40. (𝕻𝖗𝖔𝖙𝖊𝖔)
Il suono dei passi sopra la pietra del corridoio andava a un ritmo costante: i suoi, decisi ma ovattati, erano seguiti da quelli pesanti e ferrosi rilasciati dai piedi del Mistero dietro di lui. Lo seguiva con un'andatura cadenzata, tenendosi sempre all'interno di quell'attimo di ritardo. Avevano fatto davvero un ottimo lavoro, con lui. Avrebbe dovuto iniziare a stilare una lista precisa dei modi e metodi utilizzati. Perdere informazioni così utili sarebbe stato un tremendo sbaglio. Il futuro avrebbe dovuto sapere: tutti, in quel regno o in qualsiasi cosa ne sarebbe rimasta, dovevano venire a conoscenza di come era riuscito a piegare la magia a proprio vantaggio. A plasmarla con la forza della scienza e della ragione, a dimostrare che anche uno come lui...
Un uomo venuto dal nulla e cresciuto nell'ombra di un dono ricevuto senza merito, che riusciva a ergersi al di là della naturale posizione e imporsi. Svettare, finalmente. Ottenere ciò che gli altri erano troppo deboli per sognare di conquistarsi.
Ebbe l'impeto di accelerare il passo, preso dalla foga. Non doveva correre. C'era ancora un problema da affrontare, prima della riuscita: era lì a portata di mano e doveva mantenersi abbastanza focalizzato, non farsi prendere dalla fretta di avercela fatta.
«Apri».
Si era fermato di fronte alla porta di legno scuro che delimitava la camera padronale del palazzo, chiusa a chiave. Quella farsa lo infastidiva, avrebbe voluto solo buttare il duca nella cella più infima disponibile e farlo uccidere. Ma gli serviva tempo, non era ancora il momento.
Il Mistero lo superò per andare ad aprire con la chiave che portava al collo, senza emettere un suono. La spinse e fece strada al proprio padrone, scansandosi di lato quando lui emise uno schiocco con le dita.
Proteo si portò le mani a lisciare la pelliccia che gli cadeva ai lati del corpo, in un movimento di superiorità, prima di osservare con lo sguardo fiero quel nobile a cui non aveva alcuna intenzione di inchinarsi. L'avrebbe fatto lui, presto o tardi.
Il duca sembrava essere invecchiato all'improvviso, i tratti da uomo di bell'aspetto si erano assopiti dietro alla prigionia a cui lo costringeva da settimane. Era chiaro. Sorrise tra sé e sé: tutto era stato svolto nella massima efficienza, quell'uomo non aveva neanche più lo spirito necessario a reagire. Seduto sul cornicione di pietra, sotto a una finestra che dava sul fiume, Arthur De Gaothy girò a malapena il viso verso di lui. Non si mosse da quella posizione, non si alzò e non fece niente. Proteo sentì un profondo fastidio risalirgli dalla punta delle dita a quella dei capelli, come una scossa urticante.
È quello che ci vorrebbe.
Fece un cenno al Mistero che lo accompagnava. Quello puntò gli occhi contro il duca, fece dei passi nella sua direzione e andò a toccargli il braccio con la mano tesa. Il duca provò a ritrarsi, ma non ci riuscì. Una scossa vera e propria lo attraversò da capo a piedi, mentre la faccia gli si deformava in una smorfia e lui si contorceva. Durò poco, giusto il passaggio di un fulmine che l'avesse colpito in pieno durante uno sfortunato temporale estivo, ma bastò a far provare ad Arthur tanto dolore da decidersi ad alzarsi.
Il viso intriso di odio e ancora segnato dalla sofferenza ricevuta, accennò un inchino nella direzione di Proteo, abbassando la testa.
Per ora andrà bene.
I capelli scuri, la barba rada e un po' incolta sulla mandibola dalla linea affilata, le piccole rughe intorno agli occhi che gli davano un'aria stanca e debole. Era sempre stato un uomo imponente, ma anche quella prestanza ormai non valeva più nulla. Il duca era ben più alto e massiccio di quanto Proteo non fosse mai stato, eppure la sua stazza sembrava piegata dalla frustrazione. Era un uomo sconfitto in partenza, proprio come serviva a lui.
Arthur rialzò del tutto la testa e puntò gli occhi esausti nei suoi: «Che cosa volete?»
«Andiamo, è questo il modo di salutare il vostro futuro signore?»
«Potete corrompere quante guardie vi pare e uccidermi in questo istante, Màvrita non sarà mai vostra, né il ducato che la circonda. Ve l'ho già detto».
Nobili. Patetici, nel loro ridicolo orgoglio.
«Interessante, sì... e in effetti me l'avete già accennato. Peccato che io al vostro borgo pidocchioso non sia affatto interessato, signor duca. Sono qui per chiedervi ancora una volta di collaborare. Con le buone o con le cattive, questo dovete deciderlo voi».
Perché volersi appropriare di quel singolo pezzo di terra, quando c'erano i presupposti per un'impresa molto più grande. L'intero regno nelle sue mani, le uniche valide. Le ultime in cui sarebbe mai stato, prima di sparire per sempre.
«Il re prima o poi vi troverà, pensate davvero che ciò che state facendo abbia una vaga speranza di riuscita?»
Ridacchiò piano. Il re... lo stesso re che si era arroccato dentro alla paura del domani e di ciò che il destino aveva già scritto. Così impaurito da volerlo evitare a tutti i costi, tanto stolto da essere disposto a cederlo a chi non ne avesse avuto timore. Lui non ce l'aveva. La gloria di essere l'ultimo era quanto di più illustre e potente si potesse pensare, più di qualsiasi primato o idea di portare avanti un'eredità. Il suo nome, scritto in maniera imperitura nella pietra, che sarebbe sopravvissuto anche al tempo...
«Apprezzo che vi preoccupiate per me, ma siete stato informato male. Il re sa già dove mi trovo, lo stiamo aspettando qui. Per accogliere i suoi emissari come si deve».
Arthur non replicò subito, sembrava confuso. Proteo sorrise ancora una volta: un uomo del genere era troppo abituato all'idea di un diritto di nascita che non poteva morire, cambiare, svanire nel nulla. Tutti loro erano così accecati dalla certezza del titolo, da non capire. Da non poter guardare al di là e vedere la grandezza.
Il duca si decise a mormorare: «Che vi serve, da me? Si può sapere?»
«Felice che me l'abbiate chiesto. Vedete, ho bisogno che voi facciate un annuncio e introduciate l'imminente conflitto alla città. Avvisateli dello scontro, rendetelo ufficiale... date gli ordini che servono alla guardia del ducato e informateli di quanto serve. Ho delle necessità ben precise».
Un sibilo infuriato, gli occhi scuriti dalla rabbia: «Non c'è nessuna guardia, ve la siete comprata con i vostri giochetti subdoli. Dateglieli voi, gli ordini».
«Vero, molti di loro si sono ribellati a voi e consegnati a me. Ma non ho il predominio che voi credete, e non mi piacciono i teatrini poco eleganti. Direi che una facciata coerente è ciò che ci serve in questo momento, che ne dite?»
«Perché dovrei farlo?», l'accenno di una smorfia sarcastica.
Oh, eccola la parte che pregustava. Incredibile, come chiunque avesse sempre voglia di fare l'eroe della situazione e metterlo alla prova. Credeva davvero che non avrebbe avuto nulla con cui ricattarlo?
«Non sapete chi cavalca alla testa del comando reale, mio caro piccolo duca?»
Aggrottò le sopracciglia, sbarrò appena le pupille, la bocca rimase socchiusa. Il duca rimase zitto, nessun cenno di comprensione gli aveva ancora illuminato lo sguardo.
Proteo continuò, dopo un piccolo sospiro: «La tenuta che mi avete concesso di utilizzare è stata attaccata, ciò che mi serviva e che avevo riposto con cura dentro di essa mi è stato portato via... da un singolo uomo. Che conosceva fin troppo bene Lochdun, e credo conosca altrettanto bene voi».
Gli occhi atterriti, le labbra finalmente sigillate. Forse aveva capito.
«Di che diavolo state parlando?», un sussurro spaventato.
«Penso abbiate compreso benissimo. Vi propongo uno scambio equo: fate quello che vi chiedo e darò ordine che vostro figlio non venga ucciso».
Non subito, almeno.
«Ho un unico figlio, e si trova in questo stesso palazzo. State vaneggiando».
Quel ragazzino allampanato che non metteva il naso fuori dalla propria stanza, troppo impaurito per poter pensare di affrontare qualsiasi cosa il ducato gli avesse potuto mettere in mano. Il padre era davvero uno stolto...
Uno stolto che credeva di aver nascosto agli occhi del mondo il proprio passato. Ma Proteo c'era stato, all'epoca era lì e ricordava ogni cosa. Alcuni avvenimenti della società non morivano così in fretta, il duca era troppo ingenuo per pensare che non sarebbe mai tornato fuori.
Mise su l'ennesimo sorriso infarcito di diabolica accondiscendenza: «Non siete il padre di un primogenito con discendenze Erythiane, dunque? Avrei giurato di sì, sapete. Certe informazioni corrono più veloci di voi, non crediate di averne il controllo».
Le sue origini oltremare erano solo uno dei motivi, ma non l'unico. Quel comandante maledetto andava fatto fuori una volta per tutte e per più di una ragione. Forse quella era la più logica, la più sensata.
Ma non la più importante, non per me.
Arthur De Gaothy non le conosceva, né le avrebbe potute sospettare o intuire. Dentro alla vita di un nobile non esisteva spazio per le vicende misere della popolazione sotto il suo comando. Lo fissò: persino la forza e l'indifferenza che credeva di poter ostentare erano incerte. Traballavano, insieme a lui, l'ombra di un uomo che non esisteva più da ormai quanto? Oltre un decennio, forse.
Gli uomini deboli non sanno sopravvivere al rimorso. Soccombono alla propria coscienza e diventano nient'altro che sabbia. Polvere, che qualcun altro calpesterà al posto loro. Guardati...
Fu spinto a portarsi una mano al viso, sulla cicatrice incisa nella pelle della guancia sinistra, ma si trattenne all'ultimo. Neanche la sua coscienza andava risvegliata. Per alcune cose aveva previsto un finale chiaro. La vendetta sarebbe stata un pagamento sufficiente, non poteva lasciar spazio a nient'altro. Neanche alla possibilità che il rimpianto inquinasse la sua ascesa: era il suo momento, meritava di brillare da tutta la vita.
Arthur si ridestò dal proprio rimuginare sofferto e gli piantò addosso due occhi pieni di turbamento. Cercava di tenersi saldo, ma era un castello di carte sul punto di crollare: «Quali sono queste specifiche che chiedete?»
Oh, finalmente.
«Nulla di difficile. La compagnia reale ha con sé un Mistero, una ragazza in grado di controllare le fiamme pure. Date ordine che venga immobilizzata, sedata, catturata... ma che venga lasciata viva. Nessuno deve azzardarsi a ucciderla, va consegnata a me».
«Perché?», il volume flebile e lo sconcerto evidente. Gli era uscita di getto, e non era tenuto a dare informazioni aggiuntive. Non l'avrebbe fatto, era meglio non rivelare tutto.
Si limitò alla parte che lo divertiva di più: «Ho intenzione di sposarla. Un colpo di fulmine, che volete farci».
Non poté trattenersi dall'emettere l'ennesimo ghigno. Il duca era ormai atterrito, la bocca aperta e i pugni chiusi lungo i fianchi: «Quali diavolerie state tramando? Cosa avete intenzione di fare a quella creatura?»
«Le vostre parole mi offendono, signore. Credo che io e lei saremo molto felici insieme, d'altronde deve solo abituarsi all'idea. Voi dovreste saperlo meglio di me, avete forse consigli da offrirmi?»
Il sorriso si allargò, beffardo, mostrando l'intera dentatura all'indirizzo di Arthur. Ma il duca non rispose più, era ormai una statua di sale incapace di sopravvivere. Forse lo aveva fatto fino a quel giorno e avrebbe continuato a provarci dal successivo, ma di fatto non esisteva più. Il passato sapeva essere crudele, con alcuni. E con altri, la verga del pentimento non colpiva mai abbastanza forte.
Non sai quanto mi dispiace.
«Abbiamo un accordo, allora. Fatevi vedere domani mattina, annunciate alla popolazione l'imminente scontro. Chiedete che nessuno torca un capello alla ragazza, tutte le forze devono convogliare nel cercare di portarla a me. Vi darò la vita del vostro erede in cambio di lei, avete la mia parola. Ho la vostra?»
Arthur attese qualche secondo, la testa bassa e gli occhi rivolti verso il tappeto color vinaccia su cui poggiava i piedi. Tremava appena. La rialzò con lentezza, tese il braccio e la mano in direzione di Proteo. Lui afferrò le dita del duca, suggellò l'accordo preso con una stretta vigorosa e sicura.
Solo dei nobili potevano dare credito a parole nel vento e questioni labili come l'onore e la dignità del titolo. Solo l'idea di preservare la propria discendenza poteva far capitolare con così tanta facilità un uomo come il duca.
La discendenza. Ecco un altro concetto pensato per manipolare gli uomini fragili.
Non c'è alcun potere, nella condivisione. Non c'è nessuna gloria, nel lascito.
Si congedò da lui, il Mistero di cui non aveva intenzione di ricordare il nome lo seguì. Era pronto a veder compiere ciò che gli dèi in persona avevano scritto. Del duca e di suo figlio sarebbero rimaste solo ceneri da disperdere nell'aria di Agonos.
🦌🤎⚔️🔥
Sono i-m-p-e-r-d-o-n-a-b-i-l-e.
☠️☠️☠️
E una ritardaria cronica fatta e finita.
Il capitolo è anche piccolino, quindi qualcuno dirà: ma come mai ci è voluto così tanto? Eh, diciamo che questi ultimi capitoli mi danno un po' di difficoltà dovuta al voler tenere su un equilibro dignitoso. Non voglio che ciò che viene rivelato sia troppo, né troppo poco. Mi piacerebbe che il dubbio su cosa sia successo davvero nel passato continuasse ancora un po', senza essere già palese.
Allo stesso tempo, è giusto dare degli indizi per movimentare la cosa. Ecco, questa costruzione del mistero (o Mistero) è la parte che mi ha tormentata un pochino.
Ma ora eccoci qui.
Ditemi un po': non si è capito niente, o si è capito troppo? 😂
Cos'ha in mente, questo cattivo?
Ma soprattutto... qualcuno l'ha riconosciuto?
Diciamo che potremmo averlo già incontrato...
Chi ha capito dove?
Bacini, nel prossimo capitolo torniamo dai due testoni.
(Vorrei dirvi che sarà venerdì, ma è probabile sia sabato. In ogni caso, nel weekend ❤️. Garantito, giurin giurello).
Baci, cerbiattini 🤎 🦌
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