20. (𝕷𝖞𝖆𝖒)
Era tremendamente su di giri.
Sudava come un matto e il suo cuore non accennava a rallentare, nonostante avesse tentato di calmarsi cambiando posizione più volte: prima si era seduto, poi aveva scelto di camminare avanti e indietro per la stanza, infine aveva deciso di sdraiarsi sulla branda. Ci rimase giusto un paio di secondi, prima di rialzarsi di nuovo. Ripercorreva nella mente ciò che aveva visto: due uomini, cavalieri del suo stesso gruppo, che si scambiavano sussurri concitati. Uno dei due diceva all'altro che l'appuntamento, di qualunque appuntamento si trattasse, si sarebbe svolto all'alba alle scuderie del villaggio, e che dovevano fare in fretta.
A preoccuparlo era il tono cospiratore che avevano usato, i loro occhi che si spostavano guardandosi attorno di continuo, le parole evasive che avevano pronunciato.
Loro non lo avevano notato, ne era quasi certo. La taverna a quell'ora era vuota: tutti i cavalieri erano via, nel campo appena fuori dal villaggio in cui si allenavano per ingannare il tempo nell'attesa del loro comandante. Solo lui era tornato indietro, colpevole di essersi dimenticato gli spallacci nella stanza. Avrebbe anche potuto farne a meno, non si sarebbero serviti di armi vere. Tuttavia, il ricordo del dolore e dei lividi che gli altri soldati gli avevano già lasciato addosso l'aveva convinto a vincere la sua timidezza; aveva chiesto a Talom di lasciarlo correre indietro per riprenderli. Farò più in fretta di quanto vi aspettiate, gli aveva detto, e per forza di cose lui gli aveva creduto.
Sulla soglia della stanza, sul punto di aprire la porta per andarsene, aveva udito nel corridoio due voci basse e profonde. Riconosciuto in quel tono qualcosa di familiare aveva socchiuso appena il pesante infisso di legno, quel che bastava per sbirciare fuori senza farsi scorgere. Per quanto ricordasse dalle veloci presentazioni che si erano scambiati, quei due volti rispondevano ai nomi di Cormak e Eamon. Era convinto del primo: era uno degli uomini che si erano fatti avanti per contestare Devon giorni prima, quando avevano parlato della deviazione richiesta da Fawn. Era meno sicuro del secondo.
Di indubbio c'era che nulla in quell'avvenimento gli sembrava di buon auspicio, e lui si ritrovava dilaniato. Come avrebbe dovuto agire? Farsi i fatti propri, probabilmente, ignorare il tutto e tornare all'allenamento e agli impegni giornalieri come se nulla fosse successo. La verità era che quel gruppo di soldati lo terrorizzava a morte.
Era grato al destino per avergli concesso ancora una volta di avere Fawn con sé: in sua assenza, nonostante non fosse trascorso ancora molto tempo, si sentiva perso e debole. Era senza dubbio un codardo. Un fragile e insignificante ragazzo, indegno di essere chiamato uomo.
Senza di lei non aveva mai mosso un singolo passo: il fato l'aveva posta sulla sua strada dal primo momento, quando aveva scelto di lanciarsi all'avventura, abbandonare per sempre l'orfanotrofio in cui era cresciuto e cercare il gruppo di ribelli, da cui aveva sperato di ottenere riscatto, gloria, persino amicizia. Quella che non aveva mai trovato neppure tra i suoi simili, in costante fuga da chiunque fosse più grande e forte di lui, come un topo impaurito. Quel potere era davvero la peggiore delle ironie che gli fossero capitate: inutile per qualsiasi cosa tranne che aiutarlo a scappare di continuo.
Aveva conosciuto Fawn prima ancora di arrivare da loro, due anni prima. Senza di lei il suo proposito coraggioso si sarebbe estinto in un battibaleno e nessuno si sarebbe mai ricordato di lui: un ragazzo morto ridicolmente, assalito da un gruppo di briganti nel bosco mentre cercava qualcosa di troppo audace per le sue capacità. Quella ragazza misteriosa che vagava senza meta era comparsa dal nulla e l'aveva difeso, senza neanche pensarci. Era nato tutto lì: lui le aveva parlato della sua destinazione e lei l'aveva seguito, senza più lasciarlo. Persino dentro al gruppo dei ribelli non si era guadagnato il rispetto con le proprie forze: lei lo aveva scortato come un mastino funesto, proteggendolo e interponendosi contro chiunque avesse osato attaccarlo o ferirlo. Era diventata la sua prima vera amica e l'unica persona, oltre a sé stesso, di cui gli fosse mai importato. Prima di Idalia, almeno.
Sospirò.
Lei non glielo aveva confessato, ma sospettava che dietro alla scelta di Fawn di seguirlo ancora ci fosse Idalia. Come poteva biasimarla? Era solo un mezz'uomo, di fianco a lei, e non si capacitava ancora del perché una fanciulla del genere avrebbe dovuto sceglierlo. Non era geloso, non temeva che lei avrebbe davvero voluto unirsi a Devon o essere corteggiata da lui, anche prima che lei si sperticasse a rinnovargli i suoi sentimenti. Era solo impaurito a morte, sconfitto in partenza da un paragone che non aveva senso di esistere. Si era dimostrato caparbio, testardo, aveva sopportato tutto il dolore e la fatica e si era incaponito nel voler partire, ma aveva paura. Tutti i giorni.
Avrebbe barattato l'intero potere che possedeva per un briciolo della prestanza del comandante o di uno qualsiasi di quei cavalieri, anche l'ultimo. Gli sguardi con cui lo giudicavano e lo deridevano non erano niente di nuovo, ma stavolta avrebbe dovuto trovare il modo di agire da solo.
Fawn non poteva guadagnare un titolo al posto suo, non poteva aiutarlo e non poteva difenderlo. Si armò di coraggio e decise: avrebbe seguito quei due figuri, all'alba.
Qualsiasi cosa tramassero era arrivato il momento di comportarsi da cavaliere. O se non altro, da topo travestito da cavaliere.
*
Si svegliò da solo perché in realtà non aveva dormito. Appena il cinguettio dei primi uccellini fuori da lì gli arrivò alle orecchie si alzò in silenzio e in fretta. Condivideva la stanza con altri tre cavalieri, ma grazie al cielo quella sistemazione momentanea aveva messo una pausa alle loro guardie notturne, e loro russavano sonoramente. Dalla sua aveva la capacità di usare frazioni della propria energia per velocizzare qualsiasi movimento, compresi quelli più fini. In appena mezzo minuto fu nel corridoio, vestito. In altri venti secondi fu fuori dalla locanda: sgusciò nella luce bluastra della notte che volgeva al termine come un fantasma, un'ombra scorrevole. Chiunque si fosse affacciato avrebbe visto delle strisce di colore che si spostavano nel vento e nulla più.
In due minuti al massimo fu alla scuderia. Non aveva percorso una distanza considerevole, sentiva la propria energia ancora salda e piena dentro di sé. Cercò un punto in cui posizionarsi senza essere visto, in attesa dell'incontro.
Entrò nella costruzione in legno e con calma sfilò in mezzo alle due file di stalli prima di trovarne uno vuoto. Il pannello di chiusura era mobile, avrebbe dovuto fare attenzione a non emettere alcun rumore. Vi si richiuse dentro, accucciandosi per non essere visto da fuori. Si posizionò su un cumulo di paglia in modo da non toccare terra e non dare cenno della sua presenza. Si sentì un completo idiota, raggomitolato in un nascondiglio fin troppo sciocco per funzionare, ma attese. Entro pochi minuti il cigolio della porta d'ingresso e il suono cadenzato di più di un paio di piedi gli fecero intendere che qualcuno era entrato.
«Siete sicuri che nessuno vi abbia seguiti?». Una voce roca che non riconobbe.
«Sono stato molto attento, alla locanda tutti dormono e lungo il tragitto solo calma piatta.» Una delle due voci della mattina precedente, a giudicare dal timbro poteva essere Eamon.
«Beh, facciamo in fretta. Quali notizie porto al mio padrone?»
Un attimo di silenzio prima che un'altra voce, quella di Cormak, rispondesse con un sussurro appena udibile:
«Il comandante è partito alla volta di Kyma, avete la nostra parola, lo troverete lì. Con lui, la strega che vi serve.»
«Come posso fidarmi di voi? Chi mi dice che questo non sia un tentativo di gettarci nelle braccia di un agguato?» disse ancora la voce roca.
«Potete farlo come non farlo, non credo abbiate molta scelta. In un incontro ad armi pari non avreste la meglio facilmente e il vostro capo questo lo sa bene, o sbaglio? Vi stiamo offrendo due piccioni con una fava.»
«Ne va della nostra testa, quindi farete bene a non deluderci.»
Avevano parlato sia Eamon che Cormak, non riuscì a distinguerli con chiarezza tra loro. L'uomo ignoto replicò ancora: «A ciascuno il proprio compito, cavaliere. Vi assicuro che i nostri uomini sanno il fatto loro... Porterò l'informazione a chi di dovere, se tutto andrà come deve riceverete mie notizie e potrete accodarvi a noi. Altrimenti, che il vostro orgoglio vi assista.»
Udì un tintinnio, come di piccole monete che cadevano l'una sopra all'altra, il fruscio di un oggetto di pelle che veniva tirato, forse un borsello. Altri passi, movimenti di vestiti che strisciavano tra loro. Fu di nuovo Eamon a parlare: «Se volete che il piano funzioni, dovete muovervi... Non sottovalutate quei due, soprattutto il nostro comandante.»
«Hai ancora il fegato di definirlo vostro comandante? Tra tutti i traditori che ho conosciuto, voi reali siete i peggiori.»
La voce roca si perse in una risata di scherno che andava allontanandosi: Lyam intuì che tutti e tre si stavano mettendo in moto per uscire da lì. Preso dall'agitazione si mosse dal suo giaciglio. Il movimento della paglia che si spostò sotto di lui fu sufficiente a interrompere quei passi. Maledisse sé stesso non appena capì che i tre uomini si erano fermati, insospettiti. Sarebbero presto tornati indietro e l'avrebbero trovato lì.
Approfittò di quel secondo di silenzio per lanciarsi fuori dallo stallo con tutta la velocità che riuscì a usare: strisciò al di sotto del pannello divisorio e si portò in quello a fianco. Si appiattì contro la parete, il deretano del cavallo di fronte a lui che minacciava di schiacciarlo al minimo movimento. Smise di respirare, mentre sentiva la porta mobile del precedente spazio aprirsi di schianto.
Ringraziò tutte le divinità di quel regno e degli altri per la sua costituzione esile, mentre rimase appiccicato alla parete sudicia per quelle che gli parvero ore. Fu solo dopo un po', quando il silenzio spettrale in cui riversava la stalla gli garantì che se n'erano davvero andati, che si accasciò a terra. L'animale di fronte a lui si accorse della sua presenza e nitrì infastidito, prima di emettere una rumorosa flatulenza che lo colpì lasciandolo disgustato. Sgusciò fuori il più in fretta possibile.
Solo nel corridoio della scuderia si rese conto di essere fradicio. Sudava copiosamente dall'inizio della conversazione che aveva origliato, e il tamburellare del suo cuore e il respiro affannoso non gli diedero tregua: realizzò tutto e capì di non avere scelta, doveva intervenire. Devon era in pericolo, l'intera missione era in pericolo, Fawn era in pericolo.
Ma cosa fare? Avvisare Talom e Oisin? Rischiare di mettersi alla mercé di quei traditori? E se ce ne fossero stati altri? Sarebbe morto prima ancora di poter avvisare la sua amica.
Poteva correre. Correre a perdifiato per raggiungerla e avvisarla, ma a che sarebbe servito? Stavano preparando un attacco, che contributo avrebbe mai potuto dare loro, da solo?
Si inginocchiò a terra, disperato.
Si rialzò, in preda a una vaga consapevolezza: doveva comportarsi da cavaliere del Re, punto. Non da amico di Fawn né da ribelle, aveva giurato sulla corona stessa e doveva dimostrarsi degno. Percorse tutta la strada che lo separava dalla locanda senza usare un briciolo di energia, le viscere che si contorcevano all'idea di quello che stava per fare, di come rendersi credibile di fronte agli occhi di quei capi in seconda che lo terrorizzavano quanto e ancor più di Devon.
Poco davanti l'ingresso della taverna, nella piazzetta della cittadina, seduto su una panca e intento a rovistare col naso dentro a un libro consunto, notò la figura esile e stralunata di Yrim. I lunghi capelli biondi erano sciolti, rilucevano come nastri argentei sotto la luce del primo sole. Era l'unico essere della spedizione inutile e fragile quanto lui. Lo ignorò, puntando dritto verso l'ingresso: tutti gli uomini dovevano ancora trovarsi dentro, intenti a far colazione. Fu interrotto dalla voce squillante di quel tale:
«Ragazzo mio, hai un'aria davvero pessima. È forse morto qualcuno?»
Rimase un attimo interdetto. Non aveva ancora scambiato molte parole con lui, ma sapeva degli interrogatori che Fawn si era buscata mentre cercava informazioni. Cercò di liquidarlo in fretta:
«Buongiorno a te, cosa ci fai già fuori? Il resto della cavalleria è dentro? Sto cercando Talom.»
«Talom non è qui, caro, è stato richiamato in città pochi minuti fa insieme a Oisin, suppongo abbiano qualche questione da sbrigare. Tornerà presto.»
«Sai dove sono andati, di preciso? È una questione urgente, di vitale importanza.»
«Ti vedo parecchio scosso, ragazzo, sei sicuro di sentirti bene?»
«Io...»
«Ti ascolto, se vuoi.»
Non ce la fece e crollò. Guardò quei due occhi celesti pieni di apprensione e scelse di vederci onestà: era al servizio di Idalia, del Re, Fawn stessa si era fidata, e lui aveva un disperato bisogno di trovare un'anima amica. Non aveva i nervi di cavarsela da solo, era inutile. Si sbottonò e raccontò tutto a Yrim, alla luce del sole, sollevato dal poter condividere il suo fardello opprimente con qualcuno.
🦌🤎⚔️🔥
E insomma, pare che le paure di Devon circa possibili tradimenti non fossero poi tanto infondate.
Ma soprattutto, che ne sarà del povero Lyam e di tutta la sua incapacità a rendersi degno? Pare essersi davvero imbarcato in una missione suicida, da cui dovrà venire fuori, in un modo o nell'altro :)
Ovviamente questo scorcio è precedente rispetto all'arrivo di Fawn e Devon a Kyma, spero si comprenda anche in assenza di chiarimento.
Che sarà successo, di là?
Datemi pure feedback :)
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