4. (𝕯𝖊𝖛𝖔𝖓)

Era successo poco più di un anno prima. Non avrebbe potuto collocare quel momento in maniera esatta nel tempo, ma era certo che si trattasse della stessa persona: aveva sempre avuto un talento naturale per memorizzare chi incontrava sul proprio cammino.

*

Cavalcava alla testa del proprio manipolo da ore. La pioggia non accennava a smettere e nessuno di loro fiatava, gli unici suoni che risuonavano nel buio erano gli sciabordii degli zoccoli sul terreno fangoso, i fiati appesantiti e qualcuno che tirava su col naso. Il mantello calato sulla testa era ormai un vezzo inutile, gonfio d'acqua e col solo scopo di appesantirlo.

La guerra era iniziata da pochi mesi e li aveva già piegati all'insoddisfazione perenne. Non era neanche una vera guerra, ma un inseguimento di qualcosa o qualcuno che andava scoperto, prima ancora che sconfitto. I segnali erano pochi, rari, sconnessi l'uno dall'altro, e non accennavano a migliorare, almeno per il momento. Persino quel giorno non avevano trovato niente di utile.

Era comandante già da un po' di tempo, ma non aveva ancora provato una tale frustrazione di fronte a un compito. Il fatto stesso di essere stati spediti nella regione di Agonos, da ormai tre anni, aveva rabbuiato sia il suo cuore che quello dei cavalieri al suo comando. La scusa per farlo, all'inizio, era stata quella di renderlo conte di una contrada derelitta ai limiti del regno.

Varkos non era altro che un borgo sul confine a nord-est, protetto dall'unica catena montuosa della zona: una contea di ridotte dimensioni, per di più ignorata dalle casate maggiori. Nessuno aveva protestato ad alta voce quando il re, tolto il feudo a un possidente terriero, aveva scelto di farne omaggio al miglior cavaliere di cui disponeva.

Quella del regalo era la motivazione ufficiale, la realtà era ben altra cosa: a Reimen II serviva qualcuno che si insediasse dentro a quel territorio maledetto per controllarlo. Nonostante tutti i tentativi fatti dal sovrano e dal defunto padre, prima di lui, Agonos rimaneva l'unico punto del regno in cui l'intolleranza verso i Misteri aveva continuato a strisciare tra la popolazione, sibilando nel vento maligno.

Non bastava che fossero stati gli abitanti di quella regione infausta a dare inizio alla Purga, ormai quindici anni prima, né che si fossero macchiati di una lista di crimini fin troppo lunga. Nobili e popolani non avevano mai smesso di credere alle leggende, dare la caccia alle streghe e fomentare superstizioni. Si erano piegati alle direttive di pace dei nuovi sovrani e ai loro tentativi di ridare dignità a quella razza martoriata, ma lo avevano fatto con fastidio, con astio e controvoglia. La tensione non aveva mai smesso di attraversare quella macchia sulla cartina.

Proteo e i suoi avevano trovato terreno fertile per racimolare sempre più uomini armati, che non vedevano l'ora di ribellarsi alle politiche della capitale. I focolai si erano intensificati, fino a consolidarsi e diventare una minaccia concreta a cui lui dava la caccia senza successo, notte e giorno.

«Mi pento di aver detto che il castello a Varkos fosse un buco di culo triste e freddo. Queste campagne sono ancora peggio, a paragone quella era un'oasi di pace».

Si voltò alla sua sinistra: Oisin era più che avvezzo ai climi rigidi e alle intemperie, ma persino lui trovava l'ambiente deprimente. Non poteva biasimarlo.

Quando gli era stata proposta quella soluzione, Devon non aveva potuto fare altro che prendersela col destino beffardo: tanti anni prima era scappato da Agonos giurando di non metterci più piede, ed eccolo lì ancora una volta, a guardare le montagne come un animale in fuga che si ritrovava il passaggio bloccato. Nessuna aquila impietosita era accorsa a salvarlo e permettergli di valicare la barriera che lo separava dalla libertà.

Si era limitato ad accettare l'incarico e muovere una singola richiesta, quella di cambiare cognome.

Aveva assunto su quei possedimenti il titolo di padrone, lo stesso che rifuggiva da tutta la vita, e aveva programmato un recupero: la situazione di Varkos si era rivelata imbarazzante. La mancanza di una guida decente aveva fatto sprofondare il castello nell'incuria, e i popolani del villaggio in una vita priva di attrattive. I commerci e i contatti con l'esterno mancavano, e con loro delle solide risorse economiche.

Nessuno, nella compagnia, aveva apprezzato la nuova casa. Né chi era cresciuto nella regione reale, né chi, come il suo capo degli arcieri, veniva da lande ancora più lontane.

L'unico avvenimento che era arrivato a spezzare la loro nuova realtà era stata la guerra, i Disertori che prendevano potere sotto il loro naso, i nobili dell'intera regione che li finanziavano e li proteggevano nell'ombra, e lui che inseguiva informazioni confuse.

«Tra poco ci fermiamo, inutile andare oltre. Accamparsi qui è un'idea schifosa, te lo concedo».

I suoi uomini si erano illuminati appena il puntino fioco della locanda era comparso all'orizzonte: non facevano un bagno caldo o dormivano dentro a un giaciglio asciutto da più di una settimana. Non aveva potuto fare altro che acconsentire e concedere loro di fermarsi lì.

Se ne pentì, appena varcata la soglia: il locale, unico punto di sosta per miglia di quella distesa desolata, pullulava di avventori. Perfetto, possibili spie in agguato a ogni angolo.

Al riparo dalla notte gelida, l'aria era permeata dagli effluvi dell'alcol e del sudore maschile. Fin troppa gente occupava quell'ambiente largo, animato dalle tante candele poste ai lati. Si addentrò, i cavalieri dietro di lui. Intorno, solo il berciare confuso e ottundente di troppe voci e troppi bicchieri.

«Dì a tutti di sedersi dove riescono, occhi aperti e bocca cucita. Non voglio avere casini proprio stasera. Io, te e Oisin ci dividiamo».

Si rivolse a Talom, lì vicino, il suo secondo diretto, che gli rispose con un cenno stanco. Immaginava che fosse ancora più logorato degli altri, ma non aveva tempo di preoccuparsene: la sua casa, la capitale reale, doveva mancargli per più di una buona ragione.

Sfilò in mezzo ai lunghi e massicci tavoli, impiastricciati dal continuo bere e mangiare di ospiti che si alternavano, prima di trovare quattro posti liberi. Si sedette in silenzio, facendo segno con la mano a tre dei propri uomini di seguirlo. Non aspettò che qualcuno facesse caso a loro, per iniziare a guardarsi intorno e scrutare qualsiasi essere umano nel suo raggio visivo.

Era abituato a farlo, per ovvie ragioni, e sapeva di dover fare attenzione agli abiti, ai simboli, agli oggetti. Ogni persona, il mestiere che faceva o la provenienza probabile, era un enigma che poteva essere intuito: chi con più facilità, chi meno. Ed era sempre alla seconda categoria che bisognava prestare più concentrazione.

Iniziò dalla cosa più ovvia, i loro compagni di tavolata: quattro uomini più chiassosi del normale. Modi rudi, aspetto rubicondo e abiti comuni, semplici ma non abbastanza lisi da essere tenute che avevano appena usato a lavoro, dovevano essersi cambiati per uscire. Abitavano vicino, dunque. Due di loro avevano mani callose e avvezze a un compito pesante, le unghie annerite dai segni della terra, le pance piene e rotonde di chi trascorreva dentro a quel tipo di luoghi più tempo del dovuto, forse per sfuggire al tedio di una vita senza speranza. Il terzo aveva cercato di nascondere sotto al mantello una casacca con vecchie macchie di fango e sudiciume nerastro: qualcuno aveva tentato di lavarle via, ma erano ormai permanenti. Doveva avere una compagna, a casa, ma non era una moglie, a meno che non avesse messo via la fede. Troppo vecchio per avere una madre in vita, poteva essere una sorella. Il quarto era vestito meglio, abiti più puliti e fare sfacciato: guadagnava più degli altri, ma mani e braccia, che teneva scoperte, presentavano tante bruciature ormai guarite. Lui sì, aveva la fede.

Due sicuri contadini, un papabile allevatore, quello che poteva essere un fabbro.

Tutti e tre apparivano ubriachi e tutti e tre, probabilmente, avevano almeno una piccola lama di accompagnamento. Il baccano che facevano, tra sconcezze ad alta voce, improperi e boccali sbattuti sul legno, era eccessivo: gente che non aveva molto da perdere e che amava montare problemi di bassa lega.

Erano innocui.

Non voltò subito la testa verso la figura in piedi all'altro lato del tavolo, dietro a Cillian. Aveva percepito con la coda dell'occhio che fosse arrivata già da qualche secondo, che gli altri cavalieri le avessero già detto cosa volevano e che se ne stava rimanendo ferma ad aspettare il suo ordine, ma doveva prima finire la ricognizione.

«Tu che prendi?». Un tono un po' impaziente. Comprensibile.

Le cameriere addette a quel lato del locale erano due, quindi: una si apprestava a portare via i boccali vuoti dei villici. Bassina, formosa, capelli biondi lasciati sciolti sotto a un fazzoletto che teneva annodato sulla testa, vestiti semplici ma puliti, era carina e aveva il fare sottomesso di una donna abituata a lavorare con esseri parecchio maleducati. Per quelli e molti altri motivi, com'era prevedibile, i quattro uomini ubriachi le lanciavano occhiate esplicite, mentre lei si chinava tra loro per raccogliere ciò che doveva.

«Sei sordo, per caso? Ti ho chiesto che cazzo prendi, non ho tutta la sera per stare dietro a un damerino».

Girò la testa del tutto. La seconda, invece, lo stava guardando con un cipiglio fin troppo ostile.

Slanciata e ben più alta della sua collega, lunghi capelli castani dalle sfumature rossastre acconciati in una treccia che le si appoggiava su una spalla, pelle pallida tinteggiata di lentiggini. Occhi marroni. Forse screziati... Nocciola? Legno? Un misto, ma era un colore troppo comune per descrivere lo sguardo feroce che lo stava trapassando. Era come se avesse preso la brughiera che li aspettava fuori dalla locanda e l'avesse intrappolata in uno scrigno, insieme alla tempesta, i lampi dorati e le venature degli alberi spogli che costellavano quel territorio malevolo.

«Quello che hanno preso loro, e dell'acqua».

Lo scandì piano, le sopracciglia appena corrucciate, mentre lei gli lanciava un ultimo dardo di fuoco e se ne andava. La seguì con la testa, non appena lei gli ebbe dato la schiena: quell'espressione era troppo fiera, il portamento troppo dritto e privo di timore, lei troppo strana.

Notò l'abbigliamento: non portava neanche la gonna. Se ne stava andando a passo ampio e svelto, le gambe lunghe infilate dentro a un paio di pantaloni che non si addicevano neanche un po' a una semplice cameriera di una locanda sperduta in mezzo al nulla. Ai piedi gli stivali di qualcuno abituato a camminare per tante miglia. Continuò a guardarla da lontano, era arrivata al bancone e si era girata di nuovo col fronte nella sua direzione. Poteva osservarne la figura intera e sì, quel minimo rigonfiamento sul fianco che le aveva già notato addosso, prima, aveva tutta l'aria di essere un pugnale. Però era stupida e inesperta, perché esibiva tutte quelle stranezze senza remore e senza curarsi di rendersi più anonima.

«Dovremmo iniziare a portarcele dietro, quelle curatrici che hai deciso di assumere, sai? Ci eviterebbero di entusiasmarci così tanto per ogni figura femminile che ci capita di vedere, durante queste settimane di merda».

Ruotò il capo e tornò a guardare i suoi compagni di viaggio. Rispose con un cenno di assenso a Bardan. Inutile stare a spiegargli i suoi dubbi, che credesse ciò che voleva.

Le sue riflessioni furono interrotte dalle battute e dalle allusioni pesanti che gli arrivarono alle orecchie: uno degli uomini, il più tarchiato tra loro, quello che aveva deciso essere un fabbro, si mostrava fin troppo insistente con la ragazza bionda. Lei sembrava in difficoltà e palesava un certo disagio. Devon rimase a guardarli in silenzio, deciso a non fare niente fintanto che non ve ne fosse stata la reale necessità.

«Bellezza, dove te ne scappi? Perché non ti siedi con noi, eh? Per due scellini scommetto che potresti tenermi compagnia, questa notte».

Con il volto paonazzo, il fabbro le afferrò un polso per impedirle di scappare e sottrarsi a quella richiesta indegna. Gli amici dell'uomo ghignavano lì accanto... Devon sospirò, consapevole di dover tradire l'intenzione di non dare nell'occhio.

Stava per intervenire, ma fu interrotto dal tonfo sordo di un paio di bottiglie scaraventate con forza sul tavolo.

«Vedi di levare i tacchi subito o la notte dovrai passarla con me, e non credo ti convenga. Sai cosa ci puoi fare, con quei tuoi scellini?»

La cameriera strana era tornata, più iraconda di prima.

L'uomo si alzò dal posto a sedere, barcollando. La fronteggiò con aria truce, ma lei non si scompose. Prese il braccio della collega e la spinse dietro di sé, mentre l'uomo iniziò a rivolgerle una serie di improperi ridicoli e le intimò di tornarsene alla sua mansione.

Devon li fissava e avrebbe giurato che delle piccole scintille, minuscole pagliuzze di una consistenza simile al fuoco, si fossero librate dagli occhi inferociti della ragazza. Impercettibili, praticamente invisibili a qualsiasi sguardo non attento potesse posarsi sulla scena.

Iniziò a formarsi, lenta, una teoria plausibile che rispondeva a tutte le impressioni avute: aveva sentito parlare di un gruppo di fantomatici ribelli, creatosi per contrastare l'avanzata dei Disertori nella regione. Non aveva informazioni precise, ma sapeva trattarsi di Misteri, provenienti da ogni parte del Regno e riuniti al fine di reagire a quell'ennesima onda di odio che si stava per riversare contro la loro specie. Nessuno era ancora riuscito a localizzarli con precisione, ma quell'ennesima fazione aveva dato parecchia noia al re.

Nella teoria avrebbero dovuto combattere lo stesso nemico comune, ma quei giovani erano perlopiù guerrieri improvvisati e senza guida. Soprattutto, non rispondevano all'autorità della corona: non avevano dato alcun cenno di volersi affiliare e si vociferava che fossero in combutta contro tutto e tutti. L'ipotesi di una rivolta da parte della popolazione di Misteri del regno era un'opzione quasi peggiore dell'insorgere dei nobili di Agonos.

In realtà era una debole miccia, non era riuscita a coinvolgere un tale numero di componenti da generare la possibilità concreta di una presa del potere, niente di cui dovessero preoccuparsi. Si vociferava, però, che un membro reale avesse preso parte a quel gruppo di facinorosi. Devon sapeva quanto il Re se ne stesse disperando da mesi: per quanto avesse tentato di nasconderlo pubblicamente, la notizia di sua figlia Idalia era già trapelata.

*

Ricordava come il bisticcio tra la donna di quella sera e l'uomo ubriaco si fosse concluso con un nulla di fatto. Dopo aver continuato a inveirsi l'uno contro l'altro, il padrone della locanda era accorso e aveva cercato di sedare gli animi. Aveva costretto la ragazza a farsi da parte e al gruppo di attaccabrighe era stata offerta la cena, purché si fossero levati dai piedi senza fare ulteriori danni.

La figura di lei e della sua rabbia, però, era un'immagine che conservava con chiarezza: la facilità con cui si era scagliata in difesa dell'altra cameriera, il gesto con cui si era posizionata davanti all'amica per prendere su di sé ciò che sarebbe potuto accadere. Quegli occhi che gli avevano ricordato una foresta, data alle fiamme nel momento esatto in cui vi era divampata un'ira feroce.

Era la stessa donna che avevano trovato durante l'attacco a quell'accampamento di Disertori, riversa a terra, sanguinante, e a quel punto loro prigioniera. Ne era certo, e il sospetto avuto quel giorno di un anno prima si rivelò lecito: con tutta probabilità, lei e il suo compagno erano ribelli sopravvissuti.



🦌🤎⚔️🔥

Devon é giunto tra noi.

Perdonate le tante informazioni, cerbiatti cari, purtroppo a volte ci vanno:)

Ma di lui, invece, parliamo... purtroppo in questo capitolo ancora poco, ma che cosa vi suscita il mio piccolo comandante?

É sempre difficile assumere il suo punto di vista, per me:)
Lo confesso.
Ma vorrei renderlo al meglio possibile 🖤

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