35. (𝕹𝖎𝖑𝖉𝖊)

«Quando torni, Ni?»

«Questa sera, Lucas. Lo sai, il sabato è sempre pieno».

Finì di sistemare con cura il necessario dentro alla grande borsa di pelle. Un oggetto che era riuscita a comperarsi da sola, l'anno prima. Lo custodiva con gelosia, nonostante la piccola fitta che provava nel rendersi ancora conto di quanto denaro le fosse costato. Ma non c'era stato altro modo, non avrebbe potuto continuare a presentarsi a lavoro con quelle tele strappate che sua madre usava per andare al mercato. Le era già successo di perdere boccette preziose per strada.

Se la sistemò per bene su una spalla, dopo aver fatto passare la testa nel buco della lunga tracolla. Era pesante, ma non le importava. Il tragitto alla fine non era così lungo, e lei amava andare a piedi. Le passeggiate per recarsi alla piazza cittadina erano l'unico momento che riusciva a coltivare lontana dai doveri di casa.

Suo fratello continuava a guardarla con l'accenno di un broncio, le piccole sopracciglia aggrottate. Si chinò per posargli una mano sulla guancia e cercò di assumere un tono deciso: «Lucas, questi soldi ci servono. Non vuoi che per il solstizio la mamma riesca a preparare qualcosa di buono?»

Lui parve rilassarle un minimo: «Mi porterai un regalo?»

Un piccolo sospiro. «Vediamo quanto riesco a tirare su, che ne dici?»

Lucas annuì con la testa e corse via, dopo aver ricevuto un bacio dalla sorella. Nilde si girò per prendere dal mobile di legno vecchio una delle sue cuffiette. Aveva rinunciato da tempo a intrecciare i capelli che non ne volevano sapere di darsi una calmata, si limitò a raccoglierli in una coda voluminosa. Si legò lo scampolo di tessuto in testa, ad appiattire quella massa ribelle di ricci. Di sicuro sbucavano da ogni angolo, a circondarla come un piccolo sole impertinente, ma non se ne curò.

Diede ancora un'occhiatina alla borsa, tastandola. Aveva tutto? Fece mente locale: un buon numero di pezze pulite, le erbe ben sistemate dentro a ciascuna boccetta, i contenitori con gli intrugli preparati in anticipo, quattro vasetti di tisane... sì, poteva andare.

«Madre! Io vado, ci vediamo dopo».

Fece per dirigersi verso l'ingresso, rapida. Fu costretta a bloccarsi al ticchettare di passi che entravano nell'atrio. Aveva sperato di potersela cavare così, almeno per quel giorno, ma niente.

«Leonilde, potresti almeno provarci».

Strinse le labbra, la mano che già circondava il pomello della porta d'uscita. La tentazione di aprire e andarsene senza aggiungere altro era forte, in fondo aveva già salutato. Ma era sua madre, era irrispettoso un pensiero del genere. Si obbligò a girarsi, con un respiro un po' più profondo. Mise su un abbozzo di sorriso.

«Madre, il sabato c'è sempre tanta gente. Tornerò di sicuro con una buona somma, ho sentito che c'è stata una piccola epidemia tra gli allevatori, ho preparato dei rime—»

Fu interrotta da un sospiro rumoroso. Sua madre aveva chiuso gli occhi e agitava il capo. Eccolo, stava per arrivare...

«Ti daranno più soldi di quanti ne riceveresti da un marito degno di questo nome?»

Si limitò a rilassare il braccio, senza staccare la presa dalla maniglia. Ricordò a sé stessa di rimanere composta e calma. L'avrebbe ascoltata, anche se conosceva l'antifona. Tanto la lasciava sempre andare, poi.

Sua madre continuò: «Io non ti capisco, guardati! Sei nel pieno fiore della tua giovinezza e ti ostini con questa storia del lavoro, degli intrugli e dei lebbrosi! Sono cose da donne vedove e zitelle, tu potresti avere una vita normale». Forse aveva finito. «Se solo ti impegnassi!».

O forse no. Osò ruotare il corpo verso l'uscita.

«Tua sorella c'è riuscita, ed era molto meno graziosa. Tu sei docile, calma, perfetta, se solo non perdessi il tuo tempo dietro a queste sciocchezze e ti premurassi di guardarti intorno».

No, non era decisamente finita. Aveva scelto la versione lunga del discorso, per quella mattina. Ottimo. Tornò con lo sguardo su sua mamma: le braccia incrociate all'altezza del petto, aveva assunto il cipiglio della ramanzina impegnata. Avrebbe dovuto velocizzare il passo, per non perdere il posto al banchetto più centrale della piazza...

Le rispose con la voce più pacata che riuscì a trovare: «Madre, apprezzo che vi preoccupiate per me, ma...». Ma avevano bisogno di soldi, e l'idea di investire le sue energie nella ricerca di un uomo, per averli, era quanto di più complicato e assurdo riuscisse a pensare. Guadagnarli applicando le regole che imparava dagli altri curatori era così semplice. Non lo disse, optò per una rassicurazione qualsiasi: «...non è vero che non mi guardo attorno. Non ho ancora trovato la mia occasione, ma sapete meglio di me che al sabato la piazza si riempie».

«Non si conquista l'attenzione di un giovane con una cuffietta da medicatrice in testa, Leonilde! Se almeno riuscissi a trovarti un'amica della tua età: te l'ho detto un sacco di volte, sta tutto nell'atteggiamento! Camminare con grazia, sorridere, parl—»

«Parlottare lanciando occhiatine fugaci, per dare l'impressione che lui mi abbia colpita. Sì, madre, me lo ricordo». Stirò le labbra nell'ennesimo sorriso. «Ho conversato con una ragazza, la scorsa settimana, non temete. Anche lei è in età da marito, penso che la troverò lì oggi».

«Mmh? Con chi?»

Con chi? Bella domanda. Non parlava proprio con nessuno, se non con Melanya. Melanya però aveva sessant'anni, oltre a essere un'esperta di arti curative, la migliore che avesse trovato e l'unico essere umano nel raggio di miglia con cui intavolava conversazioni.

«Lea, la figlia del fabbro, te la ricordi?»

Era Lea o Lysa?

Uno sbuffo sarcastico: «Quel piccolo ragnetto? Non ha possibilità, di fianco a te. Non fare la modesta, mi raccomando. Un po' va bene, ma cerca di attirare l'attenzione per prima».

«Sì, madre».

Le uniche attenzioni che sperava di ricevere erano quelle di qualche appestato o ustionato.

«In fondo è colpa mia. Mia e di tuo padre. Gliel'avevo detto di non lasciarti così tanta libertà, e guardaci ora».

Sua madre aveva abbassato la voce e lei abbassò gli occhi. Negli ultimi tempi lo nominava di frequente, perché? Le era sembrato che si fosse ripresa a sufficienza.

«Se n'è andato nell'aldilà e ora possiamo contare solo su noi stesse, Nilde. Io non ci sarò per sempre, figlia mia, e Lucas è ancora piccolo... tu devi andare avanti, trovare il tuo posto accanto a un uomo dignitoso, tu...»

Nilde si staccò dalla porta e si diresse verso di lei, le prese le mani nelle proprie con dolcezza. «Madre, state tranquilla. Vi prometto che non farò nulla che possa impensierirvi».

Gli occhi lucidi, sua madre tolse dalla stretta una delle mani per darle una carezza sul viso: «Sei sempre stata una brava figlia, Leonilde».

Nilde le fece un sorriso, finalmente sincero. Piegò la testa in basso in segno di saluto, si girò e fece per andarsene.

«Se solo mi dessi retta! Alla tua età avrei ucciso, per le attenzioni di un giovane!»

Scappò prima che potesse ricominciare.

*

«Mi sei debitrice, ragazzina!»

Ridacchiò. Fece un cenno al contadino che aveva appena medicato, per suggerirgli che aveva finito e poteva alzarsi. L'uomo le lasciò una piccola moneta bronzea sul banchetto di legno, si sollevò dalla botte che fungeva da sgabello e si allontanò da lei. Nilde iniziò a piegare e mettere via la pezza utilizzata: l'avrebbe avvolta in un panno a parte, per non contaminare il contenuto pulito della borsa.

Si voltò verso la voce trillante e un po' secca che le aveva strillato dietro: «Ti sono sempre debitrice, Melanya».

Anche per quel giorno le aveva tenuto il posto, lottando contro chi aveva cercato di soffiarglielo, con tutta la forza della propria anzianità. Era una donna d'un pezzo, a tratti burbera, ma l'aveva accolta sotto la propria ala dal primo istante. Sentiva di volerle davvero bene, era l'unica anima amica che avesse mai conosciuto in quei diciotto anni di vita.

«Allora, cosa è stato stavolta? I capricci del moccioso o la parlantina della tua genitrice?»

Rise di nuovo.

«Mia madre ha ricominciato con la storia del marito».

Udì un borbottio incomprensibile, prima che Melanya le regalasse un discorso compiuto: «Se chiedi a me, sto molto meglio da quando quel vecchio bastardo si trova sottoterra. Questi sono i migliori anni della mia vita».

«Lo so, Mel, me l'hai detto tante volte».

Un attimo di silenzio, che portò Nilde a sollevare lo sguardo dal proprio banchetto e dalle pezze per volgerlo sulla sua amica. Varkos si era svegliata con una luce inusuale. Il cielo era limpido, come poche volte all'anno: rimbalzava contro le cime innevate dei monti sullo sfondo. Voleva ricordare ai suoi abitanti la vera intensità dei colori del mondo, forse. Impossibile essere tristi, in una mattinata del genere, eppure gli occhi castani di Melanya si erano tinti di malinconia.

«Però tu non dovresti passare tutto il tuo tempo con una vecchia, sai? Là fuori potrebbero anche esserci uomini decenti».

«Tu ne hai mai conosciuti?»

«No, ma non ero bella come te, bambina». La punta di un sorriso. Melanya non ne faceva tanti, ma la luce quel giorno catturò tutte le grinze della dolce pelle che si tendeva intorno alle labbra.

Nilde tornò a rovistare con gli oggetti sul banco di legno. Perché quelle parole la innervosivano?

Si limitò ad abbassare la voce, cercando di non mostrarsi risentita: «Ora parli come mia madre, allora sei un po' d'accordo con lei».

«Ah, al diavolo, fa' come vuoi! Ne riparleremo tra qualche anno. Spero tu non perda la testa per uno zotico, ma tanto capita a tutte!»

Quella versione di Melanya la riconosceva. Rise di gusto, l'aria fredda che le pizzicava la punta del naso. Era proprio un'ottima mattinata, non aveva senso perdersi dietro a pensieri strani. La piazza era gremita e banchi di ogni tipo si concentravano nello spiazzo squadrato, l'odore di qualcosa che veniva arrostito poco più in là le arrivò alle narici. Nelle orecchie, il brusio dei venditori e le chiacchiere dei passanti. Forse qualche giovane in quella calca c'era, ma non erano altro che ombre passeggere. Invisibili ai suoi occhi, almeno quanto lei sapeva di essere invisibile ai loro.

Intuiva cosa le altre ragazze della sua età sognassero, e non poteva fare a meno di chiedersi cosa potesse avere di sbagliato, se quei desideri non erano mai giunti a solleticarla. Ci aveva provato, ma era impossibile, finivano per annoiarla sempre. Lasciò stare e si destò da quelle osservazioni inutili con una scrollata leggera di spalle: era lì per lavorare, e quella aveva tutta l'aria di essere una giornata proficua.

Ne ebbe la conferma quando notò un uomo dall'aria malconcia che le veniva incontro, il braccio attraversato da un grosso squarcio e la tunica strappata. Doveva essere una guardia o un mercenario, ferite simili potevano derivare solo da un'arma. Casi del genere erano diminuiti, comunque, da quando le difese della città erano migliorate. Il nuovo conte sedeva nel palazzo di Varkos da pochi mesi, ma sembrava aver preso a cuore quella loro realtà derelitta, dopo anni di gestione vacante. Non lo aveva mai incontrato: sapeva solo che era un cavaliere, mandato dalla regione reale. Come tanti dei cittadini, anche lei aveva iniziato a sviluppare un piccolo moto di gratitudine verso il loro nuovo signore.

Lui le borbottò qualcosa, sembrava ancora intontito. Invitò l'uomo a sedersi e si chinò per afferrare ago e filo dalla bisaccia che aveva appoggiato a terra, dietro di lei. Rovistò alla ricerca della boccetta contenente il necessario per pulire la ferita al meglio. Sarebbe stata un'operazione un po' lunga, ma le avrebbe portato più monete del consueto. Trovò ciò che le serviva, si rialzò soddisfatta e si avvicinò al ferito. Si inginocchiò di fronte a lui e iniziò a pulire il taglio.

Non lo sentì arrivare.

Prese solo coscienza della luce che si era affievolita a un certo punto, come se qualcuno si fosse installato a gettare un'ombra dolce su di lei. Era concentrata, però, e lui apparve nel suo raggio visivo con calma, la stessa che gli avrebbe affibbiato da lì all'eternità. Quella che le rasserenava l'anima e l'avrebbe sempre fatta sentire nel giusto, anche quando avrebbe capito di non poterla raggiungere.

Alzò il viso con lentezza, spostandolo dal lavoro che stava eseguendo. Un corpo vestito di nero era in piedi davanti a lei, la pelle brunastra che stonava con il clima della zona, il portamento fiero, due occhi scuri che la fissavano con attenzione. Prima di quella mattina, Nilde non aveva mai dato importanza a un viso: ogni figura era scivolata nello spazio che la circondava, senza lasciare traccia di sé. Donne, uomini, adolescenti o anziani: li aveva sempre curati, ma nessuno aveva fatto rumore.

Lui le rimbombò dentro, senza chiedere il permesso. Lo fece con modi garbati, con l'aria di chi non voleva disturbare, e diede inizio a una valanga silenziosa di cui ancora non conosceva la portata.

«Non volevo interrompervi, continuate pure».

«Scusatemi, voi chi siete?». D'accordo, per qualche assurdo motivo l'aveva colpita più di una persona normale, ma perché uno sconosciuto se ne rimaneva lì come uno stoccafisso a metterla a disagio?

«Sir Carraig, al vostro servizio».

Trasalì e si alzò in piedi con velocità. Si affrettò a fare un piccolo inchino nella sua direzione, nascondendo la faccia che le era diventata rossa.

«Signore, vi chiedo perdono. Non vi avevo riconosciuto». Ma che ci faceva il conte lì? Nella piazza pubblica, in mezzo ai popolani?

«Tranquilla, non serve. Da quanto sapete usare le arti curative?»

Non poté trattenere un brivido di nervosismo. Perché le faceva domande del genere? C'era qualcosa di strano. Tenne lo sguardo basso e la testa ancora piegata. Non aveva mai scambiato mezza parola con un nobile, ma sapeva di dover portare rispetto.

«Da due anni, mio signore. Ho imparato dalla migliore della città» sussurrò.

Spostò giusto il capo verso la direzione di Melanya, senza avere il coraggio di guardarla e capire cosa stesse facendo. Anche lei era sconvolta per quell'apparizione improvvisa?

«Mia signora».

La voce ferma e profonda doveva essersi rivolta alla sua amica. Il conte tornò a parlare a lei, dopo un breve istante: «Vi interessa trovare un lavoro?»

Non riuscì a trattenersi e alzò il capo, presa dallo stupore.

Visto da vicino era ancora più bello di quanto le fosse apparso mentre se ne era rimasta a terra come una cretina. Era bello sul serio? In realtà non lo sapeva, non aveva mai affibbiato un aggettivo del genere a nessuno, non le era mai importato. Forse non secondo le convenzioni classiche: a tratti disordinato, con quei ciuffi di capelli che non si era premurato di sistemare, il naso non era del tutto dritto e lo sguardo era troppo freddo. Forse era solo colpa di quel dannato sole, che aveva scelto di brillare proprio quel giorno, per rimbambirla.

«D-di che tipo, mio signore? Ne ho già uno...»

«Come questo, infatti, ma plausibilmente lontano da qui. Ho in mente di mettere su un gruppo di curatori che segua me e il mio plotone, ma i vecchi bacucchi che questa città definisce ufficiali si sono rivelati deludenti e incapaci di reggersi in piedi. Sono dovuto venire a cercarmi ciò che mi serve da solo, a quanto pare».

Rimase muta e immobile. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Sembravano parole di rabbia, ma l'espressione del viso non si era scomposta in nessun modo. Forse era solo scocciato...

Riprese lui, il tono sbrigativo: «Mi servono persone sveglie. Il lavoro che stavate facendo mi sembra ottimo, se siete interessata presentatevi al palazzo domattina».

«Domattina?» squittì.

«Cos'ha domattina, che non va?»

Era la vigilia del solstizio, nessuno a Varkos si azzardava a lavorare o fare faccende, era una tradizione. Non ci diede peso, quell'uomo non sembrava interessato a questioni del genere e lei sentiva quelle parole ritornarle nella mente come una canzone dalla melodia affascinante. Un lavoro lontano da lì, uno vero... la possibilità di poter vivere di ciò che amava. Il fatto di stargli vicino, che si insinuò come una puntina minuscola dentro al presagio di un sentimento ancora senza nome.

«Nulla! Ci sarò».

Lui alzò un sopracciglio, sembrava appena stupito. Qualcosa lo aveva smosso, quindi.

«Non volete pensarci?»

«No».

Tentennò, ma ripeté: «No, mio signore».

«D'accordo, ne parleremo meglio domani. Spargete la voce, se conoscete altre ragazze o ragazzi con la stessa volontà... devono essere giovani, il compito non è semplice».

Quindi niente Melanya. Però era un'avventura, una vera. Come lo avrebbe detto a sua madre? E Lucas?

Un solletico piacevole le attraversò il corpo. Lui l'aveva vista. L'aveva notata in mezzo a tutti gli altri, grazie a ciò che sapeva fare. Non era servito ridacchiare.

Il conte parlò di nuovo, come se si fosse dimenticato qualcosa: «Ah, dovete perdonarmi. Come vi chiamate?»

Qualcosa le si agitò nella pancia, un gorgoglio caldo e piacevole.

«Nilde. Mi chiamo Nilde».

«Nilde, sono felice di avervi conosciuta. Sarà un piacere avervi con noi».

Si congedò da lei, gli stessi movimenti silenziosi con cui era apparso.

*

Lo amava da quattro anni.

Lui si era impossessato di quel sentimento prima ancora che lei potesse capirlo, riconoscerlo, definirlo. L'amore era arrivato senza darle nessun preavviso, violento e silenzioso come lo stesso uomo che deteneva il controllo del suo cuore.

L'idea di potersi rivelare era esistita, all'inizio. Quando ancora lo guardava da vicino e sperava di scorgere in ogni gesto o parola gli stessi sentimenti che le laceravano l'anima, giorno e notte. O almeno un accenno a essi.

Poi tutto era diventato un sottofondo costante che le rosicchiava lo spirito in maniera flebile: non smetteva mai, ma la lasciava in vita, nutrendosi di ciò che poteva permettersi. Aveva imparato a sopravvivere di briciole disseminate lungo la strada: si accontentava di vederlo ogni giorno, di saperlo nella stessa area di respiro. Le bastava ricevere i suoi complimenti, quando la lodava per essere una delle poche a non dargli mai problemi, a sapere sempre cosa fare e quando farlo. Quando la chiamava per nome, o le si rivolgeva in maniera diretta.

Lui non aveva mai cercato una compagnia, in quegli anni, e a Nilde bastava.

Forse sorvegliarlo e mantenere intatto quel posto poteva essere abbastanza, nel conforto di saperlo solo. Forse un giorno, anche distante, lui avrebbe potuto guardarsi intorno e capire che lei c'era sempre stata. Offrirle un premio per la dedizione cieca che aveva dimostrato.

Tutti i gesti che le aveva donato lei li aveva accatastati nella memoria, come piccole pietre preziose e inestimabili, a costruire il castello delle sue speranze fragili.

Finché non era arrivata lei.

All'inizio aveva finto di non capire: Fawn era una ragazza difficile, provata dal dolore, e lui aveva la tendenza a prendersi cura degli altri. Erano sempre stati simili, in quello.

Ma il tarlo moribondo, annidato nel suo cuore, era uscito allo scoperto. Aveva ricominciato a fare male. In ogni occhiata più viva di quelle che lei avrebbe mai ricevuto. In ogni momento in cui l'aveva visto sorridere di nascosto, o cercarla con lo sguardo e col corpo.

Ogni volta in cui si soffermava a fare paragoni: dunque voleva una ragazza ribelle, disubbidiente, pronta a sfidarlo. Tutto ciò che lei non aveva mai fatto o non era mai stata. Ma avrebbe potuto, se solo avesse saputo, se le fosse stata data la possibilità... poteva ancora diventarlo.

Ma non era magra come lei, né alta, né castana, non aveva le lentiggini... Sognava di rinascere, e la notte si immaginava di essere al suo posto.

Forse erano solo dei momenti passeggeri, una passione temporanea, qualcosa che sarebbe svanito col tempo. Valeva ancora la pena aspettare, rimanere come spettatrice una volta in più, in attesa della sua ricompensa. Le sarebbe andata bene lo stesso, se fosse arrivata a distanza di decenni? Sì, andava bene comunque.

Perché l'amore ormai non esisteva al di là dei contorni della sua figura nera, dell'unico viso che le avesse mai smosso qualcosa, colpendola con più forza di quella che un'altra persona avrebbe potuto sopportare. Lei sapeva sopportare e rimanere a debita distanza.

Capì la verità soltanto quella mattina, quando fu costretta a dirgli che Fawn era stata rapita.

Le fu chiaro come lui avesse subito la sua stessa sorte, per uno strano scherzo del fato. Era la stessa forza che obbligava Nilde a non andarsene più, a rimanere ancorata a lui con ogni fibra del proprio essere.

Tutto ciò che aveva costruito per lui era stato regalato a un'altra, senza spazio di appello.

Lo guardò disperarsi, venire accecato da un dolore senza spiegazione razionale, correre via e lanciarsi a cercarla, ritrovarla, riportarla indietro.

Lui è un uomo buono, tenterebbe di salvare ognuno di noi.

La vocina dell'illusione aveva pigolato, restia a morire e lasciarla libera.

Dentro, quella domanda che non smetteva di vorticare, crudele e spietata, pronta a bruciarla viva tra le fiamme del suo egoismo e impedirle di trovare ancora un motivo per alzarsi.

"L'avrebbe fatto, per me? Se ci fossi stata io, al posto di lei, l'avrebbe fatto?"

No.

Ci sono persone nate per essere invisibili, rimanere sul bordo e osservare da lontano.

Le ragazze come me non diventano mai le protagoniste della storia.





🦌🤎⚔️🔥

Ma possono ricevere uno spazio ❤️

Sarò sincera: tenevo molto a questo capitolo, per quanto non c'entri assolutamente nulla col resto della trama e sia a conti fatti "superfluo".

Ci tenevo perché credo racconti qualcosa che almeno tutti, una volta nella vita, abbiamo provato. Il confine labile tra amore e ossessione, e il dolore straziante di non essere ricambiati.

Sarò doppiamente sincera: non sono soddisfatta di come è uscito, forse proprio perché lo aspettavo da tanto e in qualche modo non ho trovato le parole che volevo.

Ma andava comunque pubblicato :)

Spero di tornarci, prima o poi, e riuscire a raccontarlo meglio. Nel frattempo, mi auguro possa comunque smuovere qualcosina a qualcuno ^^

Questo capitolo è indissolubilmente intrecciato alla canzone nel banner: è praticamente nato ascoltandola:)

Ci vediamo presto, per tornare (finalmente) dalla nostra Fawn ❤️

Baci, cerbiattini ❤️

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