31. (𝕯𝖊𝖛𝖔𝖓)
Si sedette, dopo aver steso una pelle per proteggersi dal terreno umido e impregnato. La vicinanza ad Agonos si faceva sentire, anche nella pioggia che aveva ricominciato a presentarsi: leggera, saltuaria, ma era lì a ricordargli che erano sempre più prossimi all'obiettivo. Difficile dire quante unità Proteo fosse riuscito a raggruppare, ma una cosa era certa: se l'addestramento degli uomini al suo servizio avesse ricalcato quello dei soldati incontrati a Kyma, non sarebbe stato degno di nota. Pericolosi, ma non letali. Avevano qualche possibilità di riuscita, a patto di non incontrare sorprese.
Di quanti Misteri poteva già essersi munito? I cadaveri rinvenuti nella rocca erano tanti e, a giudicare dalle parole di Lyam, i superstiti mai ritrovati non erano più di qualche decina.
Ammesso che non ne avesse cercati altri, sparsi per il regno: stanati, presi con la forza, giostrati a proprio piacimento. Qualsiasi razza di tortura avesse usato per manipolarli, dovevano tener conto di quella concreta minaccia.
Aveva chiesto a Talom di raggiungerlo nella propria tenda, dopo cena. Avevano ripreso ad accamparsi e a dover perdere momenti preziosi installando delle protezioni, la possibilità di venire sorpresi da un acquazzone nella notte era già troppo alta. Ogni elemento che rallentava l'andamento lo infastidiva. L'unica cosa che avrebbe potuto concedere loro un vantaggio contro il conte di Dunham era il tempo, sempre lui.
Il tempo.
Erano passati quattro giorni, ormai, e con lei non aveva più avuto alcun tipo di contatto. La cercava, senza farlo apposta e senza riuscire a evitare che gli occhi si spostassero di continuo, a ogni sosta lungo il percorso. A volte la trovava, a volte no. Di certo, Fawn non gli aveva più rivolto neanche una singola occhiata.
La mattina del primo allenamento con Lyam l'aveva vista lì, dritta e immobile come una statua rabbiosa, a fissarli entrambi. Aveva atteso che il suo amico la raggiungesse e si era voltata, senza indulgere su Devon neanche per un secondo.
Non si era aspettato un grazie, sarebbe stato presuntuoso, dopo ciò che le aveva detto. Sperava solo che sapere dell'addestramento l'avesse rassicurata, fatto provare qualche moto di gioia. Sorrisi non ne aveva scorti, ma d'altronde aveva iniziato a credere che lei fosse incapace di produrne.
Non aveva osato chiedere nulla al ragazzo, durante le mattinate successive: domandargli se la sua amica stesse bene non era esattamente coerente con la voglia di dimenticarla. Non sapeva nemmeno se ormai dimenticarla fosse possibile. Forse solo a missione conclusa, finalmente lontani. Saperla vicina e non avere idea di che umore la attraversasse serviva solo a torturarlo di più.
Pazienza, almeno è più al sicuro che con noi.
Lei alla battaglia non ci si doveva neanche avvicinare. L'idea che potesse davvero venire rapita e usata era un'ipotesi spaventosa, terrificante e da evitare a qualsiasi costo: per il regno, l'incolumità di tutti, per la sua coscienza personale. Per il suo cuore malandato, in qualche modo assurdo che ancora non trovava una spiegazione logica.
Scorse una chiazza rossiccia e alta con la coda dell'occhio, segno che Lyam era a pochi metri da lui, sulla sinistra. Dove c'era il ragazzo, c'era sempre lei. Azzardò un'occhiata da sopra la spalla, circospetta: le cinque curatrici e Lyam stavano per sistemarsi lì, in cerchio. Fawn gli dava la schiena, ma la riconobbe subito, anche prima che un piccolo falò prendesse vita proprio davanti ai suoi piedi. Quelle gambe lunghe non potevano appartenere a nessun'altra, e ormai l'avrebbe riconosciuta in mezzo a mille donne diverse. I movimenti secchi, decisi, a tratti ineleganti, mentre tirava fuori dalla sacca una pelle, la adagiava a terra senza tanti complimenti e ci si gettava sopra. Ogni singolo gesto la differenziava dalle altre. Qualcosa stonava, però... non capì. Rimase a guardarla, dimenticandosi di essere discreto, la fronte corrugata nell'atto di concentrarsi.
Stivali, pantaloni, la tunica corta e il bustino in pelle chiuso da una cintura, non indossava il mantello. Tutto era al suo posto, soliti colori e solito aspetto. Bella come sempre. Eppure... i capelli. I capelli erano troppo ordinati, troppo composti.
Non era la sua tipica treccia storta, realizzata alla bell'e meglio, e neanche la massa vaporosa e un po' infeltrita di quando li lasciava sciolti. Qualcuno doveva averle dato una mano, perché l'elaborato disegno di treccine disegnate sul capo, che si incontravano e glielo cingevano prima di scendere verso il basso, annegate in mezzo ai boccoli, non era un lavoro che lei aveva mai dimostrato di saper fare. Socchiuse un po' gli occhi, per mettere a fuoco: c'erano anche delle foglie.
Chi diavolo le aveva piazzato foglie morte in testa, per farne una decorazione di dubbio gusto?
E soprattutto, da quando una spedizione militare prevedeva di acconciarsi e abbellirsi?
Per chi l'ha fatto? Che si stia dimenticando del fidanzato scomparso...
Indispettito, smise di guardare e tornò con la testa dritta, rivolta verso terra. Perder tempo dietro a tali idiozie non lo rendeva migliore di quel ragazzo che passava le notti a fantasticare sulla donna più inavvicinabile del regno. Se non altro, Lyam era ricambiato e aveva un piano, per quanto assurdo.
Quattro giorni non erano bastati a vedere un netto miglioramento, ma avevano iniziato a lavorare sulle basi, sulla totale mancanza di equilibrio del ragazzo e sul provare a rafforzarlo. Se esistevano delle divinità, avrebbero dovuto impedire che lui incontrasse la morte al primo scontro possibile, o solo il fato sapeva quanto Fawn ne sarebbe uscita distrutta.
Si girò ancora, ormai erano tutti e sei seduti. Mangiavano. Fawn non si scostava, parlava con le altre ragazze. Loro le rivolgevano degli sguardi divertiti, il movimento delle mani mentre si passavano il cibo l'un l'altra tradiva che avessero preso confidenza. Allora si stava ambientando...
Trasalì quando lei si voltò e lo sorprese a guardarli. Devon virò le pupille in gran fretta di qualche millimetro, puntandole contro Lyam: «Dovresti passare più tempo con gli altri soldati, e non con le donne del gruppo. Non saranno loro, a pararti le spalle. La battaglia è più vicina di quanto credi».
Lyam si limitò a scoccargli un'occhiata timida e replicare, balbettando un po': «Sì, signore, avete ragione».
Notò Fawn che allungava una mano verso il braccio dell'amico e ritornava a guardare il fuoco. Lo strinse e gli disse qualcosa, spingendolo a dare attenzione a loro e lasciarlo perdere. Captò solo un tono basso e delle parole lontane: non riuscì a decifrarle, ma poteva giurare di aver sentito un chiaro e netto "quel bastardo".
Erano retrocessi ai sentimenti dell'inizio, quindi, se non peggio. Sospirò, si concentrò sulle questioni di cui avrebbe dovuto discutere con Talom, iniziò a mangiare e si sforzò con ogni fibra della propria volontà di non voltarsi più.
*
«Credi sappia già del nostro arrivo?»
«Il conte? Non lo so, tutto si gioca su quanto velocemente quei reietti siano tornati da lui con la coda tra le gambe, a dargli la lieta notizia».
La tenda l'aveva montata alla svelta, senza curarsi troppo di fare un lavoro egregio, ma non sarebbe stata comunque abbastanza alta da consentirgli di starsene in piedi. Non era il caso di permettere ad altre orecchie di ascoltare e farsi prendere dall'ansia. Senza contare che ormai non si fidava più di nessuno. Una gamba stesa e l'altra piegata, a sorreggere il braccio destro che continuava a dargli fastidio, Devon guardava Talom: il secondo fissava la mappa, tenendola sulle proprie gambe incrociate, gli occhi chiari immersi nella contemplazione serafica.
Ci andava d'accordo da sempre, la calma che emanava lo faceva sentire a suo agio. Nulla a che fare coi modi irruenti e troppo bonari di Oisin, nonostante li legasse una vicinanza più stretta. Il suo secondo esalò un respiro profondo, senza alzare gli occhi dalla pergamena: «Quindi ritieni che il fattore sorpresa possa venirci incontro? Non possiamo permetterci di perdere troppi uomini, non prima di aver davvero scovato l'obiettivo finale...»
«Non li perderemo. Sorpresa o meno, dobbiamo cercare di convincerlo a collaborare e a darci informazioni certe. Questa caccia va avanti da troppo, e ha stancato tutti».
Talom iniziò ad arrotolare la carta, con fare pacato, le lunghe dita sottili impegnate. Continuava a non alzare la testa, e tentennava. Lo poteva scorgere dagli occhi che non guardavano davvero il documento, ma un punto sospeso nel vuoto, come in preda ai pensieri.
Devon ruppe il silenzio: «Cosa non ti convince? Parla».
Un altro sospiro col naso, le labbra gli si strinsero un po'. «Non hai intenzione di persuaderlo con la forza?»
Una fitta al braccio, l'aveva teso in preda a uno scatto. «Certo che ho intenzione di persuaderlo con la forza, non ci portiamo un battaglione reale appresso per giocarci a nascondino».
«Un'altra forza».
«Spiegati meglio». Si irrigidì, le mani strette a pugno.
Forse aveva usato un tono secco, ma se il sospetto che gli si stava formando era giusto...
«Non voglio dirti cosa fare o come svolgere il tuo ruolo, ma credo dovresti ritrovare un po' di raziocinio». Ignorò il fiotto di rabbia che gli stava montando su per il collo, mentre Talom finalmente alzava la testa per guardarlo dritto negli occhi: «La ragazza è stata portata per un motivo preciso, e a me sembra che lei ne sia perfettamente consapevole. L'unico problema è la tua ritrosia a concederle di rendersi utile».
Ovvio, eccolo lì.
«Hai bisogno di poteri magici per assediare una reggia alla periferia della regione peggiore che abbiamo, Talom? È questo che hai imparato, in anni di addestramento?»
«Non è questo il punto...»
«Quale sarebbe, allora?» gli ringhiò dietro. Iniziava a essere stufo.
«Vedi il rischio e le ombre in ogni cosa, non sei d'accordo con la loro presenza dal primo giorno. Ma farle svolgere il suo compito con consenso non è la stessa cosa che sfruttarla, questo dovresti capirlo».
«Ah, no? E in cosa siamo diversi, allora? Li abbiamo trucidati quindici anni fa e ora l'unico modo che conosciamo per riammetterli alla nostra corte è usarne l'energia? Pensi che a qualcuno freghi qualcosa, se ci rimettono la vita nel farlo?»
«A te frega fin troppo, e queste sono decisioni del re».
Il re siede su quel trono grazie a me. E lui, da quando parla così tanto?
«Perché so cosa vuol dire! Usare quei dannati poteri non è una passeggiata di salute, per loro».
«Non lo è nemmeno combattere, vivere e prestarsi ai rischi che incontriamo tutti i giorni. Perché non lo chiedi a lei, se è d'accordo? Non mi sembra tu le abbia dato scelta».
«Basta così». La conversazione stava assumendo una piega fin troppo esplicita. Il comando era ancora nelle sue dannate mani, ma quel concetto pareva essere oscuro a molti.
«Devon, ti devi ricordare che esiste il regno. I doveri, il compito che ci hanno dato... nessuno di noi vive questa missione a cuor leggero».
Sì, e chi meglio di Talom si atteneva alle regole? Era partito lasciandosi alle spalle qualsiasi cosa, pur di seguire le direttive del sovrano e le responsabilità del suo ruolo. Aveva abbandonato luoghi e persone, senza sapere quando le avrebbe riviste. Lo sapeva, lo crucciava e non poteva ignorare quanto l'idea di non potersene ancora tornare a Vasileya, da ciò che davvero desiderava, logorasse il suo sottoposto. Non c'era una singola anima, in quella compagnia, la cui vita non appesantisse Devon come un macigno. Che ne poteva davvero sapere, lui?
Terminò, freddo: «Ho capito il punto, ma faremo prima a modo mio. Grazie della tua opinione».
Forse lo stava deludendo, ma non poteva perdere tempo a preoccuparsene. Dovevano farcela. Dovevano sopravvivere tutti, tornare nella capitale, concedere la libertà ai Misteri. Talom avrebbe potuto sposarsi, finalmente. Doveva solo fidarsi di lui, ancora una volta. Avrebbe pensato a tutto e trovato un modo.
«D'accordo, ti lascio riflettere per conto tuo... Forse ho esagerato, ti chiedo scusa».
Sì, l'aveva fatto, ma mostrarsi risentito non gli piaceva. Ancora meno gli piaceva ricevere delle scuse, come un fottuto bambino offeso. Talom poteva anche imparare ad ascoltarlo. Si limitò a fargli un cenno con la mano, per rassicurarlo.
Una sensazione di prurito e bruciore sotto la spalla gli ricordò di dover aggiungere qualcosa: «Manda qui una curatrice, se puoi». In condizioni normali avrebbe provato a togliersi i punti da solo, ma non riusciva a vederli tutti. L'ennesima seccatura.
«Chi devo...»
«Una curatrice, Talom, una qualsiasi. Ne abbiamo quattro che ci seguono da più di un anno, te le ricordi?»
Una che non sia lei.
Ebbe un'impressione strana, mentre Talom gli annuiva con la testa e gli dava le spalle per uscire del tutto. Era l'ombra di un sorriso sarcastico, quella, o stava diventando pazzo?
Che cazzo.
Iniziò a slacciarsi la placca che gli copriva il torace e la schiena, poi gli spallacci. Stava per sfilarsi la tunica, non senza una certa difficoltà, nel tentativo di usare un braccio solo, quando un fruscio leggero gli rivelò che qualcuno stava nuovamente entrando nella tenda. Aveva fatto in fretta.
Riabbassò la camicia che gli copriva il viso per scoprire che non c'era nessuna curatrice, solo la testa bionda del mago che sbucava dall'ingresso e lo fissava, con un'espressione tranquilla e impertinente.
«Chi vi ha detto di entrare?»
Yrim non si scompose, alzò il lembo di stoffa con una mano per farsi ulteriore spazio, non si azzardò però a fare un passo all'interno.
«Nessuno, immaginavo soltanto che non avreste avuto voglia di vedermi. Il vostro viso rivela parecchi turbamenti, in questi giorni, e ho avuto modo di capire che siete incline a drastici sbalzi d'umore...»
Non riuscì a evitare di rimanere stupito. Non avevano mai parlato, se lo portava appresso per semplice intromissione del sovrano, senza neanche credere avesse una qualsiasi utilità.
«Voi siete, di grazia? Temo di essermi dimenticato di voi». Mentì.
Il mago si limitò ad abbassare gli occhi e fare un sorrisetto, ma a quel punto sì, mosse il braccio per spostare la tela ed entrò del tutto. Si abbassò subito, era troppo alto. Si sistemò in ginocchio proprio davanti a lui, senza titubare, in una posizione che gli ricordava certe dannate preghiere a cui era stato obbligato durante l'infanzia. Prima di convincersi che fossero tutte un'accozzaglia di assurdità.
Yrim alzò il capo, le palpebre leggermente cadenti, e gli parlò. Ogni suo movimento aveva una lentezza esasperante.
«Posso capire, d'altronde non ho avuto un ruolo significativo, fino a oggi. Sono Yrim, della confraternita di Maghyarat. Il grande consiglio degli oracoli vigila su questo mondo da par-»
«So cosa credete di fare, voi invasati. Arriva al punto».
Rinunciò alle formalità. Il fatto stesso che quel tizio originasse da un'insulsa isola al di là del Grande Mare, dove un gruppo di esagitati credeva di poter disporre del destino altrui, senza neppure sporcarsi le mani o vedere mai la verità delle cose, la disperazione delle persone... era abbastanza da fargli scivolare via qualsiasi voglia di portargli rispetto.
«Ho delle informazioni da condividere con te, e credo dovresti ascoltarmi».
E lui aveva capito l'antifona, a quanto pareva.
«Informazioni di che tipo? Tu dovresti essere qui per fare il piccolo alchimista che si interessa della natura di un paio di cavie, o sbaglio?»
Yrim rimase tranquillo, fin troppo per dargli una qualche soddisfazione: «Non sbagli, ma la conoscenza ha tante sfaccettature, e il mio ruolo anche».
«Tu non hai nessun ruolo, in questa compagnia».
«Forse, o forse ciò che ho da dire potrebbe essere utile... perché non valuti tu stesso?»
Respirò con pesantezza, senza lasciar trapelare nulla, mentre quell'ampolloso e insulso uomo biondo continuava a non scomporsi di un millimetro. Lo fissava, in attesa.
«Sentiamo».
«Giungono voci di una situazione particolare, nella città di Màvrita. Un clima di terrore, che ricalca ciò che abbiamo conosciuto più di un decennio fa. Il duca non si fa vedere da parecchie settimane, e si dice che un assedio silenzioso stia tenendo in scacco l'intero palazzo, costringendolo ad agire per mano di altri. Ho ragione di credere ch-»
«Da chi giungono? Tu come ne sei informato?»
Un momento di silenzio, Yrim sembrava appena scocciato dall'intromissione. Allora non gli avevano insegnato a darsi abbastanza autocontrollo, in quel pidocchioso tempio.
«Ho i miei mezzi e i miei contatti, come tutti. Ho ragione di credere ch-»
«E io perché dovrei fidarmi di un monaco che declama assurdità?»
Un altro incrinarsi delle labbra serrate di Yrim. Sorrise dentro di sé.
«Non devi. Puoi scegliere. Come hai scelto tante volte, in questa vita. E per quanto io capisca che tuo padre sia un argomento delicato, dovresti prima ascoltare».
L'ilarità morì subito, così come era salita. Portò la mano sinistra a toccare la spada posata a terra, lì di fianco. Troppe cose rischiavano di fargli perdere la lucidità, in quegli ultimi giorni. Troppe.
Yrim alzò gli occhi al cielo e non gli lasciò il tempo di dire qualsiasi cosa, doveva aver notato il suo gesto: «Le tue origini non sono un segreto ben custodito come credi, e non penso tu ti sia lanciato in questa missione senza ipotizzare di poterlo davvero incontrare, o sbaglio?»
No, non sbagliava. Ma non metteva piede in quella città maledetta da troppo tempo, ed era assurdo pensare di essere seduto a parlarne con un perfetto sconosciuto, abituato a decantare preghiere.
«Finisci di dire ciò che devi».
«Ho ragione di credere che dietro tutto ci sia chi noi cerchiamo. Consiglio di non dare retta al conte di Dunham e rivolgerci da subito verso il centro del ducato. Proteo si trova lì, con alta probabilità».
Perché? Chi era quel tizio, sul serio, cosa voleva da lui e quanto sapeva della sua vita? Era meglio toglierselo di torno, subito.
«Tutto qui?»
«So che non hai motivi di fidarti di me, ma il destino di questo regno mi interessa, non ti darei informazioni falsate».
«Perché? Non vi fregiate forse di essere neutrali?»
«La storia ha bisogno di intermediari, per compiersi. Io mi limito a indirizzarla verso ciò che è scritto».
Un altro sorriso sghembo. Lo stava prendendo per il culo, senza ombra di dubbio. E non ce la faceva a parlare con chiarezza, se non in stupidi versi senza significato. Rimase in silenzio, mentre un'ira sopita da fin troppi anni e troppa disciplina si faceva strada.
Yrim continuò: «Anche la tua storia personale è scritta, per quanto tu ora non possa capirlo a pieno. Ma ci arriverai, prima o poi. A te la scelta di quando accettarlo...»
Tirò fuori la spada dalla fodera, non riuscì a evitare di puntargliela contro la gola. Non aveva intenzione di compiere nessun gesto avventato, ma contro certe parole non aveva difese. Contro il passato non esistevano corazze abbastanza forti, o rimedi.
«Tu non sai un bel niente. Chi cazzo sei, veramente?» gli sibilò contro.
Yrim abbassò di poco le pupille, a fissare la punta della lama che quasi lo sfiorava, in apparenza ancora calmo, ma deglutì prima di rispondere: «Te l'ho già detto, sono solo un intermediario. Il protagonista di questa vicenda non sono io, ma vedo che gli attori principali hanno ancora bisogno di capirlo...».
«Di che diavolo stai parlando?»
«Il re tiene per sé molti dettagli, ormai. È comprensibile, quell'uomo ha paura. La paura muove tante cose, sai? Te per primo. Tuo padre non è un mostro, Devon, è solo un uomo».
Ora basta.
«Vattene, o giuro sulla tua adorata dea che il tuo sangue sarà l'ultimo sacrificio che le offrirai in questa vita».
Spinse un po' di più la lama contro il collo di Yrim. Un barlume di paura in quegli occhi freddi come il ghiaccio. Il mago si decise ad alzarsi, con un sospiro e un fare più rigido. Nell'allontanarsi, notò il segno rosso che gli aveva lasciato.
«Credo che avremo modo di parlare ancora. Fino ad allora, ti prego, rifletti».
Si alzò, gli diede le spalle, se ne uscì da lì.
Era già la seconda persona nel giro della stessa sera a suggerirgli di riflettere. Di usare la testa, di essere ragionevole. Il mondo intero sembrava urlargli dietro cose senza senso, frasi sconnesse e informazioni che non riusciva ad accettare. In quella situazione ci si era infilato da solo, forse. Avrebbe dovuto farsi i fatti propri tanti e tanti anni prima, senza sperare di trovare davvero una via di fuga o di salvezza per quella realtà martoriata.
Non esisteva nessuna stupidissima speranza, niente di niente. A quel punto ogni tentativo gli si stava ritorcendo contro, costringendolo a rimettere in discussione l'unica cosa che inseguiva da sempre, in preda a una volontà cieca.
«Promettimi che li aiuterai. Lo puoi fare, tu puoi salvare questo mondo al posto mio, per tutti noi».
Non ci riusciva, non ce la faceva e forse neanche lo voleva. Non aveva scelto un bel niente, se non di prostrarsi per il resto dei suoi giorni a inseguire un perdono inesistente.
Schiacciò la spada contro il pavimento di terra fredda, usando il braccio destro, con più forza del necessario. Il taglio fece male, ma non abbastanza da calmarlo. La rialzò e la batté ancora una volta contro il suolo. Se fosse morto in battaglia avrebbero smesso tutti di fargli richieste, di dargli suggerimenti, di costringerlo a riflettere? Avrebbe trovato un modo per scappare da quel monolite di responsabilità che continuava a schiacciarlo.
Fu interrotto da una vocetta sottile che proveniva dall'ingresso: «Permesso?»
Si voltò soltanto per ringhiare un basso: «Chi diavolo è, ancora?»
Se ne pentì e spalancò gli occhi, appena si rese conto che quella era una delle ragazze: Nilde. Aveva mandato a chiamare una curatrice, che idiota.
Lei sembrò esserne spaventata e si ritrasse con velocità, la voce tremolante: «Dovete scusarmi! Avevo capito vi servisse aiuto, me ne vado subito!»
Dannazione. Magari non era il caso di aggredire una delle poche persone a non avergli mai dato alcun problema.
«No, scusa... hai ragione, vieni. Credevo fosse qualcun altro».
Un po' incerta, la ragazza entrò e gli venne vicino, accucciata, tenendo la testa quasi nascosta da una nuvola di capelli ricci e lo sguardo puntato in basso. Notò soltanto che la faccia aveva assunto un color porpora intenso, stava per andare a fuoco. Maledisse sé stesso, doveva toglierle quello spavento di dosso.
«Co-come posso aiutarvi? F-Fawn mi ha detto della ferita, ecco, penso mi abbiate chiamato p-p-per quello...»
Ma che tono poteva aver usato, per urtarla a quel modo? Peggiore di quanto credesse, evidentemente. Diamine.
«Sì, niente di che. Vanno solo tolti i punti. Mi spiace averti dato noia».
«Oh, no, non c'è problema!» squittì lei.
Pensò che non fosse il caso di spogliarsi del tutto, la giovane donna sembrava fin troppo in pena. Magari aveva anche imbarazzo a trovarsi lì con lui, da sola. Che cretino, avrebbe dovuto chiedere di chiamarne due. Finì per alzare la camicia ed estrarne solo il braccio malato, ma se la lasciò addosso, a scoprirlo per metà.
Nilde armeggiava con qualcosa, non lo aveva ancora guardato in faccia. Dai movimenti che faceva, mentre prendeva un paio di piccole forbici dalla bisaccia, una boccetta di vetro contenente un liquido scuro e una pezza, pensò che forse si stesse calmando. Non tremava più. Tentò un accenno di conversazione, poteva toglierla dalla vergogna di rimanere in silenzio.
«Come vi state trovando, con la ragazza nuova?»
La curatrice si girò di scatto, forse un po' troppo in fretta.
«Fawn? Bene, ci stiamo trovando bene!». Lo aveva guardato, finalmente, gli occhi chiarissimi che non sembravano poi tanto in ansia, ma li riabbassò in un lampo. Forse era solo introversa. Ma non ci parlava certo per la prima volta, e la ricordava più spigliata di così.
«Non vi ha dato problemi?»
«Oh, no! È così carina».
Carina non era il termine che chiunque le avrebbe affibbiato, ma chissà. Magari si era data una calmata, forse quelle ragazze le trovava affini. Forse le piaceva davvero qualcuno. L'unica volta in cui l'aveva vista assumere atteggiamenti affabili era stato per provarci spudoratamente con Oisin. Che avesse qualche altro piano in mente? O faceva sul serio...
Non sarebbero comunque affari miei.
Nilde gli si avvicinò, attrezzi alla mano, lui alzò il braccio e si sistemò meglio con le gambe per darle modo di essere comoda. Lei titubò nel toccarglielo, per indurlo ad abbassarlo un po': «S-se no è troppo rigido, così farà meno male...»
Ma non la poteva smettere di balbettare? Iniziava a far sentire a disagio pure lui. Senza nessun motivo.
Ringraziò quando lei iniziò il lavoro, il fatto di doversi concentrare sembrò renderla più tranquilla. Un leggero pizzicore, quando lei taglio e sfilò via i punti, ma durò poco. Avvertì che lo tamponava con un oggetto umido, per poi iniziare a fasciargli l'arto con garbo. Aveva una mano delicata e veloce. Devon si ricordò della prima volta in cui l'aveva vista all'opera: aveva avuto un'ottima intuizione, nell'assumerla. Udì di nuovo quella voce lieve: «Ecco fatto, abbiamo finito... non ci è voluto tanto, e la ferita era stata ben chiusa. Fawn è stata molto brava».
«Suppongo di sì» mormorò. La ragazza si allontanò da lui di poco, per consentirgli di rimettere il braccio nella manica, e lui scrutò la sua espressione. Le si era formato un minuscolo sorriso, nel dire quelle parole. Doveva voler bene a Fawn, quindi.
«C'è altro che posso fare per voi?» aggiunse lei, il velo dell'ennesimo rossore. Magari aveva solo caldo.
«Sì. Assicurarmi che non ci sia davvero niente di sospetto, nella ragazza».
Il sorriso si appiattì subito, gli occhi si spalancarono un po'. Sembrava presa alla sprovvista. Allora c'era, qualcosa. E lei era incapace di mentire, ci aveva visto giusto. Insistette: «Questa è una cosa tra me e te, Nilde. Ma ho bisogno di sapere che non ci siano segreti».
Lei trasalì quando la chiamò per nome, e abbassò ancora una volta lo sguardo...
«Beh, ecco... Qualcosa...»
«Sì?»
La ragazza prese un profondo respiro, alzò le spalle e si gonfiò un po', come un piccolo rapace, prima di sputare parole a una velocità e un volume più alti: «Io le ho detto di venire a chiedervelo, che non l'avreste presa male e l'avreste ascoltata, ma lei non vuole fidarsi. Continua a ripetere che voi siete... mmh, austero, ecco, e che non le avreste dato retta. Ha tentato di convincere le guardie che ci seguono e loro non l'hanno presa sul serio, io però non credo che covi intenzioni di fuga né nulla, è solo così testarda e...»
«D'accordo, frena. Tranquilla, puoi dirmi tutto. Di che stiamo parlando?»
Alzare la voce o farsi vedere preoccupato non avrebbe giovato, Nilde doveva continuare a confidarsi con lui. Ignorò il fatto che aveva ingentilito il tutto definendolo "austero", ma sorvolò. Di sicuro l'ideatrice di quel casino aveva usato epiteti più coloriti.
«Mio signore, la ragazza vorrebbe riavere il suo cavallo».
Figuriamoci. No.
«Riavere il cavallo per farne cosa?», alzò un sopracciglio.
«Ma nulla! La annoia procedere sui carri, penso sia normale, in fondo era abituata a cavalcare con voi...»
O ha intenzione di comportarsi da pazza e raggiungerci in battaglia, senza essere stata invitata.
«Nilde, devo affidarti un compito di vitale importanza».
L'ennesima vampata.
«Di che parlate?»
«Devi osservare la nuova arrivata e scoprire cosa trama. Mi verrai a riferire ogni comportamento sospetto, intesi? Hai la mia fiducia».
🦌🤎⚔️🔥
Un po' in ritardo, ma ci siamo!
Vi chiedo scusa, è stata una settimana terribile!
Altro capitolo lungo, purtroppo questa storia delle diverse durate di lettura non la risolverò mai xD.
Devon qui ha parecchie gatte da pelare, e la sua tenda personale è diventata peggio degli uffici postali xD. Gente che entra ed esce senza lasciarlo in pace, lamentele, consigli non richiesti... un casino, insomma.
Ditemi cosa ne pensate.
Ma la povera Nilde quanto starà male da 1 a 10? :')
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