3. (𝕱𝖆𝖜𝖓)
Arrivò l'alba, sotto forma di luce soffusa e grigiastra che lambiva l'ambiente. Nell'aprire gli occhi con lentezza, Fawn notò che la curatrice di nome Nilde era sparita e che di Lyam non c'era ancora nessuna traccia. Un leggero odore di muffa e ristagno permeava l'aria attorno a lei. Brividi di freddo la percorsero, doveva aver sudato nella notte. Fece un tentativo di muoversi e non fu risparmiata da una fitta acuta, che le giunse dal fianco destro.
Se non altro, le avevano risparmiato di coprirle di nuovo gli occhi. Si guardò attorno: lo spazio esiguo in cui si trovava, adombrato dal tessuto di copertura, le appariva finalmente nella sua interezza. Per quanto ristretto sarebbe stato abbastanza grande da contenere quasi una decina di uomini sdraiati, eppure in quel momento non conteneva altri ospiti. Solo un soldato dall'aspetto massiccio e incolto le faceva compagnia, già sveglio e seduto a terra, sul punto più lontano che avrebbe potuto trovare rispetto a lei. Non la stava guardando: scrutava l'esterno, sbirciando attraverso la fessura sottile che chiudeva quell'improvvisato riparo.
Un po' sovrappensiero, si chiese perché le avessero lasciato libero il viso: che fossero degli sciocchi, o solo troppo sicuri di sé? L'ipotesi la spaventò. Qualcosa nel comandante che era apparso la sera prima la inquietava e la preoccupava. Non esistevano esseri umani che non fossero spaventati da lei, soprattutto una volta capita la sua reale natura.
Nel cercare di alzarsi capì di non essere più legata alla branda, ma di avere ancora le mani imprigionate. Soprattutto, si rese conto di quanto si sentisse debole e incerta. Alzò le braccia verso il viso e guardò i polsi serrati, riconoscendo la corda che li stringeva. Grigia e semplice in apparenza, ma nelle cui maglie rilucevano piccoli sprazzi argentei: era realizzata con frammenti di aspidya, un materiale simile al vetro, noto per non poter essere toccato dalle magie dei Misteri. Prese coscienza di quella subdola impotenza: avrebbe potuto appiccare un rogo e distruggere l'intera tenda, fare fuori quel soldato ignaro, persino, ma non svincolarsi da quella presa. L'aspydia era caro, difficile da reperire, eppure eccolo lì a impedirle di liberarsi con un solo cenno della mente. Ma certo, quel maledetto aveva capito da subito cosa fossero.
Alla faccia della presunta simpatia del re verso la nostra razza.
Un pensiero la attraversò, fulmineo, senza essere stato chiamato: un paio di occhi azzurri, capelli biondi come il grano, un volto femminile stralunato e sognante che aveva imparato a conoscere molto bene. Per qualche tempo, era stato custode della sua fiducia. Il suo umore tetro peggiorò. Scelse di ributtare tutto all'indietro e di sopravvivere ancora, almeno per quel giorno: uno dopo l'altro, come faceva da un anno.
Una potente fitta le arrivò dalla ferita, ma cercò di ignorare la sofferenza.
Chissà quali erbe ha usato quella donna.
Chissà quanto tempo avrebbe impiegato a rimarginarsi. Aveva pochissima energia, lo riusciva a percepire. Le risorse di quella mattina erano scarse, difficile dire quando avrebbe potuto riacquisire un po' di forza.
Tentò comunque di alzarsi in piedi: non le avevano concesso di svestirsi, indossava ancora i suoi abiti da viaggio. Tuttavia notò che qualcuno, prima di porla a letto e lasciare che la curatrice potesse medicarla, le aveva tolto di dosso la palandrana pesante: ecco perché aveva tanto freddo. Senza, era impossibile pensare di rimettersi in cammino.
Cercò di richiamare l'attenzione della guardia. Al suono della sua voce, lui si rizzò su in fretta.
«Devo indossare il mantello, non posso farlo con i polsi legati. Mi devi liberare». Lo fissò negli occhi e cercò di non tradire alcuna debolezza.
Il volto fiero e ammaccato dalla guerra, ricoperto da una barba fulva, quel tale la guardò di sottecchi e sbottò, con fare minaccioso: «Per chi mi hai preso, razza di strega? Mi credi scemo? Me ne frego, arrangiati e cammina, ci stanno aspettando!»
Fawn non avanzò di un passo, il volto le si irrigidì e piantò gli occhi in quelli dell'uomo. La rabbia cominciò a gorgogliarle dentro, fatta di tante bolle e schizzi roventi che le si agitavano nella testa. Sorrise appena:
«Ti ho detto di liberarmi. Senza il cappotto non esco da questa schifosa tenda: è l'ultimo avvertimento, poi sarò costretta a usare te come legna per riscaldarmi».
«Cosa hai detto...?» soffiò la guardia: «Razza di demonio maledetto, stai scherzando con la persona sbagliata». Un cambio di luce nello sguardo: paura, la riconosceva.
L'aveva vista così tante volte, impossibile non distinguerla. Ne approfittò e non si scompose: «Dimmi, hai più paura del fuoco o del tuo comandante? Ti consiglio di liberarmi» sputò, mentre il sorriso diabolico sul suo volto si allargava piano.
L'uomo divenne paonazzo, urlò qualcosa e si scaraventò contro di lei, sfoderando la spada dalla sua guaina.
Fu un attimo, un lampo: poco dopo lui era riverso a terra e si contorceva dal dolore, mentre fiamme vive gli lambivano la mano che in preda allo spasmo aveva lasciato cadere a terra l'arma. Lei lo guardò gridare per pochi secondi, mentre una piccola goccia di sudore le scendeva sulla fronte.
Non ho energia, non ne ho abbastanza nemmeno per uno.
Sperò che l'avvertimento fosse bastato e ritirò le fiamme dalla mano dell'uomo: lui smise di urlare e iniziò a mugolare, rimanendo a rigirarsi sul terreno. Volse il capo verso l'alto e le mostrò quel terrore sordo e folle che lei aveva visto venirle rivolto così tante volte. Glielo avevano rivolto molti visi, troppi per ricordarli tutti: visi nemici, ostili, visi cari che un tempo le avevano dedicato affetto...
Anche tale pensiero venne scacciato via con violenza. Aprì bocca per rivolgersi all'uomo e riprese: «Allora, il mio cappotto?»
Come uscendo da una trance in cui continuava a guardarla terrorizzato e muto, la guardia iniziò a tirarsi in piedi tremante e ad avvicinarsi verso di lei, la mano ustionata che ancora fumava.
Una figura si palesò, facendo capolino nella tenda e interrompendo quel lugubre strisciare: lo stesso comandante della sera prima, con l'oscurità negli occhi. Fawn rimase un attimo spiazzata; pensò a come fosse già la seconda volta che non sentiva quel funesto essere comparire. Cercò di non dimostrarsi stupita e di lasciare che la sorpresa rimanesse un minuscolo lampo nel suo sguardo. Malediceva la sua condizione fisica.
L'uomo rimase sulla soglia, un braccio alzato a reggere il lembo di stoffa dell'ingresso, e guardò prima la guardia, poi la mano, poi lei, mantenendo un'espressione che non avrebbe saputo interpretare in nessun modo: non lasciava trapelare nulla, né paura né incredulità. Fawn credette di scorgere una lieve consapevolezza, come di qualcuno che fosse venuto a capo di un piccolo enigma a cui mancava un tassello. Per il resto, solo profondità: un nero immenso come la notte nuvolosa e priva di stelle. Aprì la bocca per parlare, con lo stesso tono calmo ma risoluto che aveva già conosciuto il giorno prima: «Mi sembrava di avervi dato un consiglio. Non obbligatemi a farvi proseguire bendati per tutto il tragitto».
Fawn cercò in fretta una risposta... cosa significava? Tutto qui? Si sarebbe aspettata una promessa di morte, un dover ingaggiare una lotta, pur senza sapere con quali energie, o come minimo di essere punita, di sentirsi chiamare mostro, demonio. Chi era quel damerino privo di senno che si ostinava a usare un tono accondiscendente e formale? Un pazzo o un sadico? Scelse di continuare a rispondere al gioco subdolo che si stava svolgendo, senza lasciarsi incantare.
«Mio signore, chiunque voi siate e da qualsiasi ridente contrada veniate» sputò con sarcasmo: «se posso, avrei qualche lamentela sul tipo di trattamento che ci avete riservato».
Lui rimase immobile, in ascolto.
Alzò le mani davanti a lui ed esibì un ghigno: «Non posso vestirmi e la vostra adorata guardia non mi ha voluta aiutare».
L'uomo, esalato uno sbuffo impercettibile, le rispose: «I miei uomini sono stati incaricati di non liberarvi per nessun motivo, purtroppo è una questione di sicurezza, come detto anche al vostro compagno. Finché vi ostinerete a non parlare, non possiamo fare altrimenti. Speravo che lasciandovi almeno liberi di vedere, avremmo evitato un incidente increscioso del genere... purtroppo, non brilliamo per ospitalità. Detto questo, se vi capitasse ancora di aver bisogno di aiuto, chiedete di me. Sono sir Devon Carraig, comandante dei cavalieri di Sua Maestà».
Fawn rimase sbigottita, senza più riuscire a celare l'idea che quel comportamento fosse uno scherzo.
Il comandante entrò del tutto nello spazio chiuso da quel padiglione e ne riempì quasi per intero la verticalità. Si avvicinò a lei e le slegò i polsi con gesti tranquilli ma veloci, impassibile. Dopo averle sciolto le corde, si allontanò per prendere il mantello di lei dal punto erboso su cui era stato poggiato e glielo lanciò semplicemente sulla branda. Senza più degnarla di uno sguardo, fece per dirigersi all'uscita.
«Sbrigatevi, stiamo già facendo ritardo. Oggi voi proseguirete in testa di fianco a me. Vi ripropongo lo stesso consiglio di ieri, per quanto odi ripetermi: non andrete molto lontano, cercando di dare fuoco alla mia intera cavalleria». Aggiunse con tono gelido: «Ve lo dirò un'altra volta, vi conviene collaborare», questa volta voltando il viso da sopra le spalle e guardandola dritto negli occhi.
Fawn sentì di nuovo quel piccolo brivido freddo scenderle lungo il corpo, al suono di quelle parole. Erano pacate, ma non poteva non scorgervi una velata minaccia.
«Ewan» chiamò poi l'uomo, rivolto alla guardia che ancora soffriva per l'ustione: «Tu oggi sei esonerato. Vai dalle curatrici e fatti dare qualcosa, poi ti muoverai con loro, almeno finché non ti sarai ripreso. Muoviamoci, questo incidente di percorso ci ha già fatto perdere fin troppo tempo».
*
Quando si fu rivestita, una guardia nuova entrò per lasciarle del cibo: lo gettò nella tenda prima di uscire in tutta fretta. Se non altro il gesto sconsiderato di poco prima era riuscito a procurarle il timore momentaneo di alcuni di quei cavalieri. Mangiò in fretta, con le mani ormai libere, e si ripromise di essere più discreta possibile: doveva cercare di capire qualcosa sul gruppo con cui erano costretti a muoversi e sul loro dannato capo.
Scoprì che lui la aspettava lì di fronte, con altra corda di aspidya tra le mani: «Mi dispiace, non posso lasciarvi libera finché non avremo certezze su di voi, come vi ho detto».
Rimase colpita ancora una volta dalla calma glaciale emanata da quell'uomo, che pretendeva di legarle le mani senza che lei si ribellasse minimamente. La guardava tendendo la corda davanti a sé, come aspettandosi che gliele porgesse senza fare resistenza. Lei sapeva alla perfezione di non avere alcuna chance, di non avere energia nemmeno per camminare diritta e di aver fatto una fatica immensa, poco prima, solo per ammonire quel poveretto. Sapeva che, anche ferendone uno, non avrebbe avuto via di scampo contro tutti loro, e che ribellarsi in quel momento non aveva alcuna logica.
Eppure era fatta così, cresciuta con quell'orgoglio cieco e sordo che le impediva di sottomettersi all'ennesimo umano che incontrava sulla sua strada. Era solo l'ennesimo che cercava una scusa per imbrigliarle la vita o ricordarle che, in qualche modo, non ne aveva diritto.
Ci provò con tutte le sue forze. Lo fissò con intensità negli occhi scuri, che la stavano ancora guardando in attesa. Le sembrò che passassero minuti interi, mentre si sforzava con prepotenza di strapparglieli: li guardò, aspettandosi di vederli fiammeggiare da un momento all'altro. Prevedeva che lui si sarebbe dimenato nella sofferenza e avrebbe smesso di mostrarsi così sicuro.
Ci fu solo il vuoto. Più tentava di dargli fuoco, di riversare il suo potere anche su un minuscolo lembo di pelle di quel viso sfrontato, più tentava anche solo di riscaldarlo, più non accadeva nulla. Nulla, il vuoto totale. Fu colta da incredulità, che divenne stupore, che poi divenne orrore.
Chi è quest'essere? Cosa sta capitando? Va bene, non ho tanta forza, ma questo non è mai successo. Al massimo sono svenuta o mi sono sentita male. Questo no.
Mille domande le rimbombarono in testa e si scontrarono con l'impossibilità di capire cosa fosse andato storto. Più ci pensava, più si faceva strada la sensazione ineluttabile che il problema non fosse lei: era lui. Quell'uomo era immune al suo potere.
Dopo un attimo che parve eterno, presa dalla disperazione momentanea, scelse di ribellarsi altrimenti: sapeva di non avere più le proprie armi addosso, l'avevano perquisita di certo la sera prima. Cercò di lanciarsi verso di lui con le mani strette a pugno, pronta a fargli almeno del male: lui sembrò vagamente sorpreso, ma non durò molto. Un paio di schermaglie con le braccia, non servì nemmeno tirare fuori la spada. Fawn immaginava di non avere grandi speranze nell'affrontare un cavaliere a mani nude, ma rimase comunque stupita dalla velocità impressionante con cui lui, senza che nemmeno potesse accorgersene, parò i suoi colpi. Si ritrovò con le mani imprigionate dalla corda, senza capire quando l'avesse fatto. Con fare seccato, le disse: «Questa questione sta diventando sempre più lunga. Siamo in ritardo, dannazione».
Legata, finì per seguirlo. Notò da lontano Lyam, anche lui immobilizzato di fianco ad altri cavalieri in attesa, che la guardava rassegnato.
🦌🤎⚔️🔥
Ops.
Un piccolo incidente, che ci ha svelato del tutto la natura della nostra Fawn.
Dite che ha esagerato?
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top