24. (𝕱𝖆𝖜𝖓)
Fawn non si rese nemmeno conto di come erano giunti alla taverna. Per tutto il tragitto di ritorno non aveva avuto il tempo di pensare: lo aveva guardato appigliarsi alle redini di Tory con le mani livide e ricoperto da sudori freddi, e aveva tirato un sospiro di sollievo solo nel vederlo arrivare a destinazione e scendere da cavallo, ancora vivo. Riusciva a malapena a reggersi in piedi. Lo aveva trascinato fin dentro il locale tenendolo con le mani per il braccio sano, senza neanche sapere a cosa sarebbe servito. Non sarebbe mai riuscita a sostenerlo, casomai fosse svenuto, ma ci si era attaccata lo stesso.
Lui era diventato insospettabilmente zitto e calmo. Troppo, per quanto le sembrasse.
La taverna era semplice e prevedibile, uno spazio angusto nella penombra serale rischiarata da pallide candele di benvenuto, ma appariva pulito: ripeté a sé stessa che di certo avrebbero avuto dell'acqua di pozzo, lì vicino, doveva solo rovistare per bene nella propria sacca da viaggio e trovare quello che le serviva. Si poteva fare, niente di impossibile. Non curava una persona da tanto tempo, men che meno una indifferente al suo potere, ma ci sarebbe riuscita. Doveva.
Devon si appoggiò con entrambe le mani al legno scuro del bancone, con una certa pesantezza. Anche quel gesto la mise in allarme: era davvero sull'orlo di cascarsene per terra. Non si accorse di avere iniziato a stringere più forte il braccio, finché il comandante non provò a scostarsi da lei e a indicarle con la mano libera un punto alla loro sinistra. Diede una rapida occhiata, ma lo sentì muoversi e tornò con lo sguardo su di lui. Serrò la presa. Notò che non riusciva nel proposito, tremava cercando di reggersi con l'arto a cui lei era saldamente ancorata, ma doveva usare anche l'altro per non crollare.
Lo incalzò: «Cosa c'è? Riesci a parlare?»
«Il proprietario...»
«Ora lo chiamiamo, deve essere qui da qualche parte, ne sono sicura. Riesci a reggerti da solo? Vado a cercarlo, vado...»
«La campana...»
«La campana?»
«C'è una dannatissima campana, laggiù! La vedresti, se mi mollassi!»
Spostò la testa: la campana appesa al muro laterale, a sinistra. Ecco cosa le aveva indicato, giusto. Fece per sporgersi nella sua direzione, ma si bloccò quando capì che avrebbe dovuto lasciare la presa. L'occhiata di lui bastò a convincerla e si allontanò. Si attaccò alla campanella con entrambe le mani e agitò la corda che penzolava da essa con una certa forza, il tintinnio metallico risuonò per l'intera stanza. Il tonfo secco di una porta che sbatteva e l'incedere pesante di passi lungo le scale che li sovrastavano, e apparve la figura possente e inferocita di una donna.
«Chi osa fare un tale baccano a quest'ora della notte? Siete del tutto impazziti? Ci sono delle persone che dormono, nel mio esercizio!»
Arrossì leggermente, ma non si lasciò abbattere.
«Mi scusi, è una specie di emergenza. Abbiamo bisogno di una stanza e di acqua pulita!»
«Due. Due stanze, mia signora. Molte grazie».
Era davvero sottile, quella voce, per tutti i fulmini. E riusciva ancora a preoccuparsi dei modi da usare?
«E acqua pulita! Subito!»
Guardinga, la donna li scrutò entrambi, soffermandosi sulla figura del comandante e dell'aspetto terribile e malconcio che aveva, oltre che sul fatto che non riuscisse a tenersi dritto. Alla vista delle monete d'oro che lui le allungò, fin troppe per affittare due semplici letti di quel tugurio, scelse di rimanere in silenzio, ficcarsele in tasca, afferrare un paio di piccole chiavi arrugginite da una fondina stretta in vita e poggiargliele sul banco, per poi fare un cenno con la testa verso l'alto.
«Primo piano, a sinistra. Le stanze che trovate in fondo al corridoio sono libere, verrò tra un minuto col catino. Sei sicuro di riuscire a salire, bello?»
Di tutta risposta, Fawn agguantò le chiavi, ritornò ad afferrare il braccio sano di Devon e lo spinse con decisione verso la direzione indicata. Scalino dopo scalino, lui mugugnò a voce bassa, il respiro che si faceva sempre più pesante e l'altra mano che si reggeva alla parete del vano scala, ma non lo sentì mai fermarsi o indietreggiare.
Non appena riuscì ad aprire la porta della prima camera, lasciò che Devon entrasse e si sedesse senza emettere un suono, sul letto posto al centro. Si tolse in fretta la sacca dalla spalla, la poggiò sull'unico mobile contro il muro laterale e la aprì, alla ricerca di tutto il necessario. Era certa di avere con sé il manuale, quanto alle foglie... pregò di non aver finito le scorte senza ricordarsi di rifornirle, o di non aver perduto niente per strada.
L'ultima volta in cui aveva dovuto usare il proprio arsenale apparteneva a una vita precedente, ormai. Nella nuova non c'era più spazio per la meticolosità con cui si era sempre dedicata a quella sua amata attività. L'unica che l'avesse sempre fatta sentire utile e viva. L'unica cosa in cui le sue fiamme la potevano far sentire giusta. Le fiamme, sì, sempre loro.
Le fiamme e la loro violenza. Darragh, incenerito senza pietà. Dylam e la madre, l'abominio che lei era sempre stata. Le fiamme che invadevano la sua casa, Bryanna che urlava. Lo sguardo pieno di dolore di suo padre...
Ritornò a cercare, si era lasciata distrarre. Il tempo per rammaricarsi di sé stessa non lo aveva, c'era ancora qualcuno da proteggere. Non sarebbe servito a cancellare gli altri, ma in quel momento era l'unica priorità. Tastò qualcosa di liscio e compatto al fondo della borsa.
Tirò fuori il piccolo manuale nello stesso momento in cui la proprietaria fece l'ingresso in stanza con un catino pieno d'acqua. Nel girarsi per ringraziarla, notò Devon steso sul letto, ormai incosciente: aveva cercato di spogliarsi e di mettere via mantello, placche di cuoio, giunzioni metalliche e la spada, ma si era fermato alla camicia prima di svenire del tutto.
«Senti, non voglio casini, qui. Se muore, vedi di liberartene tu. Non lasciarmi con questo fardello, sono stata chiara?»
Si alzò con ancora il libricino in mano e si lanciò su di lui, rispose alla donna nel momento esatto in cui lei chiuse la porta e li lasciò da soli: «Lui non muore».
*
Aveva deciso che non sarebbe morto, ma non si era aspettata di trovare una ferita contaminata dal veleno. Una semplice sì, una che avrebbe potuto pulire e ricucire, prima di preparare un classico decotto rilassante e lasciarlo dormire fino a mattina.
Il veleno che quei bastardi avevano deciso di spargere sulle spade non solo non lo aveva previsto, ma non lo sapeva identificare con certezza. Ne aveva intuito la natura non appena era riuscita a levare la camicia al comandante, non senza fatica e non senza sentirsi una spregevole megera che tentava di spogliarlo contro la sua volontà.
Persino quel barlume di imbarazzo era stato cancellato dalla visione del taglio, bluastro e dai contorni purulenti, ben lontano dall'aspetto di un normale colpo di punta.
Ferite velenose ne aveva già incontrate e le aveva anche affrontate, sulla coscia di Fynn per l'esattezza, oltre a un paio di graffi che Gwen si era fatta nel bosco, e sapeva di poter creare qualche antidoto generico: lo avrebbe spalmato e avrebbe atteso di capire se potesse bastare. Il vero problema era che non ricordava un accidente, che non aveva idea di quale pianta avesse usato, che non sfogliava quel suo libro da tempo immemore e che era agitata.
Si ripeté che doveva darsi una calmata: aveva già pulito la ferita, dopo aver riscaldato l'acqua portata dalla proprietaria, e aveva notato come per grazia divina il colpo di spada avesse colpito più in basso di quanto le era sembrato. Non era mortale e non aveva reciso nessun vaso grosso, quelli che lei amava chiamare "a fontanella". Le prime pagine del suo personale manuale medico riportavano il brutto e incerto disegno di una ferita da cui schizzava sangue a spruzzo, colorato in rosso carminio, a cui aveva affiancato l'immagine di un teschio, per rendere meglio il concetto.
Il veleno della ferita di Devon ritardava la chiusura del taglio, da cui continuava a fuoriuscire sangue, ma da vicino aveva notato come sgorgasse lento e scuro. In condizioni normali una ferita del genere si sarebbe richiusa senza farlo morire. Doveva solo trovare la soluzione al più presto. Lui respirava ancora, ogni tanto ne monitorava il movimento del petto. Continuò a rigirare le pagine del manuale con una mano, l'altra impegnata a schiacciare una pezza contro la ferita, forte. Doveva ricordarsi di lavarla, una volta fuori da lì. Ne aveva soltanto due.
Ancora un'altra pagina, si ripeté di restare concentrata. Il disegno di una fronte umana e delle fiamme, rimedi per la febbre, no. Un uomo che rimetteva un contenuto verdastro dalla bocca, fin troppo nitido, lì era stato Lyam ad aiutarla coi disegni, ma no...
Una ferita blu. Una ferita blu sulla coscia, il disegno di un serpente lì a fianco, l'illustrazione della foglia a grandi dimensioni sulla stessa pagina... Eccolo.
Lo aveva trovato. Ebbe un piccolo sussulto, ma rimase attenta e studiò l'immagine che aveva creato: una foglia larga a bordi frastagliati, che nasceva panciuta e si richiudeva su una punta sottile, la superficie attraversata da tante insenature.
Tolse la mano dalla pezza, indietreggiò e aspettò di vedere se il sangue si fosse fermato un pochino, sembrava di sì. Devon era ancora incosciente, ma si era mosso e aveva esalato un gemito leggero. Si alzò in piedi, il libro ancora nell'altra mano, e si spostò sul mobile contro la parete, dove aveva lasciato la propria sacca. Tirò fuori il contenitore in pelle in cui nascondeva boccette e sacchetti e li esaminò uno alla volta. Era certa di avere ancora qualcosa, il destino non avrebbe potuto abbandonarla proprio in quel momento. Trovò quanto le serviva, ma erano solo due foglie. Sperò che bastassero e si accinse alla preparazione.
Sfogliò la pagina dedicata e ne guardò il retro, dove aveva disegnato le indicazioni successive. Maledisse la propria incompetenza artistica e il fatto di non aver chiesto a Lyam ancora più aiuto. Si accinse comunque a interpretare la propria scrittura: l'immagine di un cucchiaio premuto contro la foglia, un paio di gocce colorate di verde, il disegno di un bicchiere d'acqua e di un fuoco, delle piccole bolle su cui aveva delineato una grossa striscia nera diagonale.
Schiacciarla, estrarne il contenuto, miscelarlo e riscaldarlo, evitando che arrivasse a bollore. Ma quanta acqua usare? Lei aveva disegnato un bicchiere pieno a metà, e l'unico riferimento poteva essere quello delle stoviglie di casa, di cui ricordava pressappoco la dimensione. Aveva un paio di boccette di vetro, poteva svuotarle e usarle. E aveva un pugnale, l'avrebbe usato per schiacciare le foglie...
Tutta l'operazione durò più di quel che si sarebbe aspettata, mentre la concentrazione che usò nel non sprecare quelle due uniche foglie salvifiche le strizzò la mente al punto da farle venire un giramento di capo. Si concesse un profondo respiro solo quando l'intera miscela fu nella sua mano, tenuta grazie a un lembo del proprio corpetto di cuoio che la separava dal vetro rovente, una fiamma levitante sotto la boccetta a riscaldarne il contenuto. La spense quando vide che la superficie iniziava a incresparsi; dunque prese l'altra pezza pulita che aveva portato, l'ultima.
Quando la posò sul taglio del comandante, imbevuta di antidoto, e vide pian piano i contorni bluastri sfumare, la ferita smettere di suppurare e il sangue di sgorgare, non riuscì a trattenere un sorriso. Largo e fiero, lo stesso che aveva provato ogni volta in cui quell'insieme di azioni, tanto lontane e tanto simili alla magia, l'aveva portata alla coscienza di aver aiutato una persona.
Non ricordava nemmeno più quanto la facesse felice. Quanto le permettesse di sentirsi meno sbagliata.
Il comandante fece un paio di respiri più profondi, il torace si alzò e si abbassò. Si stava riprendendo, forse di lì a poco si sarebbe anche svegliato da solo, ma era inutile ritardare il momento di suturarlo. Di sicuro per lui non sarebbe stata la prima volta, forse era abbastanza avvezzo da riuscire a stare fermo.
Si avvicinò con il volto alla ferita e la scrutò: il sangue aveva smesso di sgorgare, eppure pensò a come sarebbe stato utile, in effetti, se avesse potuto chiudere quel vaso come faceva con tutti gli altri, per essere davvero certa che non si sarebbe riaperto...
Un guizzo minuscolo, un lampo che le uscì dagli occhi senza che neanche lo avesse richiamato consapevolmente. Un rivoletto di fumo si innalzò dal taglio.
Restò di sasso.
Rimase a fissarlo con gli occhi sgranati, impietrita. Settimane intere senza che nulla del suo potere lo avesse mai potuto toccare, certa che quell'immunità fosse totale e permanente, e d'un tratto quello.
Ci deve essere una spiegazione, non posso essere impazzita all'improvviso. Forse è solo una questione di energia. Sì, di sicuro. Lui è stanco, ferito, incosciente... Deve aver affievolito la capacità di contrastarmi, non c'è un'altra motivazione valida.
Le considerazioni si mescolarono ai ricordi. Lui le aveva detto di non avere alcuna coscienza di quella capacità di difesa, e gli era sembrato così sincero che non aveva potuto fare a meno di fidarsi per la prima volta. Che avesse detto la verità?
Forse lei aveva solo voluto crederci. Aveva voluto convincersi che ci fosse qualcuno che non aveva paura di lei, con o senza protezione. Il comandante non si era mai sottratto, non l'aveva mai allontanata e non era mai stato intimorito, e se sul serio non sapeva nulla di quell'immunità... ma no, era solo una cretina, a non dubitare.
Lasciò perdere. Anche Dylam le era stato vicino, più di chiunque altro, e non l'aveva potuto fare se non provvisto di un mezzo che la contrastasse. La attraversarono per un secondo le immagini dei loro corpi nudi, avvolti da piccole fiamme scalpitanti e getti d'acqua che si incontravano per accarezzarsi a vicenda. Le incendiarono la mente. Le ricacciò indietro, quella stanza era fin troppo silenziosa e lei fin troppo provata dagli eventi.
In ogni caso, non aveva ancora finito. Si allontanò ancora una volta da Devon e si diresse al mobile: prese un lungo ago dalla bisaccia, insieme a un filo che si trovava nella tasca interna. Recuperò un paio di piccole foglioline rossicce e secche da uno dei sacchetti di pelle e ritornò dal comandante. Sbriciolò con due dita le foglie, finché ne rimase solo una polvere adagiata ai polpastrelli, e iniziò a passarla su entrambi i lembi della ferita. Quell'effetto anestetico lo aveva scoperto grazie a un forestiero passato per Moorbury anni prima, ma era blando. Sarebbe comunque stato meglio di niente.
Prima di svegliarlo, prese un lungo respiro.
Indugiò per un attimo su di lui: finalmente calmo, appariva talmente vulnerabile e docile da risultargli quasi estraneo. Lo sguardo vagò per un momento sul resto del corpo di Devon, sulle braccia lunghe distese e rilassate, sul viso che non aveva mai visto in quella posa fin troppo pacata. Se non fosse stato per l'imponenza dei muscoli che le guerre gli avevano provocato, indurendone tanto il fisico quanto lo spirito, sarebbe potuto sembrare solo un bambino molto cresciuto. Prima di sentirsi una totale idiota e invertire la rotta dei propri pensieri, l'occhio le cadde sulla densità di cicatrici che fino a quel momento non aveva notato. Era ovvio, quasi normale che un uomo del genere ne avesse accumulate così tante, ma non fu quello a stupirla... molte avevano un aspetto normale, provocate da un tocco grezzo: alcune ormai bianche, altre rossastre perché recenti, ma accomunate dalla palese fretta di un intervento sul campo.
Però c'erano anche quei segni, meno visibili ma così strani: una tela fitta composta da sottili linee rosate, dai bordi netti e la superficie liscia, tanto da non sembrare cicatrici ricucite da mano umana. Si ritrovò a pensare che nemmeno una presa esperta e precisa avrebbe potuto creare simili guarigioni. Le aveva rivelato di essere un nobile, e di sicuro nella propria vita aveva ricevuto cure dai migliori del regno, eppure... Eppure tutto stonava. Le aveva confessato di essersene andato di casa a una così giovane età, e nessun bambino avrebbe avuto motivo di essere ferito tanto spesso.
Tu covi più segreti di me, non è vero?
Allungò un dito, nel desiderio di seguirne il percorso: si inerpicavano come tanti fiumiciattoli, di un colore appena più chiaro della cute, creando un disegno di inusuale bellezza sotto alla violenza cruda che forse nascondevano. Tornò in sé prima di accarezzarlo davvero, spostò appena la mano e la lasciò ricadere sulla spalla di Devon.
Lo agitò lievemente, per svegliarlo e togliersi di dosso quel compito infausto. Non sarebbe mai riuscita a ricucirlo a quella maniera, che non sembrava appartenere al mondo dei mortali, ma ci avrebbe provato.
*
Si era appena riaddormentato.
Era riuscita a finire il lavoro e lui era stato fin troppo docile. Chissà quante volte si era già sottoposto a uno strazio del genere, ma nonostante tutta la sofferenza che gli traspariva dagli occhi, era rimasto fermo. Fawn aveva tentato di spicciarsi per non provocargli troppo dolore, mandando al vento tutti i propositi di fare una cucitura raffinata e che non desse segni troppo visibili. Infine, aveva tirato fuori dalla sacca delle foglie di valeriana e gli aveva preparato l'ennesimo decotto.
Era stanca, ma si attardò ancora per lavarsi le mani. Forse avrebbe dovuto riordinare il libro, le piante e gli strumenti, ma era ormai notte fonda, ci avrebbe pensato il giorno successivo. Diede solo uno sguardo a ciò che le era rimasto dei propri averi erboristici: ben poco, a dire il vero. Le curatrici di certo avevano scorte importanti, con sé, ma non le sarebbe mai venuto in mente di chiedere nulla. Chissà se avrebbe trovato il modo di fermarsi da uno speziale.
Si asciugò le mani contro i pantaloni, ormai non aveva alcuna pezza pulita. Nel notare i vestiti madidi di sudore, sangue e terra, pensò a come avrebbe dovuto approfittare di quella sosta per darsi una sistemata.
Lui portava con sè fin troppo oro, una moneta in più o in meno non gli sarebbe costata nulla. Era anche un duca, che si fottesse.
Fece più silenzio possibile e frugò nelle tasche del mantello da cui gli aveva visto cacciare fuori il borsello. Ne trafugò giusto due monete grandi quasi quanto il proprio palmo, e concedendosi un sorrisetto fugace se le infilò in tasca.
Si diresse alla porta. La sua camera era quella a fianco, così aveva detto la proprietaria.
Indugiò. Sarebbe stato sicuro lasciarlo lì? In fondo poteva chiamarla, in caso di bisogno, o no?
Mentre la gravità di tutto quello che le era accaduto da quella mattina le calò addosso, le stesse immagini tornarono a grattarle la memoria. Cenere, fiamme, l'urlo di Darragh sotto l'elmo rovente. Cenere, fiamme, suo padre.
Si girò. Si disse che in fondo lo faceva per lui, aveva sprecato ore preziose della propria vita a salvargli la pelle, avrebbe potuto sviluppare qualsiasi cosa durante la notte: la ferita sarebbe potuta peggiorare, lui delirare o farsi venire la febbre.
Chiuse a chiave la porta, con una doppia mandata. Si guardò attorno: la panca di legno poggiata sotto la finestra della stanza pareva scomoda, ma non poteva esserlo più del pavimento freddo su cui si accampavano di solito.
Afferrò prima il proprio mantello, poi un cuscino dal letto su cui giaceva Devon. Si sdraiò sulla panca e piegò le gambe, troppo lunghe per il giaciglio che si era scelta. Si strinse come un riccio, su sé stessa, spense le candele con uno sguardo e lasciò che il sonno scendesse su di loro.
🦌🤎⚔️🔥
Cerbiattini, non so cosa ne sia uscito di questo capitolo. Ammetto di averlo scritto in piena notte, in preda ai bollori di un'ispirazione selvaggia, e che solo a mattino successivo io mi sia reso conto di essere stata un pelo incasinata...
Come la testa di Fawn, d'altronde.
Ma se avessi esagerato, fatemelo presente xD
Che commentare? Ditemi voi, che sta succedendo alla nostra piccola rompiscatole?
Attrazione o solo voglia di redimersi?
Chissà.
Sì, sì, del belloccio sotto i ferri sta arrivando un pov... u.u
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