O1. 𝐼𝑛𝑓𝑒𝑟𝑛𝑜


( TW: angst, omofobia )


Vedo il suo sorriso,

i suoi denti bianchi e perfetti,

sempre luminosi.

Vedo i suoi occhi blu,

pronti ad accogliermi

silenziosi come la notte.

Vedo le dita della sua mano

che stringe la mia.

Il resto sta svanendo.

Arrotolo gli spaghetti intorno alla forchetta, ma invece che ficcarmeli in bocca li lascio ricadere nel piatto ancora pieno. Oggi è un anno dalla sua morte, dalla morte di Adrien. Il mio migliore amico. O ex migliore amico. Dipende dai punti di vista. I miei genitori sono seduti accanto a me, ma sembra che non mi vedano. Parlano animatamente tra loro, non so di cosa, non li ascolto. Di Adrien non gli importa niente. Probabilmente pensano che fosse solo un semplice amico per me. Stupidi.

Adrien era il sole e la tempesta,

la felicità più assoluta e la tristezza più profonda.

Non si può ignorare in questo modo. Appoggio la forchetta nel piatto e quella ricade al suo interno con un tintinnio metallico, non troppo rumoroso ma abbastanza per attirare l'attenzione dei due adulti seduti al tavolo. Fisso il piatto per alcuni secondi che mi sembrano interminabili, consapevole che i quattro occhi rivolti verso di me si stanno aspettando il peggio, poi apro la bocca e in un mormorio commetto quello che so già sarà l'errore più grande della mia vita. "Sono gay" Dico. Osservo i miei genitori attraverso il ciuffo di capelli neri che mi ricade sulla faccia. Mamma non sa se guardare me o fuori dalla finestra, papà mi fissa. "Ripetilo" Sibila. In un momento di follia alzo la testa. La grossa vena che gli attraversa la fronte inizia a diventare sempre più marcata. "Sono gay" Ripeto, stavolta a voce più alta. Gli occhi di mamma si inchiodano su di me, la vena di papà sembra sul punto di esplodere. Poi lui balza in piedi, la sedia cade a terra con un tonfo. Gli basta un passo per arrivarmi vicino. Mi prende per il maglione di lana blu che ho addosso e strattona fino a quando la mia faccia arriva alla stessa altezza della sua. Sento il suo alito puzzolente soffiarmi caldo sul naso ma, nonostante sia terribilmente spiacevole, non ci faccio caso.

Sto pensando al maglione.

Il mio maglione di lana blu

che Adrien mi aveva regalato per Natale.

"Così lo rovinerai" Gli faccio notare in un filo di voce. Sento il suo respiro accelerarsi, la vena sulla fronte è troppo grossa per essere una vena ormai. "FUORI. DA. CASA. MIA" Urla, mentre mi trascina verso la porta. La apre e finalmente mi lascia. "E non osare tornare" Ordina. Appena sparisce dietro l'uscio mi metto a correre per le scale. Voglio andarmene il più presto possibile. Forse a causa della fretta, forse a causa degli occhi offuscati dall'imminente pianto, non vedo gli ultimi scalini. Cado a terra a faccia in giù e le lacrime iniziano a sgorgare bagnando il pavimento.

"Adrien"

Sussurro tra i singhiozzi,

e quel nome mi dà la forza

di alzarmi e correre.

Corro, corro, corro. Non so dove, non so quando. Corro, ma non mi dà il senso di libertà che vorrei. Vedo palazzi e grattacieli sfrecciare al mio fianco man mano che diventano sempre più bassi fino quasi a scomparire. Continuo a correre anche quando ormai la città è diventata campagna e mi fermo solo quando arrivo al bosco. C'è un grosso albero col tronco scuro e le foglie chiare che io e Adrien avevamo scelto proprio per questa sua strana, impercettibile caratteristica. Faccio scorrere le dita sulla corteccia ruvida. Seguo la mia mano che va sempre più in basso fino ad arrivare alle radici. Mi accovaccio a terra e inizio a scavare. Graffio la terra con le unghie, la mangio, la divoro con tutta la forza e la frustrazione che ho in corpo. Mi fermo solo quando le mie dita trovano il tessuto di una borsa di cuoio. Mi siedo con la schiena contro il tronco freddo, il sudore che si mischia alle lacrime, la borsa in grembo, e la apro. Frugo un po' all'interno: c'è del cibo in scatola, una borraccia, una corda, un telefono scarico e delle forbici che scintillano alla luce del sole. Il mio primo riflesso è quello di prenderle. Le rigiro tra le mani, le apro e le chiudo, prima di decidere cosa fare. Basta un piccolo solco e il fluido denso e rosso vivo inizia a colare lungo il mio polso. Fa male, brucia. Faccio un altro solco, stavolta più lungo e profondo, e altro sangue si aggiunge a quello precedente. Fa male, brucia, ma non come la rabbia che mi assale. Deve fare più male, deve bruciare di più. Unisco i due solchi con un altro taglio profondo e ora fa abbastanza male. Faccio in modo che esca ancora più sangue. È bello guardarlo scorrere, sembra così tranquillo e leggero. Sembra spensierato. Sembra libero. Alcune macchie nere si fanno strada nella mia visuale fino a non mostrarmi altro che nero, buio, scuro.

Vedo un sorriso simile al suo,

occhi simili ai suoi,

mani che mi avvolgono,

simili alle sue.

"Adrien"

Lo chiamo,

anche se so che è solo un sussurro.

"Portami con te"


Ma lui non mi porta con sé.


( 864 parole )


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