19. (𝕯𝖊𝖛𝖔𝖓)
Camminavano lentamente, seguendo il lungo percorso sulle mura rialzate rispetto alla spiaggia sottostante. Appena usciti dal dedalo di vie del quartiere portuale, la direzione per uscire dalla città li portava a distanziarsi dal mare in altezza: solo una fila di scale li avrebbe condotti più in basso, verso il punto di attracco delle grandi navi ormeggiate. In contrasto col buio e la freddezza della tesoreria da cui erano appena usciti, il sole che calava implacabile sulle loro pelli, bruciante, gli lasciava addosso uno straniamento e un'amarezza peculiari. Era basso, la giornata volgeva al termine, ma riusciva ancora a mantenere intensità. Gli sembrò che quel calore e quella luce covassero sinistre intenzioni, come se il suo stesso cuore non fosse adatto a sopportarli senza ustionarsi nel tentativo.
Lei non parlava. Gli ultimi atti di quella scena ostile e inutile si erano svolti nel silenzio tombale della sua voce, quasi fosse rimasta indifferente a tutto o la sua mente fosse volata via. Fawn aveva lasciato cadere a terra il ciondolo mostrato alle due insopportabili donne, prima di uscirsene dall'edificio e non emettere più alcun suono. Lui l'aveva seguita senza aver ottenuto da loro alcun cenno di scuse: solo un arido abbassarsi degli occhi, intimorite dal suo gesto e dalla sua autorità. Avrebbe avuto voglia di insistere e di pretendere del pentimento, ma si era visto costretto ad andarle dietro.
Da ormai una ventina di minuti il silenzio gli opprimeva l'anima. Non che tra loro ci fosse mai stato molto altro, era il primo a non essersi lanciato nelle chiacchiere, neppure durante il viaggio per arrivare sin lì. Non era il silenzio fisico a urtarlo, però, quanto il vuoto che sembrava uscirle dallo spirito all'improvviso.
L'aveva conosciuta così: spiazzante e violenta come uno schiaffo in pieno viso. Niente di dolce, di grazioso o di tenero, solo fiamme disorganizzate. Che piangesse o gli sbraitasse contro, che desse in escandescenze o che ordisse complotti ingenui e inconsistenti, erano ormai settimane che una pira costante riempiva le sue giornate, con la sua onesta brutalità.
Di colpo non vedeva più nulla. Era come se qualcuno avesse messo a tacere un drago lunatico di cui aveva imparato ad apprezzare la compagnia, tra borbottii ed esalazioni di fumo.
Aveva scelto di mantenersi dietro di lei e di camminare con un passo appena più lento per non perderla di vista, nel timore di qualcosa a cui non sapeva dare un nome. Procedevano a piedi: avevano lasciato sia Tory che Adel alle scuderie dell'ingresso.
Quella cittadina era fornita di mura di cinta abbastanza alte, all'apparenza i suoi abitanti non avevano sicurezza delle loro capacità difensive via terra. Lo scorcio sul grande mare era l'unica apertura, appena chiusa dal ravvicinarsi di due ampi colli che si stringevano poco prima dell'orizzonte. Solo le punte lontane di grandi vele danzavano nel vento, a interrompere la linea bluastra dell'acqua. Sullo sfondo non si riusciva a scorgere alcuna striscia di suolo: la terraferma doveva essere parecchio lontana.
Fawn si fermò d'un tratto, spostò i piedi verso la direzione del mare, si avvicinò alla balaustra di pietra solida e rimase lì a guardare il panorama. Sarebbe potuta sembrare una fanciulla in contemplazione di uno spettacolo meraviglioso, se non fosse stato per il suo sguardo vacuo. Pareva un fantoccio privo di vita, che avesse dimenticato come muovere i muscoli espressivi. Aprì appena la bocca per emettere un suono tagliente quanto una spada: «Alla fine, è solo una pozza più grossa».
Voltò la testa di scatto e si ritrasse dalla visuale, per continuare col suo cammino silenzioso.
Non sapeva che fare, che dirle, né perché tutto ciò gli importasse tanto. Aveva accettato quella deviazione fuori programma, ma non l'aveva fatto per lei: voleva solo porre fine al proprio senso di colpa, rispondere per l'ennesima volta al richiamo di ciò che sembrava essere giusto e nobile. Ora che la questione si era risolta con un nulla di fatto avrebbe dovuto ignorare la reazione di Fawn all'esito ricevuto e sentirsi liberato da qualsiasi coinvolgimento. Invece, pensò e ripensò a come interrompere la freddezza che la attorniava e il dolore che sembrava averla riempita e resa apatica, a costo di farla arrabbiare.
Sì, anche la rabbia andrà bene.
«Io ho ancora una domanda in sospeso».
Una breve incertezza nel passo. L'aveva sentito.
«Nonostante il tuo tentativo di sabotare l'accordo, non ho ancora riscosso la mia parte».
Lei si fermò per un istante, il suono di uno sbuffo. Poteva funzionare.
«A meno che tu non abbia troppa paura di rispondere».
Lei voltò solo la testa e gli rifilò uno sguardo feroce da sopra la spalla. Le sopracciglia aggrottate, sputò: «Ti sei scoperto loquace? Cosa diavolo vuoi, esattamente?»
Sì, stava funzionando. La rabbia andava bene, era sicuro che non avrebbe mai ricevuto nient'altro, ma andava bene. Gli bastava interrompere quel vuoto doloroso e riportarla in vita.
«Quello che ho detto, ricevere la mia parte di patto. Quindi sei di Moorbury? E come si vive, laggiù?»
Una domanda idiota, la prima che gli era passata per la testa. Non gli sembrava il caso di tirare fuori tutto quello che avrebbe voluto sapere o che si era chiesto di tanto in tanto, negli istanti in cui dimenticava di doverle rimanere estraneo e distaccato. Come mai si poteva vivere, a Moorbury? Male, soprattutto per un Mistero come lei. Era viva, però, e ciò stonava abbastanza con l'idea che aveva di quell'intera regione. Era sopravvissuta, qualcuno doveva aver tenuto a lei, in un modo o nell'altro.
Un altro sbuffo sarcastico. Fawn parve pensarci un attimo e provare a ignorarlo, prima di decidere che non riusciva a sedare la sua stizza. Devon sorrise dentro di sé: non ce la faceva proprio, a controllarsi, era un incendio scalpitante a tutti gli effetti.
«Come pensi che si viva, in un buco rognoso ai limiti del Regno? Sei stupido, cieco o mi stai solo prendendo per il culo? Forse uno come te viene da lande troppo distinte e regali per avere una vaga idea di come noialtri campiamo».
«Non posso capire a pieno cosa significhi un'infanzia modesta, ma su Agonos posso rassicurarti: sono nato lì anch'io».
Perché l'aveva detto? Non era un problema enorme, era vero: alcuni dei suoi Cavalieri lo sapevano, il Re stesso lo sapeva, ma non era nei piani svelarsi a quel modo. Avrebbe preferito continuare a vivere come un'ombra sul mondo, impalpabile e inattraversabile da chiunque.
Un lieve cenno di stupore sul volto di Fawn. «Sul serio? E dove, di preciso?», gli occhi ristretti in una nota di sospetto.
Poteva dirle che non erano affari suoi, lasciar perdere tutto e tornare a camminare, dimenticare quel viaggio senza senso, l'amarezza che la tristezza di lei gli dava, portarsi al sicuro da tutto. Era sufficiente ricordarle che aveva già avuto la sua risposta, giorni prima, continuare quel gioco subdolo e sottrarsi ai chiarimenti.
Però, lei sembrava aver dimenticato il dolore.
E c'era quell'attrazione verso il rischio e la vertigine che gli cresceva nel petto, all'idea di mettersi davvero a nudo di fronte a qualcuno. Qualcuno che avrebbe potuto incenerirlo con un solo sguardo, letteralmente. Si disse che lei era insopportabile, astiosa, collerica, disattenta e impulsiva, ma non cattiva. Prese a due mani il coraggio e rispose, impaurito come non era mai più stato da anni.
«Sono nato a Màvrita e ci ho vissuto per undici anni, prima di andarmene e rinunciare per sempre al mio... titolo. Non mi chiamo Carraig, ma De Gaothy, figlio del duca, molto piacere».
Lei rimase di stucco: era riuscito nell'intento di farle dimenticare le sue preoccupazioni, fin troppo bene. Ricordò a sé stesso di allenare meglio le sue doti di calcolo nelle relazioni interpersonali. La faccia ancora dubbiosa e ostile, la bocca di Fawn continuava a non chiudersi, nell'immobilità di una minuscola apertura di smarrimento e stupore. Si era ormai fermata, e rimaneva a guardarlo girata di tre quarti. Devon continuò, ormai aveva dato inizio al misfatto: «Non posso capire come si viva dall'altra parte del mondo, nella povertà o nell'essere personalmente qualcosa di malvisto. Conosco l'intolleranza, però, e posso assicurarti che non ha a nulla a che fare con le razze o con quello che sei: la troverai ovunque, tra umani e Misteri, ma non siamo... Non sono tutti così. Non hanno tutti paura. A volte non ci credo nemmeno io, ma una speranza esiste».
Lo stupore lasciò spazio a una fiamma di sdegno che le attraversò gli occhi, allargandole le pupille e costringendola a voltarsi con l'intero corpo contro di lui. Incredibile, era il discorso più lungo e sincero che gli fosse uscito da quando si erano conosciuti e stava per ottenere solo rabbia... Ancora, sempre e solo rabbia. Fawn gli rispose, il tono della voce troppo alto: «Tu... tu stai davvero parlando a me di speranza? Tu che te ne vivi nella tua immunità... È facile parlare di paura, per te. Davvero molto facile fare la parte del paladino della giustizia quando il tuo deretano non può essere toccato da niente e nessuno, non è vero?»
Era molto più che arrabbiata, era furibonda. Ma soprattutto, diceva cose senza senso. Rimase perplesso: immunità?
«Non so di cosa tu stia parlando».
Lei ridacchiò, in modo isterico, come se non volesse credergli. Lui non si mosse e le restituì la più onesta delle espressioni: non aveva davvero idea di cosa lei intendesse, ma doveva turbarla parecchio. Fawn si calmò con lentezza. Pareva aver capito che le stava dicendo la verità, di qualsiasi immunità stesse blaterando.
«Tu non sai niente? Non ti sei davvero accorto di niente...?»
«No, mi dispiace. Vuoi darmi delucidazioni?»
Rimase ferma a guardarlo, la bocca finalmente chiusa in una linea decisa, gli occhi che lasciavano trapelare qualcosa di nuovo. Non avrebbe saputo definirlo, sapeva solo di non averlo mai visto. Ecco un'altra emozione da decifrare, dopo averla aggiunta alla collezione delle sue stranezze.
Finì per replicargli cambiando discorso, con un cipiglio sicuro e diretto: «A Moorbury si vive meno bene che altrove, suppongo. Essere un Mistero che terrorizza gli abitanti con l'ipotesi di incendi continui ha il suo carico di difficoltà, ma credo di dovermi ritenere fortunata. Per un po' di tempo mi hanno tollerata. A differenza di tanti di noi ho ricevuto il dono di una famiglia, li ho lasciati quando ho capito che la mia essenza gli avrebbe solo rovinato la vita...». Tentennò, come attraversata da una flebile tristezza, prima di cambiare di nuovo argomento: «Nemmeno io dovrei chiamarmi Fawn, solo che a differenza tua non ricordo il mio nome originale. Me l'ha dato il mio padre umano, quando mi ha trovata. Sì, beh, perché mi ha trovata in una foresta e perché assomigliavo a un animale, credo, per via dei colori e delle macchie in faccia e tutto il resto... Non importa, comunque a Moorbury si vive discretamente di merda: ci sono solo fienili, poche vacche e umani beceri».
L'ultima parte l'aveva gettata fuori con una certa agitazione, voltandosi verso la strada e riprendendo a camminare. Forse non voleva farsi vedere mentre raccontava di suo padre e del suo nome, sembrava parecchio imbarazzata. Ecco uno dei primi motivi di rabbia: l'imbarazzo. Lo annotò mentalmente, conscio che sarebbe stata una lista parecchio lunga.
Qualcosa non quadrava, però: per quanto Fawn non volesse soffermarsi troppo su quei ricordi, orgogliosa, l'immagine del padre e del riferimento a un cerbiatto era tenera e amorevole. Quella donna aveva ricevuto l'amore. Perché diavolo se n'era andata da casa, allora? Perché odiava tutti, così tanto e profondamente? Rimase a rimuginare, indulgendo nel pensiero dei suoi veri genitori e di che fine avessero potuto fare. La intuiva fin troppo bene, e non poté fare a meno di chiedersi se quella bambina piena di macchie, simile a "un animale", fosse tra le anime che anni prima lui e sua madre avevano aiutato. Frugò nella memoria, alla ricerca di qualcosa di simile tra tutti i visi che aveva contribuito a far salire su quei carri disperati.
Si interruppe prima che la sua mente potesse ripescare qualcos'altro. L'immagine di lei non era qualcosa a cui permetteva di prendere posto nelle sue giornate, di solito. Gli avrebbe solo impedito di rimanere lucido.
Uno stridio, quasi impercettibile, alla sua destra. Si fermò, di colpo serio e all'erta. Da quanti minuti non prestava attenzione a sufficienza? Ebbe il tempo solo di gettarsi verso Fawn e di spingerla indietro, lontano dalla balaustra, prima che la punta di un arpione comparisse sul ciglio della parete di pietra e un paio di frecce dessero il preludio alla pioggia di dardi che si abbatté su di loro, dalla sinistra.
🦌🤎⚔️🔥
Dopo una lunga pausa, fin troppo lunga, sono tornata :')
A mia discolpa, la vita vera mi ha tenuta lontana e i capitoli da qui in poi si faranno più complicati, vista la mole di eventi che devono accadere e che devo cercare di raccontare senza risultare piatta o, al contrario, confusionaria :')
Comunque sia, questo era l'ultimo di quelli che mi piace chiamare "i capitoli del conoscimento di due insostenibili testardi". Qualcosa si sono detti, no?
Qui c'è stato lo sbottonamento catartico xD
Ma, cosa più importante, vi ho lasciati sapere qualcosina ina su Devonuccio adorato. Qualcuno dirà: ammazza, 19 capitoli ci son voluti. Sì, e non vi ho ancora detto tutto. Lasciatemi godere della sua aura di mistero (ma anche Mistero?) finché posso u.u
Teorie sulla sua storia? I'm curious.
Bacini 🦌
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