio da sopra gli occhiali.

«Da Benji, un compagno di squadra.» Alzai le spalle. Mentire a mio padre era diventato sempre più semplice da quando i nostri rapporti si erano raffreddati.

Rimase in silenzio a guardarmi e io pure, con le mani nelle tasche dei pantaloni e le unghie che grattavano una pellicina cercando di staccarla. 

«Domani mattina dovrò andare a scuola molto presto,» Cambiò argomento. «vuoi un passaggio?»

Mossi un paio di passi su posto. Mi metteva sempre un certo disagio quando mio padre era gentile con me. 

«No, grazie. Avevo intenzione di allenarmi un po' da solo prima di andare a scuola, domani.» La realtà era che non avevo intenzione di starmene con lui più di quanto fosse necessario. 

Mio padre annuì. «Allora divertiti da questo Benji.»

Non ero del tutto convinto delle sue parole, ma lo ringraziai con un leggero gesto della testa e me ne andai. 

Alzai meccanicamente la testa verso la camera di Annika quando mi avvicinai alla mia moto. Era seduta sul davanzale e io non potei fare altro che immaginarla nuda esattamente come qualche sera prima, quando si era spogliata davanti la finestra.

Ero sicuro fosse tornata dall'appuntamento con Benjamin. Li avevo visti partire con la macchina di lui. E qualche ora dopo lei era nuda e guardava dritto camera mia.

Per evitare di guardarla direttamente avevo fatto una fatica immane, avevo avuto bisogno di tutto l'autocontrollo del quale disponevo e anche di più.

Strinsi le mani intorno alle manopole e feci partire la moto. 


Ciao a tutti🪻, mi rendo conto che è passato un mese dall'ultimo aggiornamento, ma tra le vacanze e la sessione è sempre difficile avere tempo da dedicare ai propri Hobby, purtroppo. 
Mi rendo conto che come capitolo di ritorno non è facile, eppure ho cercato di non renderlo particolarmente pesante visto le tematiche trattate.🪻

Fatemi sapere cosa ne pensate in un commento🦋🪻



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