𝑷𝒓𝒊𝒎𝒐 𝒊𝒏𝒄𝒐𝒏𝒕𝒓𝒐
C'è una pesantezza nell'aria che si attacca alla pelle, un'aria di quelle soffocanti che non riesci a staccare da dosso.
La sentivo tutta mentre camminavo per le stradine del piazzale intorno la scuola, le enormi pareti di pietra mi chiudevano li come se fossi in una bara. La scuola sembrava antica, fredda, come se stesse aspettando qualcosa che non arriverà.
Però, il silenzio non mi dispiaceva. Era confortante, tipo, come una coperta che mi nascondeva dal mondo, ho imparato come sparire negli angoli della scuola, confondendomi tra le ombre, tenendo la testa bassa. Se non attiravi attenzioni a te saresti durato un giorno senza che le suore ti beccavano. Vedono tutto, come se avessero occhi ovunque, occhi che cercano ogni singolo errore: una parola sbagliata, pensieri altrove, e troverai una bacchetta pronta a distruggerti le nocche. Il dolore in sé non è granché, la cosa più dolorosa è l'umiliazione, resta per un bel po'. Lì per ricordarti che in quel posto puoi solo esistere, come una foglia su un albero, a nessuno importa se una si stacca.
Suona la campanella che dà inizio a un'ora di preghiera, le suore ci stanno sicuramente già aspettando nella chiesetta, alcune restano fuori, per vedere chi entra e fare l'appello, se uno mancava gli sarebbe successo qualcosa di brutto, lo avevano detto il primo giorno, io non ho mai avuto il coraggio di saltare un'ora. Conoscevo gli orari a memoria: le dieci, le quindici, le diciotto e le ventidue, ogni giorno dovevamo passare quelle ore a pregare, un'ora di silenzio e ripetizione, dove esistono solo le parole che ripetiamo all'infinito.
A volte mi chiedo se mi ci abituerò mai. La monotonia. È soffocante. Ma non mi faccio domande. Chiedere significa rischiare, e ho paura di rischiare.
Cammino velocemente all'interno della chiesetta, scivolando verso le file finali, così nessuno mi avrebbe visto, riesco già a sentire mormorii di altri studenti che si sistemano tra i banchi, giusto una paio di voci erano fastidiose, il resto era un brusio simile ad un nido di api, silenzioso ma presente.
Dopo che avevano chiuso la porta le suore ci si misero davanti, così che nessuno poteva uscire, e così che potevano osservare ogni movimento, come aquile affamate pronte a scovare ogni atto di ribellione. Ma non ce n'era in me, non più. Solo silenzio. E l'onnipresente dolore di soffocare in questa trappola.
L'odore dell'incenso era ovunque intorno la stanza, come se fosse un velo che ci ricopriva. Le candele emanavano una fioca luce, abbastanza per trovare i banchi di notte e non abbastanza per scaldare l'atmosfera di giorno. Infatti non riuscivano a confortarmi, niente ci riusciva, soprattutto il silenzio, era opprimente.
Poi, un momento dopo, ho sentito qualcosa. Una voce, morbida, che sembrava come se un raggio di sole avesse squarciato il velo d'incenso. Alzo gli occhi per capire chi è stato e dopo aver fatto il giro della stanza sono atterrati su di lui.
È davanti la porta, un po' troppo rumoroso, e un pò troppo luminoso, ha una risata dolce, la sua presenza riesce sempre a illuminare la stanza.
Felix Cassidy.
Non so perché l'ho notato. E perché la sua presenza sembra così diversa, sconosciuta a questo posto di ombre, ma l'ho fatto. Non sono in grado di staccare gli occhi da lui, sorride così facilmente, sembrava che Apollo avesse scelto lui come sua rappresentanza sulla Terra. È tutto cioè che non sono. Tutto ciò che non posso essere. È vivo in un modo che non riuscirei neanche ad iniziare a capire.
Non so per quanto tempo l'ho guardato muoversi tra i banchi. Forse un secondo, forse di più, molto di più. Ma quel secondo ha fatto qualcosa in me. Un desiderio. Qualcosa a cui non riesco a dare nome. Che non mi spetta. Che non potrebbe esistere qui.
E così scompare. Così. Tra le persone. Sbatto le palpebre un secondo e la chiesetta e silenziosa. Di nuovo. Di nuovo quel silenzio che mi schiaccia. Voglio sparire di nuovo. Ma non ci riesco.
Non capisco perché.
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