18. (𝕱𝖆𝖜𝖓)

«Sei un Mistero come noi?»

Non era la prima volta che tentava. Ci aveva già provato e si era sempre scontrata contro un muro di silenzio. Non aveva mai avvertito alcuna ricezione, ma aveva dato la colpa alla loro mancanza di intimità: la connessione tra Misteri non era sempre scontata e immediata, era già capitato che richiedesse più tempo. Dopo settimane di vicinanza forzata e parole scambiate ad alta voce pensò che avrebbe dovuto funzionare.

Invece anche quella sera non accadde nulla, lui non la sentì.

La guardava con i muscoli del viso rilassati, le sopracciglia appena incurvate dallo stupore di non vederla parlare.

«La proposta è tua, per quanto mi riguarda non sono interessato a sapere nulla. Se non hai niente da dire possiamo chiuderla qui».

Ci pensò su: avrebbe potuto domandarglielo lo stesso, ad alta voce. Sarebbe stata una domanda lecita, la prima a cui aveva pensato e a cui cercava una risposta da parecchio. Ma in fondo le serviva davvero? Non era nient'altro che curiosità verso quell'uomo... C'erano questioni ben più urgenti.

Sedò la sua curiosità personale e mise al primo posto Lyam e le sue incertezze. Le aveva confessato di aver parlato con Idalia. Sapeva già che la proposta di matrimonio veniva dal padre e che lei non aveva alcun interesse in Devon. Ma lui? Che cosa pensava davvero, lui?

Il progetto suicida di Lyam sarebbe potuto durare mesi o anni: chi gli avrebbe assicurato che, mentre rincorreva titoli e onori, quel Devon non sarebbe sgusciato verso la principessa per ghermirla con la complicità del Re? Dovevano saperlo subito e in caso intervenire. Ucciderlo, se necessario.

Inspirò a lungo. «Che intenzioni hai con Idalia?»

Devon strabuzzò gli occhi e aggrottò la fronte.

«Prego...?»

«Oh, andiamo, hai capito benissimo. So tutto della proposta indecente di quel vecchio aguzzino. Perché tu ne sia al corrente, lei non è affatto interessata. Quello che voglio sapere è quali sono i tuoi piani in proposito!»

Non riuscì a evitare che il sangue le inondasse le guance, mentre sputava quelle parole. Sperò che la notte e il rossore del fuoco sarebbero bastati a nascondere il disagio che provava, nel sottoporre questioni puerili a un uomo così austero.

Ho davvero insultato il Re di fronte a questo tizio? Che diavolo mi dice questa testa bacata?

Gli occhi di lui quasi uscirono dalle orbite, tanto non riuscì a contenere lo sconcerto. Pian piano, Fawn notò che i segni sul suo volto cambiavano: gli angoli della bocca si arricciarono appena, mentre le labbra si assottigliarono nel tentativo di mantenerla chiusa. La punta del naso, appena ingobbito, si tese all'ingiù.

Sta veramente per ridere di me?

Non rise platealmente: Devon chinò il capo verso il basso e si coprì il volto con una mano, il corpo scosso appena da minuscoli tremolii. Un istante dopo, tornò a guardarla coi tratti ammorbiditi: «Se è solo questo a preoccuparti, puoi dormire sonni sereni. Non c'è nessuna intenzione e nessun piano, il disinteresse è reciproco. Ora però voglio usare la mia, di domanda: si può sapere perché ti preme tanto?»

Si zittì, d'un tratto pentita.

La storia tra Idalia e Lyam era segreta per un motivo, spiattellarla al comandante della cavalleria reale non era un'opzione accettabile. Nemmeno lo conosceva, per quanto ne sapeva sarebbe potuto andare difilato dal sovrano a rivelargli tutto e rovinare la vita di entrambi: Idalia rinchiusa a vita nelle sue stanze o mandata in sposa a un ricco bifolco, Lyam imprigionato nelle segrete del castello a marcire tra i ragni.

Per l'ennesima volta si colpevolizzò per quell'innato talento che aveva nell'agire senza un'adeguata riflessione.

«Mi dispiace, non posso dirtelo».

«Io ho risposto alla mia, si presuppone che un patto vada rispettato da ambo le parti».

«Beh, la domanda deve riguardare me. Non posso parlare di questioni che coinvolgono altri».

«Questa è una clausola in più e non è stata definita a monte».

«L'ho definita adesso!»

«Non è così che funziona».

Il falò si gonfiò ed emise uno scoppiettio, una piccola fiammata rabbiosa. Lui si piegò appena, portando il busto all'indietro. Sembrava ancora sinceramente divertito.

Rimase in contemplazione delle volute rossastre senza più insistere.

Solo dopo qualche secondo, Fawn notò che i tratti severi e rigidi riprendevano possesso del suo viso, mentre l'alone di quella che sembrava a tutti gli effetti un'illuminazione lo avvolse. Alzò lo sguardo verso di lei, duro: «È il ragazzo dai capelli rossi... Non è vero?»

«Lyam? No, non c'entra niente, non...»

«Vi siete imbarcati in quest'impresa folle per questo motivo? Per la possibilità di un matrimonio?» le disse, di colpo arrabbiato.

Non riuscì a replicare nulla. Mentire non le riusciva affatto bene e, a quanto pareva, nemmeno escogitare qualcosa dotato di senso. Dall'inizio di quell'avventura ogni piano si era tramutato in un fallimento totale, portato avanti dai suoi tentativi maldestri di ottenere ciò che le serviva pestando i piedi, piangendo o ustionando persone. Bryanna aveva ragione, in fondo: era solo un pericolo vagante, pronta a portare problemi e a non combinare niente di positivo, né per sé stessa né tantomeno per gli altri.

«Non dirlo in giro, ti prego. La mia boccaccia non avrebbe dovuto parlare. Loro si vogliono bene davvero, aiutarli sarà l'unica cosa buona che sarò riuscita a fare in questa vita».

Non riuscì a guardarlo. Sperò soltanto che quell'ennesima rivelazione, uscitale senza un filtro, sarebbe bastata a impietosirlo.

Sentì il crepitare leggero delle fiamme che iniziavano a indebolirsi, finché un sospiro lungo e pesante spezzò il silenzio: Devon si teneva la testa con una mano, gli occhi socchiusi. Li rivolgeva fissi e vacui verso un punto sul terreno, che pareva lontano miglia e miglia da lì.

«Non dirò niente. Ti conviene dormire, ora».

Si alzò senza degnarla di uno sguardo: Fawn lo vide camminare per parecchi metri prima di fermarsi e rimanere immobile, stagliato come una sagoma scura e silenziosa, pronto a fare la guardia. Il tono che aveva usato era ritornato serio, adombrato dalla solita freddezza.

Era un tale curioso, a dire il vero: tanto indifferente agli improperi verso il Re che serviva, eppure così alterato per questioni che in fondo non gli competevano.

Si ricordò di essere esausta e spense il fuoco con un unico sguardo. Prese una pelle che portava nella bisaccia e vi si avvolse dentro, sdraiandosi davanti alla cenere fumante. Prima di cadere nella dolcezza del sonno ripensò a come quello strano uomo fosse ancora un'incognita.

Nonostante i suoi propositi, non sapeva ancora nulla su di lui.

*

Man mano che cavalcavano, la linea azzurra all'orizzonte si era fatta sempre più vicina: di una tonalità simile a quella del cielo, si differenziava da esso come una striscia di pittura appena diversa, come se l'artista avesse sbagliato colore. Solo il fianco della collina a est la interrompeva, ma oltre a essa non esisteva nulla che non fosse blu: le dava l'idea di stendersi verso l'infinito.

Era già pomeriggio, la velocità a cui avevano viaggiato li aveva posti a un passo dalla loro destinazione. L'aria aveva iniziato a cambiare e a inserirsi nelle sue narici dandole un leggero pizzicore: aveva l'odore del sale che usava per conservare le carni, quello che a Moorbury scarseggiava a ogni stagione e che loro si erano sempre impegnati a risparmiare e a tenere in custodia con riserbo. In quel luogo pareva diffondersi ovunque, sotto forma di particelle invisibili ma perenni. Il vento sferzava sia lei che Devon, a onde gentili e calde, senza infonderle l'abituale istinto a coprirsi.

Il mondo riusciva a essere davvero bello, fuori da casa sua, e come una sciocca non si era mai posta il problema di scoprirlo. Una fitta di nostalgia la pervase al pensiero che Dylam fosse cresciuto in una terra tanto affascinante: era accogliente e magica quanto lui, piena di vita e di speranza. E lui non l'aveva più rivista; era morto su un suolo malevolo, avvolto nella nebbia.

Represse il dolore al petto che iniziava ad appesantirla, mentre facevano il loro ingresso nel villaggio. Non servì dare alcuna spiegazione alla guardia della porta cittadina. Viaggiare con un comandante reale al seguito aveva i suoi buoni vantaggi, constatò lei: a Devon bastò dimostrare la propria identità e ingiungere che venivano per conto del Re, perché fossero fatti passare senza indugi. Fu lui stesso a chiedere all'uomo informazioni circa dove trovare i Comedaian: ottenne di sapere che il padre di famiglia si trovava in viaggio, ma che sua moglie e sua madre erano certamente in tesoreria. Le avrebbero trovate lì se si fossero affrettati.

La prima freccia di delusione le pungolò il cuore, senza ancora trafiggerlo, nel non udire alcun cenno rispetto alla presenza di un figlio maggiore.

La tesoreria si distingueva dal resto dei palazzi, lungo la via che dal porto si portava appena dentro il quartiere più esterno, per essere l'unico edificio fatto di pietra: fine e biancastra, ben rendeva l'idea di ricchezza dei proprietari. Si stagliava, per quanto basso, in netta contrapposizione rispetto alle case in legno poste ai lati, e un grande portone ricoperto da decori intagliati ne segnava l'ingresso. Una volta messo piede al suo interno un atrio squadrato li accolse: la luce, resa giallognola dal vetro colorato e spesso che chiudeva le pareti di facciata, gettava l'entrata in un'atmosfera appena più cupa. Il contrasto con il sole dell'esterno, così forte a causa del suo riverberarsi sull'acqua, fece sì che gli occhi di Fawn impiegassero una manciata di secondi ad abituarsi e vedere con chiarezza.

Dal soffitto pendevano una fila di stendardi color blu notte e azzurro, raffiguranti un vascello intrecciato a un bianco fiore delicato. A terra, contro gli angoli, erano sistemati vasi in vetro gialli, arancio e verdi, dalle forme affusolate e sottili: la loro trasparenza faceva rimbalzare e disperdere la luce presente, creando giochi di colore incantevoli. Sulla parete di fondo, che li separava da un punto più stretto, probabile passaggio a qualche stanza posteriore, si stagliava un magnifico arazzo appena consunto: raffigurava scene di vita dedicate a quel luogo. Non ebbe il tempo di squadrarlo a lungo, solo quanto bastò a notare la presenza di figure umane ritratte nell'atto di pregare, inchinarsi dinanzi ai flutti su una riva, qualcuno far sgorgare acqua dalle proprie mani. Lì persino i Misteri venivano raffigurati su steli ufficiali: provò un moto di stupore e meraviglia, al pensiero.

Furono i passi di Devon a destarla da quell'osservazione: si dirigeva convinto verso una figura canuta e piccola, una signora avvolta in una tunica ben più grande di lei, china su un enorme libro in pergamena. A giudicare dalle fitte scritte presenti sulle pagine e dai simboli che lei non riuscì a riconoscere, doveva contenere calcoli e indici. Fawn non sapeva leggere o scrivere correttamente, suo padre non si era mai potuto permettere nessun tipo di istruzione per lei. Tutto quello che sapeva lo aveva imparato con la complicità di Cian e Fynn, che avevano fatto appena due anni di scuola, prima che Fergus decidesse che quella vena di cultura sarebbe bastata a permettere loro di svolgere una mansione dignitosa in età adulta. Sapeva scrivere il proprio nome e qualche altra parola, quello sì, e ricordava qualche numero. Non poté evitare di sentirsi una sciocca ignorante, all'improvvisa consapevolezza di essere stata tanto inferiore a un ragazzo come Dylam.

«Mia signora, siete forse la proprietaria?»

La vecchia alzò il volto rugoso da sopra le pagine del suo lungo elenco e guardò Devon, un po' dubbiosa: «Non sono io. Chi la cerca?»

«Sir Devon Carraig, vengo in nome di Sua Maestà e accompagno questa giovane. Se è qui la aspetteremo, le dica che siamo venuti per parlarle».

I suoi occhi nebbiosi e velati da una leggera cataratta si spostarono per posarsi su di lei. Rimase in silenzio, si alzò dal suo sgabello e si diresse verso il passaggio centrale, sparendo alla loro vista.

«Da qui in poi, penso dovresti parlare tu» le disse Devon.

Annuì, con i palmi delle mani sudati e il ventre che iniziava a ribollire, contorcendosi e lanciandole piccole fitte. La lingua d'un tratto le sembrò pesante, attaccata al palato. Cercò di farsi forza e ringraziò che fosse stato lui, fino a quel momento, a farsi avanti.

«Vuoi che esca?» continuò lui.

Lo fissò, mentre continuava a respirare con affanno: fino a un giorno prima, se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe decretato risoluta di non volerlo tra i piedi in un momento del genere. Di colpo, tutto era sparito e non desiderava altro che non essere lasciata sola. Ancora incapace di parlare, negò con decisione muovendo il capo.

Dopo quella che sembrò un'eternità sbucarono dal passaggio posteriore due figure, una dama e un'anziana al seguito: la donna era matura ma ancora fiorente, a giudicare dal contorno aggraziato e dalle poche rughe sul viso. Era vestita con una certa stravaganza, in una tunica zaffiro lunga fino a terra. Un velo leggero e appena trasparente, della stessa tonalità, le copriva la testa. Un'elegante collana in oro e pietre blu oceano le cingeva il collo, cercando di donare luce a quel volto, altrimenti spento e mite. Fawn non ebbe alcun dubbio su chi fosse: i capelli castani e gli occhi cerulei erano gli stessi di Dylam. Erano appena più chiari dei suoi, con un leggero grigiore a pennellarne i contorni dell'iride, ma quel colore non avrebbe potuto appartenere a nessuno che non fosse la madre. Un unico dettaglio la distingueva dal figlio: il suo sguardo non covava alcuna scintilla dell'immensa esuberanza di Dylam. Sembrava, anzi, adombrato da un'antica tristezza.

«Chi mi cerca?». Lo disse con tono flebile, come se le fosse indifferente.

«Io...» Fawn tentennò, incerta e impaurita su cosa dire. Non si era preparata alcun discorso e non sarebbe comunque riuscita a ricordarne mezza parola. Su di giri e presa dall'inquietudine scelse di tirare fuori da sotto il mantello, con mani tremolanti, il ciondolo di Dylam.

Nello scorgere quel piccolo gioiello la donna ebbe un sussulto, come se un fulmine l'avesse colpita e le avesse infuso una scintilla vitale, ridestandola dal suo sonno di pietra.

«Dylam! Mio figlio... Farrahmdia sia lodato! Dov'è? Dove si trova mio figlio?»

La gola secca e la bocca asciutta e arida, Fawn tentò di incasellare delle parole, terrorizzata all'idea di dover interrompere quell'entusiasmo: «Vostro figlio non vive più su questa terra, temo. Io... io provengo dallo stesso gruppo militare a cui si accodò più di un anno fa. Il motivo per cui vi riporto la pietra che vi legava, per cui l'ho conservata io sola, è che noi eravamo uniti. Sì, ecco, avremmo dovuto sposarci, presto o tardi». Aveva chinato la testa, non osava vedere la donna e la sua reazione: «Mi dispiace immensamente... Posso solo portarvi il mio cordoglio e la mia pena, e la notizia di come lui si sia sacrificato per noi tutti. Se n'è andato da eroe, dovete essere fiera di lui».

Una piccola lacrima le solcò il viso, leggera e calda. Lo rialzò: la donna era ferma. Gli occhi, che per un breve attimo erano diventati vivaci, ormai erano attraversati da un'oscurità implacabile, preludio della disperazione. Fawn fece per togliersi la pietra dal collo quando l'anziana lì di fianco, probabilmente la nonna, vestita con drappi degli stessi toni di colore ma disposti su più strati, si rivolse a lei: «Tu chi sei, ragazza? Non appartieni alla nostra natura, lo posso sentire dall'aura che emani. È ignota, non la comprendo».

«Oh, beh... certo, sì. Io sono Fawn. Fawn O'Gabha, vengo da Moorbury, si trova nella regione di Agonos. Noi ci siamo conosciuti nel gruppo ribelle...»

«Che capacità detieni, ragazza? Mostramelo».

Un po' interdetta, senza capire il perché di quella strana richiesta, Fawn alzò la mano sinistra, che abbandonò il ciondolo. Guardò per una frazione di secondo lo spazio sopra il palmo che teneva aperto e una piccola fiammella vivace prese forma.

Un getto d'acqua la colpì. La fiamma si spense e lei ebbe appena modo di scrollare la manica fradicia in aria, confusa.

«Terah-mah, abominio!»

Entrambe le donne la guardavano, i volti intrisi di odio e ferocia. La più anziana sibilava parole in una lingua che non conosceva, di cui a sprazzi riusciva a decifrare l'ostilità. La madre di Dylam le si rivolse sprezzante, intrisa di lacrime che stavano per sgorgare, la voce rotta: «Noi non accettiamo Mostri come te, qui. Mio figlio non può essersi accoppiato con un abominio di fuoco, Farrahmdia mi sia testimone. Non so come tu abbia avuto il suo talismano e cosa gli abbia fatto. Vattene e lasciaci in pace, o sarò costretta a chiamare le guardie cittadine».

Intontita, rimase in piedi dinanzi a quella scena, incapace di reagire. Persino la rabbia sembrava essere morta. Una piccola voce nella testa le disse di voltare i piedi, uno alla volta, metterli in moto e andarsene, ma non riuscì a fare nulla. Il mondo era diventato un involucro così vuoto.

Si accorse solo del movimento d'aria alla sua destra, di una figura che si sporse in avanti con velocità, del sibilo di una spada che veniva sguainata e tesa all'indirizzo delle due donne. Si alzò una voce terrificante e minacciosa.

«L'abominio è sotto la tutela del Re, e si dà il caso che ciò abbia valenza anche sulla vostra insulsa striscia di terra. Ora, perché non ringraziate della nostra visita e vi scusate senza più farneticare?».








🦌🤎⚔️🔥

Ebbene, c'è stato un piccolo problema e il capitolo risulta più lungo del solito. Forse verrà risolto in futuro, casomai dovesse risultare troppo carico:)

In questo mi servono dei feedback, in maniera tale da adoperarmi e stagliuzzare qualcosa. Ho voluto aggiungere descrizioni su un piano di azioni già stabilito ed eccoci, purtroppo ho rincarato i caratteri. Va bene così o ritenete sia troppo?

Comunque sia, Fawn è riuscita a fare quello che voleva, senza sapere che i pregiudizi, ahimè, non covano soltanto tra gli umani.

Come la prenderà?

Ps: Devon è sempre Devon, che ve lo dico a fare 🖤.

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