33. (𝕱𝖆𝖜𝖓)
Come si può chiedere a un cuore che ha già preso fuoco di risorgere dalle proprie ceneri?
Mettere insieme ogni singolo frammento di polvere nera, ricomporre i tessuti e i vasi, fargli riacquisire la forma originaria, insegnargli di nuovo a battere, ricordargli la direzione in cui il sangue deve scorrere.
Non si può, è impossibile. Non è morto e non è vivo. È sopravvissuto, ma l'incendio lo ha già reso inutilizzabile.
Non aveva dormito per niente, neanche un po'. Ci aveva provato e si era rigirata come una disperata per tutte le poche ore che separavano quell'episodio, rubato a una fantasia assurda, dalla luce dell'alba. Tutto ciò a cui riusciva a pensare era il senso di vertigine che le aveva afferrato il torace. Il solletico nello stomaco era diventato soffocamento, senza preavviso, e lei non era più stata in grado di fare alcunché.
Se non scappare e mettersi in salvo.
Era assurdo, e più ripercorreva nella mente quei momenti più le sembrava di non averli vissuti davvero. Forse era stato tutto un tremendo sogno, uno di quelli capaci di lasciarla eccitata e spaventata a morte, allo stesso tempo. Era successo sul serio?
L'aveva proprio guardata a quel modo? Aveva cercato di prenderla per mano con dolcezza, come si fa solo in certi frangenti e con certe persone. Come lei aveva già fatto, una volta e con un solo ragazzo.
Quell'unico, breve, singolo tocco. Lo continuava a sentire sulla pelle: chiudeva gli occhi per cercare di incontrare il buio, ma la stessa immagine riappariva ancora, imperterrita. Il fresco della notte che le pungeva il corpo, la visuale rischiarata solo da una pallida luna, alta nel cielo. La stazza nera di Devon davanti a lei, troppo vicino, con due occhi scuri che brillavano di apprensione e non la mollavano, quasi volessero tenerla ferma lì, ancorata a lui con una forza invisibile. Il fatto che si fosse addolcito all'improvviso e il modo in cui la voce gli si era abbassata: aveva quasi tremato, mentre le parlava. La mano destra.
La mano destra di Fawn era rimasta lì nel bosco, ferma a rivivere lo stesso attimo in un ciclo infinito. Lo aveva memorizzato e non lo lasciava più. La strinse il più possibile, strizzò le palpebre e si girò per l'ennesima volta sull'altro fianco. Non si preoccupò di fare rumore, di essere irrispettosa verso le ragazze. Avrebbe solo voluto far uscire dal petto tutto quanto, urlarlo alla luce del sole, a chiunque, per farsi dare una risposta. Non sapeva nemmeno che risposta volesse.
Sarebbe andata bene una risposta qualsiasi? La verità l'avrebbe accontentata?
No.
Perché per un minimo, impercettibile momento, aveva sperato che lui continuasse. Ma non poteva dirlo ad anima viva. Il fatto stesso di pensarlo le faceva arricciare i piedi, scalciare e poi agitarsi. Per cacciare via tutto quanto. Ogni singola ipotesi a cui quel gesto avrebbe potuto portare.
Aveva già un amore, che fosse perso o meno non contava, lei avrebbe continuato a cercarlo. A custodirlo, se non altro. La felicità più pura e il dolore più straziante che ne derivava subito dopo: bastavano per una vita intera. Credere di poter replicare tutto sarebbe stato superbo, oltre che masochista.
In fondo non era successo nulla, e quella era la stessa persona che l'aveva accusata di dare problemi e di essere una pazza incosciente. Cos'aveva detto?
Che gli importa di me.
Ma non significava un bel niente, alla fine. Anche Lyam le voleva bene, persino Nilde e le altre palesavano una forma di affetto nei suoi confronti. Forse erano solo ipotesi presuntuose, illusioni che si stava creando da sola. Certo, quel comportamento era stato ambiguo, però... non c'era ragione di credere che covasse niente di strano.
Non era l'essere gelido che aveva creduto fino a quel momento, perfetto. Magari si era semplicemente stufato di stare da solo, dopo tanti anni chiunque si sarebbe ammorbidito un po', avrebbe cercato compagnia.
Poteva trovare ciò che voleva in Nilde. Per lui sarebbe stato meglio, più facile... e lei se lo sarebbe meritato.
Più di me. Sarebbe di gran lunga più giusto.
Doveva ignorare l'accaduto, era l'unica scelta plausibile e sensata. Con tutta probabilità, lui non stava nemmeno perdendo le proprie ore di sonno dietro a quell'unico avvenimento. Perché lei non riusciva a staccarsene? Forse la solitudine le aveva fatto fin troppi danni e la portava a vedere l'immensità dietro a un granello di sabbia.
Sospirò e cambiò posizione per la decima volta. Pancia contro terra, avvolse con le braccia gli stracci arrotolati che le facevano da cuscino. Pressò la faccia contro di essi per cancellare dalla testa qualsiasi immagine o pensiero. Solo l'oscurità, quella che non era arrivata per tutta la notte.
Ancora quel solletico acuto al ventre, e più sotto. Aveva caldo.
Piantala.
Che razza di persona si perdeva in fantasie del genere? Una traditrice del ricordo di Dylam, oltre che un'amica tremenda. Più la colpa la attanagliava, però, più quella sensazione non se ne voleva andare...
Tentò di richiamare alla memoria il blu degli occhi di Dylam, lo stesso che giorno dopo giorno le sembrava diventare sempre più evanescente. Per quanto si sforzasse di concentrarsi su quel lago limpido, sulla brillantezza che l'aveva sempre resa felice, i colori scivolavano via senza che lei potesse controllarli... Due iridi scure.
No, lui ha gli occhi blu. Ha gli occhi blu, dannazione.
Quando sorrideva, quei due scampoli di mare si assottigliavano fino quasi a sparire. I denti bianchissimi, le fossette sulle guance, la luce. La luce che aveva giurato di amare per sempre. Non poteva rifiutarsi di abbagliarla!
Ma era diventata così flebile, e non sapeva neanche quando fosse accaduto. Scivolò di nuovo, assumendo le sembianze di una figura nera, il sorriso che divenne un'espressione severa.
Era prepotente persino nei sogni, quell'uomo.
Ringraziò i mugolii che le arrivarono dalla figura più vicina. Nilde si stava svegliando.
Finse di stiracchiarsi e rallentò i movimenti, aprendo piano gli occhi. Aspettò che la sua compagna facesse lo stesso, per parlarle con una certa impazienza: «Buongiorno!».
Un piccolo sbadiglio. Nilde richiuse per un momento le palpebre, prima di risponderle: «Buongiorno a te, Fawn... ma non hai dormito? Perché sei già così attiva?». Un altro sbadiglio e una smorfia.
«Ansia per l'esito di oggi, niente di più».
Nilde aprì di più gli occhi e alzò il capo, reggendosi su un gomito, più lucida: «Perdonami, è vero, che sciocca... Devi essere in grande pena, stai pensando al tuo ragazzo? Potresti ricevere informazioni, se tutto va come deve».
Le aveva sussurrato con la solita apprensione materna, un po' chinata verso di lei. Fawn si limitò a fare un cenno di assenso con la testa e alzarsi in piedi, dandole le spalle.
Dylam. L'incontro col conte avrebbe portato nuove informazioni, benevole o maligne che fossero. Su dove si trovava Proteo e su cosa ci fosse davvero in ballo... dove c'era quell'essere infernale, poteva esistere ancora Dylam. O qualsiasi cosa fosse rimasta di lui.
E lei era una merda totale. Aveva passato le ore a pensare a quelle stupidaggini, a tradirlo persino in un momento del genere.
«A me importa».
Ma di cosa gli importava... di una donna egoista che infliggeva dolori a chiunque. Li collezionava, da brava e fiera portatrice di sventura.
Non riuscì nemmeno a far finta, quando Nilde si alzò per venire a toccarle la spalla con una mano. La voleva confortare e riuscì a scorgere il barlume di un sorriso buono, ma si girò di scatto sottraendosi a quel gesto. Se ne sarebbe rattristata, forse, ma non importava.
Se solo sapesse. Che schifo.
Svegliarono le altre ragazze e si vestirono tutte quante, tra il pigolio di Yulia che non ne voleva sapere di alzarsi e i rimbrotti che Lily le lanciava. Fawn dissimulò, si perse dentro a ogni gesto e ogni parola delle altre, nel vano tentativo di distrarsi. Quel gorgoglio alla pancia non smise nemmeno per un istante, però, e non aveva a che fare con la fame.
Fuori da lì, c'era solo freddo pungente e umidità: quest'ultima le si appiccicava alla pelle, la sentiva arrampicarsi ad arricciarle i capelli. Casa, finalmente.
Al momento di salutare la compagnia se ne rimase in disparte, in una posa inusuale. Lasciò che le altre ragazze svettassero davanti a lei e restò qualche passo più indietro, cercando di confondersi dentro a quel gruppetto esiguo. I cavalieri erano lì, schierati e compatti, una legione pronta a fare ciò che doveva. Loro nient'altro che fanciulle incaricate di salutare gli uomini in partenza. Se non avesse avuto un'ansia spasmodica che le contorceva le viscere, quella situazione avrebbe anche avuto il potere di farla infuriare.
Invece sono qui, come una perfetta scema, a crogiolarmi per i gesti di un tizio qualsiasi.
Alzò la testa che aveva puntato per terra e avanzò, con stizza. Di che aveva paura, in fondo?
«Fawn».
Sbattè le palpebre e si girò in fretta, in cerca della voce che le aveva fatto capolino nella mente. Lyam... Lyam era lì con loro, pronto a farsi valere per la prima e vera volta. Si era dimenticata persino di lui. Deglutì, mentre una lama colpevole le si conficcava in gola e scendeva verso il torace.
«Stai bene? Sei pronto?»
Silenzio. Si allungò col collo, per identificare un guizzo rosso da qualche parte, ma doveva essere nelle file più lontane. Non scorgeva traccia del suo amico.
«Ho paura».
La lama colpì più a fondo, le trafisse il cuore e arrivò a darle scariche di dolore nel petto. Lyam era da solo. Quando era stata l'ultima volta in cui l'aveva lasciato partire da solo, privo del suo aiuto e della sua protezione? Mai. Neanche una volta, da quando l'aveva conosciuto.
Il viso pallido di Lyam si sovrappose a una carnagione più rosata, a una statura più bassa e a una corporatura più massiccia. Il volto di Cian, un po' squadrato e bonario, che la guardava per l'ultima volta, l'ombra negli occhi mentre la salutava. Mentre se ne andava, solo, dove lei non avrebbe più potuto difenderlo.
Lo stesso bruciore arrivò a scaldarle il viso e a premere sugli occhi. Guardò in alto per impedire a sé stessa di piangere come una bambina.
«Ce la puoi fare, siamo qui per questo, ti ricordi? Devi solo andare lì e dimostrare chi sei. Io sarò sempre qui, ti aspetto».
«Sì, hai ragione...»
«Lyam».
«Sì?»
«Ti supplico, torna».
Idalia poteva aver bisogno di lui, ma lei... Non ci poteva nemmeno pensare, a una vita senza Lyam. Non era un qualcosa che riusciva a contemplare.
Una piccola vibrazione nella testa le suggerì che lui aveva sorriso.
«Grazie di essere venuta con me. Non te l'ho mai detto».
Allora sì, che voleva farla piangere. Quella confessione spontanea le serviva, perché forse c'era almeno un barlume di bontà in tutto ciò che aveva fatto da una vita intera. Finché Lyam fosse esistito, avrebbe sempre avuto qualcosa da proteggere con le unghie e con i denti. Qualcosa che le permettesse di essere migliore.
Si accorse di una piccola lacrima che le colava lungo la guancia e si affrettò a scacciarla con la mano, tirando su col naso e portando la testa in alto. Percepì tardi la presenza di qualcuno che le si era avvicinato, vide prima i piedi e salì con lo sguardo a incontrarne il solito abbigliamento monocromatico. Non trasalì, alla vista del comandante, a quelle entrate in scena silenziose ormai si stava abituando. Arrossì, però.
Passarono diversi secondi con lui che la guardava senza aprire bocca, titubante, l'espressione seria e gli occhi leggermente spenti. Sui capelli neri si erano posate tante goccioline uscite dalla cappa di nebbia che li attorniava, e le occhiaie erano sempre al loro posto. Era ritornato ai modi misurati e freddi, ma era come se un velo di morbidezza lo avesse avvolto. Non seppe dire in cosa, se nei gesti o nei muscoli del viso. In effetti, in quell'ambiente tetro e rigido lui completava il quadro alla perfezione. Sì, ci era decisamente nato, ad Agonos. Nonostante l'incarnato estraneo.
Fawn raddrizzò le spalle e alzò il mento, per assumere una postura più fiera. Che pessima figura: farsi vedere in lacrime, come da perfetta damigella che salutava gli uomini al fronte.
Devon si limitò ad allungarle qualcosa con un gesto lento: la sua spada. Già, gliel'aveva lasciata. Era proprio una combattente esperta, neanche si preoccupava di riprendersi le proprie armi. Sentiva la pelle rovente, segno che doveva aver di nuovo assunto il colorito di un peperone. Ottimo.
«Questa è tua, anche se spero non ne abbiate bisogno, nessuna di voi».
La prese, facendo attenzione a non avvicinarsi troppo. Meglio non toccarlo, l'imbarazzo le era cascato addosso come una valanga. Inspirò, cercando di non farsi notare, e si umettò le labbra per ritrovare la facoltà di parlare.
Perché devo essere io a sentirmi a disagio? Ha fatto tutto lui.
«Grazie». Troppo stridulo.
Devon non si spostò, e neanche parlò. Una patina di gelo calò nello spazio che li separava, mentre lui tentennava come se non sapesse cosa dire. Avrebbe dovuto salutarlo? Forse augurargli buona fortuna, esisteva qualcosa del genere? Perché se ne stava preoccupando?
Si limitò a fare un cenno con la testa nella sua direzione, alla stregua di un commiato formale. Devon non pronunciò più alcun suono e se ne andò.
*
«La cosa più utile che possiamo fare è prepararci. Preghiamo Anann di non dover usare niente di tutto ciò».
Aveva seguito Ciara tra i cespugli, alla ricerca di erbe curative con cui fare scorta in vista del ritorno della compagnia. Il tempo si era dilatato e non passava più, dare spazio a quelle conoscenze era l'unico modo utile a riempirlo. Ogni giorno aveva iniziato a ripetere tra sé e sé i nomi delle principali erbe che le altre le avevano indicato, sotto lo sguardo vigile di Ciara che la osservava mentre ricopiava le lettere di quelle più semplici. Si sentiva così esposta, ma non si era data per vinta. Aveva richiesto che le ragazze non fossero presenti tutte insieme, però. Le avrebbero solo fatto passare la voglia di provare.
«Questa si chiama sedum, non è vero?» mormorò, alla vista delle foglioline sottili posizionate a ricordare la forma di una stella. Ne strappò un ciuffo con attenzione.
«Esatto, ci è utile per far cicatrizzare tutti i tagli orribili che si porteranno addosso».
Cercò di figurarsi nella mente l'aspetto delle lettere che potevano comporla. La s era facile, era quel simbolo curvo che le usciva sbilenco e brutto. La m assomigliava all'ultima lettera del suo nome, ma quelle in mezzo... si confondeva sempre, diamine. Avrebbe dovuto rivederle, magari da sola. Magari lo avrebbe chiesto a Ciara quando le altre non fossero state in giro.
La donna si fermò di colpo, la vide voltarsi verso di lei con un gesto secco. Le sopracciglia aggrottate e la bocca semichiusa, guardava verso la direzione da cui erano partite. Dove le altre erano rimaste ad attendere, insieme alle guardie.
«Che succede?»
«Tu non hai sentito niente?»
No, non aveva... Una voce bassa, maschile, in lontananza. Un tono troppo aggressivo, per essere quello dei soldati a loro disposizione. Fu quando arrivò lo strillo inconfondibile di Yulia, però, che entrambe mollarono la presa sui cespugli e si catapultarono di corsa all'indietro.
Quella era una scena che aveva già vissuto, e la memoria fisica aiutò le gambe di Fawn a muoversi come se avessero incontrato la benedizione del potere di Lyam. Ignorò i rami sporgenti, i graffi, il fatto che Ciara fosse rimasta indietro. Portò la mano alla spada, per tenersi pronta, corse come una forsennata, il battito dentro al petto che diventò sempre più violento e irregolare.
Frenò bruscamente, appena uscita dalla schiera di alberi, alla vista terribile di ciò che la attendeva: non si trattava di un unico uomo. Erano quanti, una decina? Almeno. Il respiro affannato, Fawn fece scorrere gli occhi velocemente su ogni punto, per capire che quello a terra era il cadavere di una delle loro guardie. Le altre tre si erano posizionate intorno al carro, a difendere le ragazze. Yulia era a terra, il volto rigato dalle lacrime e la veste strappata. Sembrava stare ancora bene.
Non pensò a nulla, non rifletté nemmeno sulla possibilità di usare davvero l'arma. Con un gesto automatico, fissò con implacabile precisione il corpo del nemico in primo piano, che stava per incrociare la spada con uno dei loro. Il fuoco si alzò dai suoi piedi per ricoprirlo interamente, alla stregua di un'enorme torcia umana. Le fiamme avvilupparono il corpo come un'onda di pura energia, rossa e vibrante, grida di dolore a riempire il cielo terso sopra le loro teste. Spostò di poco le pupille e guardò il secondo. Un'altra candelina, accesa per rendere grazie della visita fortunata. Il terzo. Il quarto. Si fermò, le era venuto un piccolo giramento.
Contemplò la situazione, sbatté le palpebre e inalò dell'aria fresca per riprendersi. Aprì la bocca per aiutarsi a respirare meglio. Si avvicinò.
L'aria era rovente, intrisa di quell'odore dolciastro e nauseabondo che conosceva ormai così bene. Non si premurò di spegnere le fiamme e lasciarli morire con calma: il fuoco andava bene, per quel giorno. Che banchettasse come più preferiva, libero.
Nel vederla camminare verso di loro, lenta e inesorabile come una strega appena uscita dalle porte dell'inferno, qualcuno degli uomini indietreggiò. Si fermò a poca distanza da loro, riusciva a vederli in faccia: volti inutili, vuoti, forse covavano qualcosa. Ma che importanza aveva, non esisteva alcuna rabbia che potesse competere. Solo la sua.
«Eccola, è lei».
«Te l'avevo detto, il mostro sarebbe uscito allo scoperto da solo».
Ghigni reciproci tra due degli uomini che la osservavano avanzare, noncuranti. Forse troppo. Perché non scappavano?
Poco male, erano quanti? Tre, quattro, cinque... ce la poteva fare.
Interruppe lo slancio di energia, presa alla sprovvista dal fischio che uno di loro emise, forte e acuto, voltandosi verso la radura che copriva l'altura in lontananza, dal lato opposto al suo.
«Fawn! Fawn!»
Si girò. Ciara era rimasta sul ciglio del bosco, a qualche metro di distanza da loro, ma non le guardava. Fissava atterrita un punto al di là della scena, il dito alzato a indicare qualcosa o qualcuno.
Ne seguì la direzione: oltre la colonna di alberi, qualche scintillio che baluginava alla luce. Lampi di metallo scuro. Un suono ritmato e costante, che si fece via via più intenso, come uno scalpiccio che andava avvicinandosi. Una fila di soldati a cavallo, che divennero due, tre... perché un'intera legione era accorsa lì, a spaventare quell'esiguo gruppo di donne? Che cercassero la compagnia reale...
Cercano me.
Scattò con la testa verso una delle tre guardie, non ricordava nemmeno il suo nome. Si avvicinò a lui in un balzo e gli sussurrò un ordine chiaro, conciso e privo di repliche: «Portatele via, mi hai sentito? Dal comandante, dagli altri, dove vi pare, al sicuro. Lontano da qui. Non posso farli fuori tutti, ma posso darvi il tempo che serve».
Abbozzò uno sguardo verso Yulia, che intanto si era alzata da terra, la faccia ancora sporca di pianto. Tentava di tenere su il vestito strappato che le cadeva da una spalla, con la mano opposta.
«Fawn, che hai intenzione di fare...» piagnucolò.
Le rivolse un piccolo sorriso, guardò Lily che intanto scendeva dal carro: «Prendete i cavalli e staccateli dai carri, ce la potete fare. Tu ce la puoi fare, intesi?».
Lily annuì, il viso che aveva perso il colorito abituale, in preda alla paura. Ma sembrava decisa, aveva capito. Eccola lì, la sua amica. Guardò anche Nilde e si perse per un secondo di troppo dentro a quegli enormi occhi celesti. Sì, ne valeva la pena.
Un sacrificio per un sacrificio. Dylam aveva difeso la rocca, lei non aveva potuto fare niente. Non sarebbe successo ancora, non in quella vita e non senza il suo intervento. Se il destino le aveva concesso di portare disperazione, che potesse almeno difendere ciò che amava.
Il mondo non lo poteva salvare, non era per gente come lei. Ma quelle quattro chiassose e pettegole ragazze, sì. Loro sì.
Diede loro le spalle, vide le guardie correre e superarla per raggiungerle. Attese qualche secondo, qualche nitrito, i tonfi secchi delle assi di legno che venivano staccate e cadevano per terra, liberate. Si avvicinò verso i cinque figuri che la guardavano, in volto un'espressione beffarda.
«Bellezza, cosa credi di fare? Lascia perdere, arrenditi e vieni con no—».
Prese fuoco a partire dalle labbra che straparlavano: le fiamme effettuarono una graziosa capriola verso l'alto, per andare a cingerlo fino alla superficie del cranio con un piccolo rigonfiamento che esplose e si assottigliò in una punta vorticante. Urlò, come era prevedibile. Il volto ormai deformato, la bocca aperta a disegnare un terribile buco nero sotto alla coltre rosso vivo.
Gli altri vicini parvero intuire che era impazzita, che di soccombere non gliene fregava niente, di risparmiarsi con una logica di sopravvivenza nemmeno. Incespicarono e corsero via, diretti a raggiungere il battaglione che stava arrivando a dare manforte. Li colpì alla schiena, dando fuoco al deretano del primo e spostando la fiammata a inglobare il secondo, in una curva spiraleggiante disegnata con lo spostarsi degli occhi.
Fu costretta a piegare un po' le gambe e si appoggiò con le mani sulle cosce, per sorreggersi. Aveva già il fiatone, cavoli. La vista le si era un po' appannata, non riusciva bene a mettere a fuoco. Rimase in quella posizione, concentrandosi sul proprio respiro, e cercò di calmarlo. Gli steli d'erba davanti a lei ritornarono pian piano più nitidi. Si rialzò, lenta. Guardò la schiera di soldati che le si parava di fronte. Sentiva la testa venire schiacciata in una leggera morsa, un sibilo iniziò a fare da sottofondo costante. Poteva trattenerli abbastanza da permettere alle altre di essere già lontane. Figuri del genere non avrebbero avuto pietà di loro, con o senza di lei come prigioniera.
Yulia meritava un amore come quello dei libri, e non le mani luride di quei bastardi addosso. Si concentrò sull'immagine della sua amica in lacrime, a terra, sullo strillo che le aveva sentito esalare in lontananza.
Non perse tempo a colpire ogni singolo uomo: l'aria che la fronteggiava si fece rarefatta, come un vortice opaco. La temperatura salì, fino a diventare incandescente. Le armature erano ormai un'immagine sfocata dietro al fuoco che nasceva. Un'alta e spessa parete di disperazione, un rogo che si innalzò tra lei e i nemici. Quel tratto di foresta si sarebbe risvegliato spoglio. Agonos non l'aveva ancora vista liberarsi a pieno, non del tutto. Le sembrò un ottimo modo di rimettere piede a casa.
Ingrandì e spinse il muro di fiamme in avanti, che si mosse a colpire i primi soldati. Lei si inginocchiò a terra, era difficile rimanere in piedi. Sentiva la coscienza lasciarla, il suolo iniziare a girarle intorno, ma non cedette. Gli occhi fissi su quell'unico punto, le grida ovattate e l'atmosfera ormai rovente, continuò. Continuò fino ad accucciarsi, carponi. Non smise di guardarli, di tenere alto l'incendio, di dare tutto ciò che aveva. Non seppe quanto tempo trascorse, forse minuti, attimi che apparirono come eterni, intervallati solo dalle urla di dolore. Non cessò l'attacco, finché il suo stesso fisico non riuscì più a sorreggerla.
Ebbe il tempo di percepire che qualcuno le si avvicinava, nello spiraglio di realtà che si stava richiudendo dentro a una morsa buia. Solo un pensiero fugace, prima di spegnersi.
«A me importa».
Forse si sarebbe arrabbiato.
🦌🤎⚔️🔥
Io temo che qualche reazione spiacevole possa averla.
E secondo voi? Si arrabbierà? :')
No, non è successa una bella cosa. Potrebbero arrivare dei capitoli bruttini, corredati di trigger warning </3.
Prepariamoci tutti insieme, tenendoci per mano.
Lo so, avevo parlato di gioie. Arrivano, giuro.
Spero che almeno la prima parte di capitolo vi abbia regalato qualche emozione, per quanto abbiamo capito che la piccola Fawn sia in preda a un turbinio di sentimenti molto molto confusi e deleteri.
So che ha fatto arrabbiare tutti e tutte, nell'interrompere il magic moment con Devon, ma ricordiamoci del povero Dylam :')
"But i thought we believed in an endless love" 💔
Baci, cerbiattini 🦌.
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