4. Sono padrone del silenzio

Lo lasciai andare. A scontrarsi coi propri rimasugli di incredulità, quella che forse nascondeva sotto agli strati di candida sfacciataggine che mi aveva dimostrato.

Ciò che ho sempre amato di Stefano è l'idea dei suoi anni, che non esistono davvero. Forse si sono congelati in un istante sconosciuto, appena dopo la sua nascita: deve essere successo in qualche momento dell'infanzia. Uno sgarbo, una tristezza, un attimo nascosto di cui lui non ha memoria, in cui il tempo si è fermato e ha interrotto il proprio placido scorrere. Lui è rimasto lì, in una stasi immortale dettata da qualche evento che rimarrà per sempre ignoto ai nostri cuori, incapace di andare oltre. Ed è così che continuerò a immaginarlo, a discapito di quanti secoli possano passare: un bambino rinchiuso dentro a un intervallo che si ripete in eterno. Impossibile da riacciuffare, così sacro da non poter essere superato.

Non lo seguii subito, fino al mattino del giorno dopo avevo sufficiente capacità magica da poter apparire quando e come volevo, sentire la sua presenza a distanze ultraterrene e capire quale sarebbe stato il momento migliore. Superai la stradina che mi separava dal marciapiede consueto, varcai la soglia del bar, mi guardai attorno. Lo aveva affidato alle mani dei due ragazzi sistemati dietro al bancone, come era ovvio. Li scrutai: visi giovani, ma solcati da pochi anni di perdizione e stanchezza recondita. Ostentavano la stessa sicurezza irriverente di Stefano, senza possederne la medesima bellezza. Uno era bassino, baffetto vistoso e occhio pigro, nascondeva una certa dolcezza nel fare languido con cui osservava la giovane ragazza che gli si rivolgeva per chiedere da bere. Come a fingersi meno sentimentale di quanto in realtà non fosse. L'altro era di poco più alto, lo sguardo verde e allegro, la capigliatura spettinata, il menefreghismo con cui si approcciava alla vita sembrava autentico.

In condizioni normali mi sarebbero anche piaciuti: entrambi, forse persino insieme. Tentennai per un secondo di troppo, a domandarmi se una serata del genere meritasse da parte mia uno svago. Forse rivolgermi a volti a lui noti non sarebbe stata un'idea vincente, non avrebbe aiutato nel conquistarmi la fiducia di cui avevo bisogno. Scostai gli occhi dai due ragazzi, feci qualche piccolo passo per addentrarmi di più nella calca di persone danzanti. Potevo trovare ciò che mi dava sollievo altrove, dentro a qualcun altro...

Visi. Sfocati, mobili, attraversati da fasci di luci viola e bluastre, le note in sottofondo a rendere estetico anche ogni singolo movimento sgraziato che potevano compiere. Occhi femminili, labbra maschili, mani e braccia a disegnare onde costanti. L'elettricità invadeva quelle parti del mio corpo demoniaco che bramavano trovare un rifugio... eppure, qualcosa non era al posto giusto. Un brivido mi portò a sentire che ciò che volevo davvero non si trovava lì. L'azzurro di cui avevo bisogno si era appena allontanato.

Diedi un'occhiata all'orologio d'acciaio che portavo al polso destro, parte integrante del mio essere metà realtà e metà sogno, venuto dall'oltretomba: era trascorsa una mezz'ora abbondante, forse Stefano aveva già riflettuto a sufficienza.

Mi diressi ancora verso la porta del locale, e stavolta la tirai invece di spingerla. Tutto ciò che dovevo fare era seguire le tracce che il mio fiuto poteva captare nell'aria: Stefano sapeva di tabacco, una qualità morbida e umida, e di arancia mista al profumo delle rose appena sbocciate. Dissacrante, incoerente, infantile.

Era una scia troppo peculiare per poterla confondere. La seguii senza prestare particolare concentrazione, lo snodo delle vie che attraversava durante la sua quotidianità si dipanò davanti a me. Le percorsi con calma, assaporando ogni immagine di quella che poteva essere la sua vita. Perché l'esistenza di un singolo mortale mi stava incuriosendo così tanto, d'un tratto? Non presagiva niente di buono, allo stesso modo di quando la solitudine e il dolore di Miriam mi avevano irretito anni addietro. Era un'occasione troppo tragica perché io non dessi retta a quell'istinto. Ne sentivo la terribile mancanza, da così tanto tempo.

Mattoni rossi sulla sinistra e, poco oltre, la presenza di una colonna sottile che si stagliava oltre la parete massiccia. Poggiava su un rialzo in pietra, separato dal livello della strada da una breve scalinata, a reggere una volta che definiva un sagrato di aspetto modesto. Il profumo di Stefano si concentrava in quell'unico punto e lì si fermava. Rallentai, attraversai la strada e mi portai sul medesimo lato della chiesa a cui mi stavo avvicinando. Curioso, che fosse stato il suo istinto a condurlo verso una scelta del genere? O era il raziocinio.

Ma non poteva sapere come simili simboli terrestri non avessero alcuna presa sulla nostra natura. Scivolai in forma di fumo nero, a lambire lo spazio da cui mi avrebbe potuto notare. Superai il sagrato, mi portai dall'altro lato rispetto alla facciata antica dell'edificio. Poco oltre, parallela, una scia di auto fiancheggiata da un viale alberato. Ripresi consistenza solo a quel punto, e mi celai alla sua vista nascondendomi dietro a un ippocastano dal tronco più voluminoso. Osservai.

Era seduto a terra, sul primo gradino grigio, le lunghe gambe abbandonate sopra il resto della scalinata, senza una posizione definita. Fumava con fare assorto, assaporando ogni boccata per più tempo di quanto non avesse fatto mentre ci parlavamo. Le dita sottili come quelle di un pianista maledetto, pallide, le nocche appena arrossate per via dell'aria fredda che lo circondava. Dentro al silenzio della notte, solo la sua figura e il suono di quelle labbra che aspiravano, si socchiudevano, espiravano volute opache.

Se qualcuno avesse voluto scrivere di lui, avrebbe detto che in quel momento le sfere di zaffiro e metallo avevano preso vita. Danzavano davanti agli occhi chiari di Stefano, come anime innocenti durante uno spettacolo tetro.

Rimasi lì, a bearmi di ogni istante che non sarebbe mai tornato, di ogni secondo in cui la sua pelle liscia incontrava un nuovo decadimento irreversibile. Impercettibile, ma reale. Stefano era una creatura effimera, qualcosa che poteva essere colto senza mai sapere di averlo davvero con sé, terribile e meraviglioso come può esserlo solo la felicità: smette di esistere, non appena la si guarda in faccia.

Fui distratto in ritardo. Notai la figura piccola e bionda che gli si avvicinava soltanto all'ultimo, quando lei era già china su di lui. Una ragazza che sembrava conoscere. Ebbe la confidenza di sedersi al fianco di Stefano, piegare il capo nella sua direzione per parlargli, staccarsi di poco quando lui sembrò non darle abbastanza corda. Aveva una compagna, dunque?

No, i modi che stava usando non erano quelli consoni a una ragazza verso cui potesse provare amore. Si era irrigidito, piedi e ginocchia avevano effettuato un'infinitesimale rotazione esterna, lontani da lei.

La fanciulla insisteva, come qualcuno che avesse acquisito l'intimità necessaria a permettersi di osare. D'accordo, si erano già incontrati in una maniera fisica e carnale, forse più di una volta. Lei appoggiò una mano sul braccio di lui, Stefano non si ritrasse. Abbozzò un sorriso, mentre la bionda parlava di qualcosa che non potei capire. Lui spostò il braccio per andare a prendere l'astuccio che gli avevo già scorto dalla tasca del giubbotto, in un movimento che voleva sembrare spontaneo e al tempo stesso portarlo a distanziarsi.

Lei lo amava, era evidente. O forse era soltanto preda di un'infatuazione passeggera, ma pensava spesso a quel ragazzo dall'aria sconclusionata. Con molta più frequenza di quanto lui non facesse con lei. Forse aveva provato a liberarsene, a dirsi estraneo a quel sentimento non ricambiato, forse ne aveva approfittato. Una dinamica più che comune. Sorrisi appena, nel rendermene conto, e mi preparai alla mia entrata in scena. Entrambi sembravano aver bisogno di aiuto.

Stefano mi notò per primo, il lampo di una consapevolezza quando fui già a un passo da loro. Le sopracciglia aggrottate, non si risparmiò un solenne: «Ancora tu, cazzo?» che disintegrò ogni particella poetica fossi riuscito a cucirgli addosso.

Mi limitai a esibire un sorriso rassicurante e volsi lo sguardo verso la ragazza. Lei a quel punto mi stava squadrando con due occhi incuriositi e affascinati, la pelle bianchissima irrorata da un leggero rossore.

«Sei un amico di Ste?»

Sottile, piccola, in apparenza pura. Deliziosa.

«Diciamo di sì. Con chi ho la fortuna di parlare?»

Il viso si tese un po', preso da uno stupore momentaneo. Non ebbe la stessa maleducazione di Stefano, però, nel percepire il tono inconsueto che avevo usato. Gli occhi le si addolcirono, allungò la minuscola mano per porgermela: «Sono Mary, e tu?». Il trillo di una risatina.

Gliela afferrai con garbo, ma non la strinsi. Mi chinai per lasciarle un bacio a fior di pelle: «Rosier, mia cara. Al vostro servizio». Le rivolsi un'occhiata gentile senza lasciarle la mano, prima di sollevare la testa. Lei rise, ancora, il suono melodioso di una voce femminile e spensierata a cui non prestavo orecchio da un po'. Con Miriam, negli ultimi tempi, c'erano state solo tante lacrime. E la mia stessa casa non era famosa per accogliere allegria e giubilo.

Lei voltò il viso verso Stefano, i lunghi capelli biondi rotearono appena, rilasciando nell'aria un leggero aroma di biancospino. La sua parlantina esalava note di Coca-cola: «Sembra simpatico, anche se è un po' matto. Da quanto vi conoscete?»

Stefano non rispose, era per la prima volta in visibile difficoltà. Lo feci al posto suo: «Da molto tempo, ci conosciamo per via delle nostre famiglie. Ma non sono di qui, ed è la prima volta che riesco a visitare Torino».

«Oh, figo. E quanto rimani? Andrete a fare dei giri? Posso venire anch'io, conosco un sacco di posti carini...»

Ne approfittai per interrompere il cipiglio irritato di Stefano, che stava con tutta probabilità per interrompere quel meraviglioso slancio: «No, mia cara Mary, non mi tratterrò oltre la giornata di domani. Io e Stefano ci siamo incontrati qui, ma dobbiamo partire presto. Ci aspetta un lungo viaggio, questioni familiari».

Il viso di lui era sempre più arrabbiato, ma poco importava.

«Certo, capisco». Un pigolare più basso.

«Perché non ci fai compagnia domattina? Posso avere il piacere di offrirti una colazione, prima di andarmene?»

Lei si illuminò, lui si incupì. Due moti opposti e complementari, che mi solleticarono come tessere di un gioco ingenuo.

«Certo! Mi passate a prendere voi? Ste sa dove abito...»

La testa che si rivolse verso di lui in fretta, presa dalla foga della speranza. Quella di cui si veste l'illusione in certi momenti minuscoli dell'esistenza umana. Lui balbettò solo un tetro: «Sì... va bene, dai. Senti, Me, ti spiace se ci salutiamo? Sto davvero uno schifo, ho bisogno di tornare a casa».

Lei tentennò: «Quindi non ti va se salgo? Neanche un minuto... possiamo addormentarci sul divano, lo sai, non ti rompo. E poi sarei già lì, per domattina».

«No, davvero, scusa. È che mi sento proprio una merda. Ci sentiamo domani, okay?»

Un piccolo sospiro rassegnato, l'accenno di una flebile tristezza che potevo captare nelle mani che si torsero l'una sull'altra: «Sì... Okay. Allora vi aspetto». Si avvicinò per dargli quello che voleva essere un bacio. Un breve scambio imbarazzato, dentro all'insicurezza che le costava capire che lui le stava offrendo solo la guancia. Stefano mise su l'ombra di un sorriso, privo di qualsiasi scintilla lei potesse meritarsi.

La ragazza si alzò da terra, si avvicinò a me e mi rivolse un sommesso: «Ci vediamo domani, è stato un piacere».

«Il piacere è stato tutto mio, Mary». Captai un minuscolo bagliore. Forse sarebbe tornata a casa con qualche lacrima in meno.

Aspettammo che lei fosse svanita all'orizzonte, lontana da quei gradini intrisi di fantasia, prima di emettere qualsiasi suono.

«Mi dici che cazzo ti passa in quella testa? Prima te ne esci con quella mole di stronzate e ora mi stalkeri e ti infili nei cazzi miei? Cos'è che vuoi, eh?»

D'accordo, il ragazzo sfacciato e leggero di poche ore prima era sparito. Il modo in cui il dolore che covava era appena affiorato in superficie, vestito di nuda rabbia, lo avvicinava a sua cugina più di ogni somiglianza fisica potessero già avere.

«Gli occhi che ti rivolgeva mi hanno ricordato la tristezza di Miriam».

Fui sincero, cosa insolita per un demone e soprattutto per me. Con uno come lui, forse, era l'unica tattica davvero sensata. Stefano fu preso alla sprovvista, perché quei due laghi che avevo già capito di amare si tinsero di stupore, di rimuginio, di consapevolezza e infine di sofferenza.

Trascorsero minuti di silenzio denso, quello che lui non aveva ancora imparato a padroneggiare.

Si prese la testa tra le mani, sospirò, le gambe sotto di lui iniziarono a tamburellare sulla pietra grigia. Si alzò in piedi di scatto, si infilò le mani nelle tasche del giubbotto, le tirò fuori, le inserì in quelle dei jeans, scosse il capo prima di guardarmi e sospirare ancora: «Va bene. Facciamo ciò che mi chiedi, anche se non ho capito una minchia. Andiamo a cercare Miriam».











✨🖤☠️🖤✨





Doverosa precisazione: il titolo del capitolo è una citazione a qualcuno molto più bravo di tutti noi. Che ho infilato anche in un piccolo passaggio del testo, quindi se vedete una frase che vi può suonare strana, tranquilli, è solo Rosier (o l'autrice?) che gioca con la poesia.

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