26. (𝕯𝖊𝖛𝖔𝖓)

⚠️ Warning per gli animi sensibili e puri: scene cruente a fine capitolo ⚠️

Aveva fretta, ma aveva scelto di lasciarla nutrirsi senza metterle troppa pressione. Forse perché il senso di colpa già lo attanagliava, in anticipo.

Sedevano soli a uno dei tavoli della sala da pranzo, piccola e defilata rispetto all'ingresso visto la sera prima. Qualche altro rozzo avventore e un paio di dame dalla dubbia mansione, che lo avevano già squadrato desiderose di pescare un nuovo cliente, prima di lasciarlo perdere, mangiavano non troppo distanti. Nessuno sembrava badare a loro. Aguzzò i sensi, concentrato a captare ogni singolo fiato o sguardo sospetto di chi gli stava nei paraggi. Episodi come quello del giorno prima non si sarebbero più dovuti ripetere.

Sembrava tutto tranquillo, però, almeno per il momento. Smise di lanciare occhiate in giro e tornò sul proprio piatto, ancora vuoto. Si allungò per prendere qualcosa dalla ciotola che aveva davanti, piena di frutta, pane e formaggi. Lei gli sedeva di fronte ed era già la seconda volta che si serviva.

Alzò per un attimo gli occhi: il bagno le aveva fatto bene, i capelli dalle sfumature ramate di Fawn erano ancora umidi e li aveva lasciati sciolti. Parevano più morbidi e lucidi di quando si trovavano in viaggio, e continuavano a lanciargli folate floreali fin troppo acute. Gli occhi erano più vispi del solito e la pelle pulita e brillante, su cui risplendevano una coltre di lentiggini, fitte come stelle in una notte limpida.

Stelle? Sul serio? Riprenditi.

Lo sguardo vagò altrove, ma finì per riposarlo su di lei ancora una volta. Tutta la desolazione degli ultimi avvenimenti sembrava essere stata messa in pausa, mentre lei masticava con voglia. Si sorprese a pensare che vederla mangiare era un'immagine felice, nonostante i modi non fossero dei migliori. A dirla tutta, era abbastanza sgraziata, ma chissà perché aveva tanta fame. Forse non era abituata a permettersi tutto ciò, o forse quel che si portavano dietro nella compagnia non era gran cosa. No, non lo era di certo. Non poté fare a meno di chiedersi per l'ennesima volta perché fosse partita con loro.

Che la vendetta le pesasse tanto era chiaro, ma il mondo avrebbe potuto darle molto più di quello. Si era ostinata a seguire il suo amico e la sua impresa di guadagnarsi qualche titolo, sulla scia di una questione sentimentale. Che cosa ridicola, folle e ingenua.

Che glielo avesse chiesto lui? Probabile, ma ciò ne faceva solo un tremendo egoista.

Per i quattro continenti, doveva smetterla di perdersi dietro a tali idiozie. Si era di nuovo distratto. Infilzò con una certa stizza il pezzo di cacio che aveva sotto il naso e se lo ficcò in bocca.

«Ma fu da quanfo fempo sai combaffere?»

«Come, scusa?»

Sollevò di nuovo la testa: lei roteò gli occhi e masticò più in fretta, impaziente, le guance le erano diventate due piccoli rubini. Le guardò il collo e scese più sotto, dove la pelle bianca stava diventando altrettanto colorata. Quella maledetta tendenza ad arrossire doveva smetterla di presentarsi, prima che lui perdesse del tutto il senno.

Alza gli occhi e guardala in faccia, subito.

Si diede una sberla mentale, mentre lei deglutiva e riprendeva: «Dicevo, da quanto tempo sai combattere? Voglio dire, te ne sei andato di casa a undici anni hai detto, no? Ma da solo? E già ti sapevi difendere?»

Ottimo, voleva fargli domande private. Che geniale idea, quella di sbottonarsi e darle l'occasione di provare curiosità.

«Sì, me ne sono andato da solo. E sì, avevo già dei buoni rudimenti, che poi ho affinato nel tempo».

Zafyr gli avrebbe rifilato almeno tre sessioni aggiuntive, nel sentirlo definire i suoi insegnamenti buoni, ma non c'era bisogno di scendere in troppi dettagli.

«Ah, capisco, e una volta che te ne sei andato cosa hai fatto?»

«Ho preso una spada in mano e mi sono arruolato, niente di strano».

«Nella cavalleria reale?»

«No».

Fece un respiro più profondo e abbassò la forchetta, tentennò ma finì per lanciarle l'ennesimo sguardo. Non insisteva. Si era rabbuiata appena, come pentita di aver chiesto troppo, e aveva ripreso a sbocconcellare il cibo con meno entusiasmo.

Sospirò di nuovo.

«Non ho iniziato con loro, no. Per tanto tempo ho girato come mercenario. Sono stato nominato cavaliere solo parecchi anni dopo, quando ho conosciuto il defunto Re, che mi ha assunto».

«Mi sembra una cosa onerosa, per un ragazzino».

«Non saprei, di certo era un compito particolare. A dirla tutta, da quando sono cavaliere il lavoro è diventato quasi più leggero».

Aveva cercato di infilarci una nota ironica, per sminuire la questione, ma lei sembrava non aver colto. Aveva abbassato del tutto le posate e guardava nel vuoto, le sopracciglia appena aggrottate e l'espressione pensierosa.

«Mi dispiace» fu tutto ciò che gli rispose.

«Per la domanda? Non fa niente, sono curiosità lecite, in fondo».

«No, non per la domanda. Mi dispiace per quello che ti è toccato, qualunque sia il motivo».

Fermò a mezz'aria il boccone che stava dirigendo verso la bocca. Lo addentò lentamente, senza il coraggio di guardarla. Lei continuò, la voce che si era abbassata e fatta più malinconica: «Mio fratello Cian si è arruolato quattro anni fa, per andare a servire lungo la frontiera con Pargylyos. Aveva solo quindici anni, me lo ricordo come fosse ieri».

«Conosco le guardie di confine. A Varkos, dove ho casa ormai da qualche tempo, siamo abbastanza vicini. Non è male, come compagnia».

«Sì, beh, lui era fiero della scelta fatta, e consapevole. Ma aveva paura, e il fatto di vederlo andare via da solo, senza poterlo più proteggere o stargli vicino, non è stato semplice. Non lo vedo da allora».

Rimase zitto. Perché si stava confidando? Che cosa si aspettava da una persona come lui, conforto? Lo aveva scambiato per il suo amico dai capelli rossi, o sperava di trovare una figura simile, ma lui non poteva e non voleva offrire niente del genere. Lei fece un gesto concitato con la mano e scosse il capo, prima di accennare una smorfia:

«Ma non importa, non era questo il punto. Volevo solo dire che conosco questa situazione e non posso immaginare come debba essere stato difficile, soprattutto a un'età tanto piccola. Quindi mi dispiace, ecco tutto».

Fawn riprese a mangiare, ma lui non ci riusciva. Non sapeva come elaborare nulla della conversazione assurda che stavano avendo: a lei dispiace. Nessuno si dispiaceva per lui, e nemmeno lo avrebbe voluto o se lo sarebbe aspettato. Non voleva fare pena e neanche instillare il dubbio che avesse sofferto, che volesse consolazione o rammarico. Sì, certo che era stato difficile, ma a lei che importava? Quando si era lasciato scappare certi dettagli? La confusione e il fastidio si dissiparono un po', mentre rimuginava: in realtà non lo aveva mai fatto. Non le aveva detto un bel niente e lei era arrivata a certe conclusioni da sola.

A lei dispiace, per me.

Senza motivo, senza preavviso e senza raziocinio. Cercò di fare finta di nulla, il minimo che poteva fare era non permetterle di notare quanto fosse in difficoltà.

«Comunque sembri esperto. Pensavo, ecco, che sarebbe utile per Lyam se tu potessi insegnargli qualcosa. Ovvio, se ti va, o se hai tempo... se non come favore, potremmo fare un patto. Puoi chiedermi qualcosa!».

Era questo a interessarle, che lui aiutasse quel poveretto a trovare un modo per sopravvivere a quell'impresa impossibile? Ma non si preoccupava mai di sé stessa?

«Non lo so, ci penserò».

Richieste del genere avrebbero dovuto farle prima di lanciarsi in idiozie più grandi di loro. Farlo durante la spedizione era assurdo.

Fu lei a parlare ancora, si era svegliata logorroica e ormai doveva essersi presa quella confidenza del tutto: «Senti, riguardo all'altra sera...»

«Mmh».

«Credi che siano state le stesse persone che ci hanno sconfitti un anno fa, e che ora stiamo cercando?»

Non aveva bisogno di chiederle a cosa si riferisse. Riuscì solo a stupirsi del fatto che lei stava riuscendo a parlarne, e provò paura all'idea di quello che probabilmente voleva sapere.

«Sì, temo che siano stati loro».

«Secondo te ce ne sono tanti altri? Ne avranno catturati altri? E usati, allo stesso modo di... di Darragh, ecco».

Quel ragazzo aveva un nome e lui avrebbe preferito non saperlo, ma si vergognò subito di averlo pensato. Se avesse potuto, sarebbe tornato indietro nel tempo per toglierle di dosso quel peso e metterselo sulle spalle. Invece gliene toccava un altro, persino peggiore: confermarle ciò che lui sospettava e che lei temeva.

«Sì, ho paura che ce ne siano altri».

«Perché Dylam... finora ho creduto fosse morto, ma la verità è che non l'ho mai trovato». Ormai la voce di Fawn era niente più che un sussurro.

Non si rivolgeva nemmeno più a lui, esternava solo a voce alta e spezzata la fine plausibile che poteva aver fatto il suo fidanzato. Quel ragazzo dalla famiglia terribile a cui, a quanto pareva, lei non riusciva a smettere di pensare. Non poteva rispondere a qualcosa di simile.

Calò un silenzio denso, appesantito dall'assenza di una qualsiasi speranza. Ogni scintilla che lei sembrava aver avuto da quella mattina era persa: non c'era niente che avrebbe potuto fare, neanche comprandole altri cinquanta saponi diversi.

Controllò che avesse finito sul serio di mangiare, ma era evidente che non avrebbe più toccato nulla, e la spronò ad alzarsi, senza curarsi di rendere il proprio tono meno freddo: «Muoviamoci, è davvero tardi».

*

Cavalcavano da un po' di tempo, ormai zitti, su un sentiero fiancheggiato da roccia e rari alberi smunti e dal colore tenue. Quella regione era bella, ma di una bellezza strana e quasi inquietante: la terra fine e chiara, la vegetazione rada, il cielo terso sopra di loro e il mare che sapeva essere ancora vicino. Per quanto non potesse vederlo, ne sentiva le dita di vento allungarsi verso di loro, scompigliando con leggerezza i capelli di Fawn. Li aveva intrecciati, nel frattempo, ma tante ciocche sottili fuoriuscivano dall'acconciatura e le danzavano intorno al viso. Ogni volta che l'ambiente intorno a loro pareva calmarsi lei si incupiva, ed era un'associazione troppo ovvia perché lui riuscisse a trovarci qualcosa di piacevole.

Il sole la illuminava solo per dargli un'immagine più nitida del dolore che provava. Non le stava bene, non la faceva brillare come avrebbe dovuto e quell'enorme distesa d'acqua gli aveva consegnato solo il ricordo di lei malinconica e affranta. Il freddo e umido clima di Agonos, si ritrovò a pensare, in realtà le si addiceva. Il vento sferzante e la pioggia frequente non ingannavano, si mostravano per ciò che erano davvero: nient'altro che meraviglie incomprese, come lei. Forse un po' buie e cupe, non adatte a chi non riusciva a reggerne l'intensità o il fastidio, ma vive. Sfidanti, quasi.

Agonos. La odiava da un tempo così lungo. L'aveva odiata e aveva creduto di poterle dire addio, prima di esserci rispedito e ricominciare a detestarla. Per la prima volta, il pensiero di quella regione e l'idea di poterci vivere sul serio gli apparirono meno infausti. Con lei avrebbe anche potuto farlo.

Smettila, cazzo.

Si fermò. Fawn aveva frenato Adel e sembrava agitata. Non era possibile che si fosse deconcentrato per l'ennesima volta. Cosa c'era, cosa aveva visto? Ma lei non sembrava in pensiero, tutt'altro, la bocca le si stava inarcando in un sorriso mentre guardava fisso di fronte a sé. La osservò scendere da cavallo e lanciarsi in avanti, con una corsa leggera.

Smontò anche lui, confuso e preoccupato. Percepì un suono strano, come un sibilo sul terreno. Trasalì e mise mano alla spada con prontezza, appena la vide venire raggiunta da una figura umana, che sembrò uscire dal nulla e schiantarsi contro di lei.

Si calmò quando capì che quello era un abbraccio, e la chiazza rossa che sovrastava Fawn era quella del suo amico egoista. I due non si staccavano e roteavano traballando da un piede all'altro, fusi in una sola entità, Lyam che sembrava non averlo nemmeno notato e lei scomparsa con il viso tra le sue braccia esili. Non li voleva guardare, ma si costrinse a farlo:

«Cos'è che non avete capito, riguardo al fatto di trovarvi in una compagnia militare?»

Il ragazzo si accorse fin troppo bene di lui e si scostò da Fawn, lanciandogli un'occhiata tremante. Non riusciva a sostenere il suo sguardo e si limitò a scusarsi abbassando la testa: «Sì, signore».

Lei sembrava interdetta e lo osservò con un fare stranito, le sopracciglia che si iniziavano a corrucciare, minacciose. Andava bene così, tanto sarebbe solo peggiorato.

«Che ci fai qui? Sei da solo?»

Un nitrito poco distante rispose al posto di Lyam. La schiera di cavalieri sotto il suo comando si avvicinava a loro, il passo sostenuto. Non appena furono abbastanza vicini da poterli scorgere nitidamente, riconobbe il volto familiare di Oisin in testa. Fu strano, ma la vista inaspettata di quella massa bionda e incolta e di quei due occhi azzurri, brillanti e forti al tempo stesso, lo rincuorò. Non glielo avrebbe mai confessato, ma era contento di rivederlo prima del dovuto. Si limitò a fargli un cenno, mentre il suo compagno di lunga data abbassò la testa nella sua direzione in segno di rispetto.

Il gruppo si fermò a una breve distanza, prendendosi lo spazio necessario per allargarsi in una schiera compatta e lineare ai lati di Oisin e degli altri arcieri. Il centro della formazione lasciava arrivare nuovi cavalieri, che si spostarono verso i lati man mano che altri ne giungevano. Rimase soltanto Talom, svettante e fiero a metà dell'allineamento, ma non ebbe modo di rallegrarsi nel vederlo: il suo secondo aveva un'espressione grave e trascinava con sé due uomini. Reggeva in una mano le funi legate intorno ai loro polsi. I graffi e il sudiciume che avevano addosso gli suggerirono che fossero arrivati fin lì a piedi, e che dovevano essere già crollati a terra parecchie volte.

Il problema era che li conosceva bene: Eamon, Cormak, e quello era un trattamento che Talom avrebbe riservato a una sola specie di soggetti.

Si avvicinò a lui e parlò a bassa voce, niente in quella situazione meritava che lui facesse gesti formali: «Cosa è successo?»

«Te lo diranno loro. Immagino che tu non abbia avuto una sosta tranquilla, a Kyma».

Iniziò ad avvertire i primi fiotti di rabbia salirgli lungo il collo.

«No, e di questo parleremo più tardi. Siamo stati attaccati da una delegazione sconosciuta».

«Qualcuno non è riuscito nel proprio piano, pare», e tirò la fune troppo corta con un colpo secco, mentre scendeva da cavallo. Eamon inciampò e Cormak cadde in ginocchio, con un gemito, ma il suo secondo non se ne curò.

Quello era un trattamento che Talom avrebbe decisamente riservato a un'unica specie di soggetti.

«Forse questi due traditori potranno spiegarti meglio come stanno le cose». Il fiotto si intensificò e Devon si accorse dei muscoli che si scioglievano. C'era sempre una calma che lo confortava, nell'attesa della tragedia, ormai la conosceva.

Talom lasciò le funi e prese per la spalla Eamon, costringendolo a terra a fianco del suo compare. Devon si chinò con lentezza e li guardò negli occhi entrambi, avevano l'aria sconfitta e si accorse che tremavano. Bene, era giusto così.

«Sono tutto orecchi. Cosa mi dovete raccontare, quindi?»

Non risposero. Lui sospirò.

«Non credo ci sia tanto tempo per pensarci. Abbiamo una tabella di marcia, vi prego di trovare le parole giuste in fretta».

Ancora nulla. Eamon chiuse gli occhi, Cormak no, li rivolgeva verso l'alto, in un misero tentativo di dimostrarsi fiero e convinto. Devon prese con le dita della mano sinistra, quella sana, la fronte del primo, schiacciò contro le palpebre e tirò verso l'alto, per costringerlo a guardarlo.

«La timidezza non vi fa onore, sapete».

Niente. L'aria era spezzata solo dal mugolio dell'altro uomo in ginocchio, che era aumentato in frequenza, mosso dalla paura. Ma a quanto pareva, non bastava.

«D'accordo. Avrei voluto essere gentile, ma qui c'è qualcuno che non si sbottona».

Sfilò dalla fondina un pugnale dalla punta aguzza, si alzò in piedi e andò alle spalle di Cormak. Tagliò la fune che gli serrava i polsi, afferrò una mano del traditore, lo costrinse ad aprirla contro il terreno e vi piantò la lama, dritta e perpendicolare, inchiodandolo a terra. Avvertì lo scricchiolio delle ossa trafitte.

Dovette alzare la voce, per colpa dell'urlo che si alzò dalla gola dell'uomo: «Noi ora ce ne rimaniamo qui, insieme, finché non ritrovate la voglia di parlare. Che ne dici?»

Afferrò l'elsa del pugnale e lo ruotò con lentezza. Si sollevò un altro grido, più forte. Eamon era ritornato a serrare le palpebre e tremava.

«Continuo a non sentire niente di utile, mi dispiace».

E la cosa iniziava a infastidirlo, parecchio. Non poteva ucciderli, non subito almeno.

«Perché non usiamo la ragazza? Non è a questo, che serve?»

Si girò di scatto verso il lato destro dei cavalieri. Non ebbe il tempo di alterarsi o capire chi avesse parlato, notò solo che entrambe le fecce avevano iniziato a tremare più forte. L'odore che gli arrivò alle narici gli fece capire che uno dei due doveva essersi urinato addosso. Talom gli si avvicinò: «So che non sei d'accordo, ma non è un'idea terribile, non possiamo rimanere qui tutto il giorno».

Lo zittì con un'occhiata feroce: «Prendi una maledetta torcia e fallo tu, se credi che ci serva questo!»

«Lo faccio io, non é un problema». Una voce più sottile.

Si bloccò. Fawn gli venne incontro e si fermò a due passi da loro, guardandoli dall'alto.

«Non c'è bisogno, nessuno ti ha ordinato di fare un bel niente».

«Perché ti impunti? Dobbiamo fare in fretta e mi avete portata per questo, ho sentito. Per me va bene».

Cosa c'è, nel concetto di dover ascoltare i miei ordini, che non arriva a questa testa bacata?

Si zittì. Era ridicolo ritrovarsi lì, davanti a tutta la compagnia, a litigare con lei che metteva in discussione qualsiasi cosa. Era l'ennesima delle cose assurde che si ritrovava a fare per colpa di quella dannata ragazza.

Lei non attese nessun gesto di assenso: Devon avvertì il calore che gli arrivò ai lati, e le urla di dolore di entrambi. Le fiamme durarono pochi secondi, loro rimasero a strillare mentre lei bloccava l'attacco, l'odore nauseante di carne bruciata che si sparse nell'immediato. Riprese la fiammata, la spense di nuovo. Andò avanti così per un'altra volta, prima che uno dei due, la pelle macilenta e segnata da piaghe vive, si decidesse a sbottare: «Il conte di Dunham. Abbiamo venduto informazioni agli uomini del conte di Dunham, lui è affiliato di Proteo... Lor- loro vogliono la ragazza».

Lo afferrò per i pochi capelli rimasti adesi allo scalpo e gli sibilò all'orecchio: «Perché?»

«Lo sanno. Sanno che è con noi, loro vogliono usarla... Avrebbero dovuto uccidere te, fare fuori la compagnia e catturare lei. Stanno radunando un esercito, vogliono soppiantare il Re. Intendono servirsi dei Misteri, per farlo».

Ne aveva abbastanza. Non la voleva nemmeno guardare. Non lo voleva vedere, l'ennesimo dolore e l'ennesimo buio a cui aveva permesso di strisciarle dentro, né come si fosse indebolita per farla pagare a due scarti del genere.

Si alzò e si lanciò verso la fila sinistra di soldati, diretto da Lorcan.

«Dammela», gli intimò, senza premurarsi di aspettare troppo. Afferrò a due mani, con un gesto rabbioso, l'accetta che il cavaliere si portava sempre dietro. Non meritavano che si rovinasse la spada, per loro.

Tornò indietro, spinse Eamon in avanti con un calcio nella schiena, sollevò l'arma e con un colpo deciso gli tranciò di netto la testa. Si udì il tonfo del cranio che cadeva a terra e rotolava per un breve tratto. Fece lo stesso con Cormak, ma non riuscì a staccargliela del tutto dal collo, solo a tagliarla abbastanza da far sì che penzolasse di lato e un fiotto di sangue schizzasse dal suo corpo per prenderlo in pieno. Lo ignorò e vi si accanì contro: uno, due, tre colpi, prima che quella carne putrida si comportasse come lui voleva. Anche la seconda testa cadde a terra, con meno velocità, qualche brandello minuscolo che ancora la teneva ancorata, vinto dalla gravità. Ciò che era rimasto dei loro corpi fumanti si inclinò a toccare il suolo.

Non si curò dei resti e si allontanò senza degnarli di uno sguardo, restituì la lama al proprietario. Risalì in groppa a Tory e tuonò: «Vedete di sbrigarvi, ce ne andiamo!»

Tutti si mossero con velocità per formare le fila abituali. Notò Fawn che imbracciava le redini di Adel e prendeva il consueto posto, nella sua stessa colonna.

«Tu! Cambi posto, da oggi. Scendi».

Lei rimase a fissarlo perplessa, gli occhioni smarriti e la faccia spaventata, come se stesse guardando un pazzo.

«Dove dovrei andare?» pigolò.

«Dietro, con le altre donne. Hai detto che sai cucire e usi la medicina, no? Muoviti, è un ordine».

«Lo avete deciso voi, di mettermi qua. A cosa dovrei servirvi, se non posso combattere?»

Finì per voltarsi di tre quarti verso di lei e irrigidire ancora di più il tono:

«Servi in un posto dove non puoi creare altri problemi. Cosa non ti é chiaro?».

Era fatta, le aveva detto la peggiore delle cose che non avrebbe dovuto farsi uscire di bocca. L'unica che poteva funzionare sul serio.

Lei si limitò a tacere, scendere da cavallo e allontanarsi con calma: «Sì, signore».


🦌🤎⚔️🔥

Che dire, nelle migliori storie d'amore bisogna fare scelte da completi idioti e comportarsi in maniera tale da soffrire come un cane.

Se ci aggiungiamo qualche testa che rotola per sfogarsi, un po' di sano orgoglio, gelosia repressa e paura di lasciarsi andare... ecco a voi il piccolo Devon.

Come? Ce lo ricordavamo nobile e gentile? Ma lo é ancora, in fondo, é solo un cretino patentato.

Sono curiosa: qualcuna/o sta cambiando simpatie? La nostra Fawn vi ha fatto cambiare idea?

E lui, invece?

Ah già, abbiamo qualcuno che vuole lui morto e lei rapita. Ehm.

Sono sempre qui per ricevere feedback di qualsiasi tipo, anche negativi!

E il prossimo pov, udite udite, non sarà di nessuno dei due, ma di qualcuno che abbiamo abbandonato capitoli e capitoli fa 💔🐸.

Baci, cerbiattini 🔥

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