3. Ho smesso di ubbidire da tempo
Non mi ero mai fatto domande precise sul mio orientamento sessuale, del tipo "Ehi, Stefano, ma potrebbe piacerti il pisello? Hai provato? Perché non provi, per esserne sicuro?"
Mi limitavo a farmi ciò che mi andava e quando mi andava.
No, non è vero, non avrebbe senso mentire: questo era ciò che amavo ripetermi. La verità era che non mi ero mai spinto oltre un apprezzamento casuale, buttato lì, al passaggio di un bel ragazzo. Né avevo approfondito la vicenda di me e del mio amichetto Giacomo: in terza media ci eravamo chiusi in una stanza a guardare un video porno, ognuno sul proprio letto e con la tacita promessa di concentrarci soltanto sulle tette della bionda sullo schermo. Quelle tette le avevo apprezzate sul serio, ma alla fine avevo sbirciato verso ciò che Giacomo aveva in mano e il connubio delle due cose non mi era dispiaciuto affatto, prima di richiudere l'episodio dentro a un cassetto oscuro della mia memoria, fingendo che non fosse mai accaduto.
Mi piaceva dire di essere uno aperto, dalla mentalità moderna. Tutti e tutte potevano amare tutti e tutte, senza distinzione, non avevo alcun problema. Semplicemente, io ero un povero sfigato etero che si limitava per propria natura ad accontentarsi di un unico tipo di piatto.
Non ho mai capito cosa porti gli esseri umani a raccontarsi tali stronzate, a volersi sentire migliori senza avere mai il coraggio di dire la verità. Anzi, io la dicevo, andavo sbandierando che avrei voluto provare l'ebbrezza di innamorarmi di un uomo per capire cosa si provasse. Che coglione. In realtà, non avevo mai lasciato che qualcuno mi si avvicinasse abbastanza da capirlo, da rischiare.
Forse uno strizzacervelli qualsiasi direbbe che è stata colpa di mio padre, dei suoi modi da maschio alpha troglodita e del fatto che i miei genitori abbiano sempre contemplato un'unica opzione possibile: io, una moglie, un lavoro stabile e dei pargoli senza i quali la mia vita non avrebbe avuto senso.
Inutile spiegare come non avessi ottenuto un bel niente, e quanto l'aver disubbidito non mi avesse neanche portato a un'esistenza più libera o svincolata dal loro giogo. Ero solo un falso rivoluzionario, che viveva le proprie convinzioni nell'ombra: troppo lontano dai miei propositi reali, per non subire la delusione cocente della mia famiglia. Abbastanza vicino a loro da provare una costante stizza, che mi portava a non realizzare neanche ciò che si auspicavano per me. Ero un limbo, un fottuto regno di nessuno che aveva scelto di sopravvivere, aspettando la fine.
Eppure, quel tizio ci stava provando con me e neanche la mia mente bacata poteva negarlo. Il fatto che fosse un figo senza pari aiutava a crederlo. Qualsiasi uomo avrebbe finito per farsi delle domande sullo stato della propria natura sessuale, alla sua vista. Forse era l'alcol, le novità che mi gasavano da qualche giorno, l'attrattiva del suo aspetto, ma qualcosa dentro di me mi aveva spinto a invitarlo fuori. Una sensazione elettrizzante mi si era smossa dentro. Potevo starci, no? Potevo provare, ecco la mia occasione.
Alto, ben piazzato, slanciato, capello biondo, corto ma dotato di fluente ciuffo, occhi azzurri e sorriso da... da? Da figo, insomma.
Il vero problema era che dubitavo della sua sanità mentale, permanente o temporanea che fosse. Forse era solo un drogato qualsiasi che si era calato troppe sostanze. Motivo numero uno: l'essersi avvicinato a me. Per quanto non mi ritenessi un avanzo di sterco, non potevo definirmi un modello di Versace. Improbabile che un tipo del genere non avesse trovato di meglio, per quella sera. Motivo numero due:
«Ebbene, Stefano, giusto? Ti prego di mantenere la calma e di volermi credere, la questione che porto alla tua attenzione è della massima serietà».
Non ce la facevo proprio. Si esprimeva davvero come un coglione appena uscito da un set dei Tudor.
Sorrisi con un solo lato della bocca e guardai per un attimo di lato, inspirai una boccata di fumo: «Sul serio, fra, che ti è successo? Prendi un po' d'aria. Se vuoi camminiamo un po', aiuta a smaltire».
Il suo viso non tradiva l'espressione tipica di qualcuno in botta, questo glielo dovevo concedere. Il dubbio mi aveva anche attraversato, magari era solo suonato di suo, ma andiamo... O mi stava prendendo per il culo, o qualcosa non quadrava proprio.
Lui rimase impassibile. «Ora ti dirò delle cose, ti prego di rimanere calmo».
«E dimmi queste cose, allora».
«Io sono un demone, il bar di tuo zio contiene un portale tra il mondo umano e l'inferno. Il libro che avevi in mano poco fa è la chiave che apre e chiude il varco, compito a cui tu sei ormai designato come nuovo contraente del patto».
Risi, di botto.
Che altro avrei dovuto fare? Un po' iniziava a infastidirmi, ma non avevo altra reazione in canna possibile.
«Hai una risata bellissima, lo sai?»
Avvampai, subito dopo. Cazzo.
Farmi sentire nervoso non era cosa da tutti, e quel pazzoide drogato svitato ci era appena riuscito. Preso in pieno.
Mi passai la mano sui capelli cortissimi, un gesto che mi aiutava a stemperare l'imbarazzo. Feci un altro tiro, prima di osare guardarlo, cercando di ritrovare la strafottenza che mi era tanto cara: «Chiaro, tu sei un demone e io mi chiamo Harry Potter. E dimmi, quali magie malvagie sei in grado di fare? Non so, succhiarmi via il sangue?»
O qualcos'altro. Ma questo non lo dissi. Mi limitai a sciogliere le braccia lungo i fianchi e sorridergli ancora.
Qualcosa si mosse nell'aria, come delle stramaledette particelle che avessero iniziato a vibrare. Ma non era a causa del flirt a cui stavo credendo solo io, e neanche del gin che avevo in corpo. Lui trasmutò sul serio in una spirale di colori che roteava nell'aria, all'improvviso, come un pongo impazzito. Davanti a me, un secondo dopo, si era materializzato un uomo del tutto diverso.
Qualcosa mi fece capire che era lui, sempre lui, per un motivo ignoto ne ero sicuro. I capelli erano passati dal biondo al nero pece, la pelle si era scurita, gli occhi erano diventati verdi e il corpo era cosparso da tatuaggi di dubbio gusto. Lo sguardo però era lo stesso, impossibile confonderlo.
«Questa è la forma che assumevo per tua cugina Miriam, lei aveva dei gusti più odierni dei tuoi».
Strabuzzai gli occhi e dimenticai la sigaretta che si stava consumando da sola nella mia mano.
«Miriam? Tu che cazzo ne sai, di Miriam?»
«Te l'ho detto, conoscevo tuo zio. Come conoscevo lei, fin troppo bene... a dire il vero, è proprio a causa sua che mi trovo qui, oltre che per darti le regole basilari del tuo nuovo compito, ma quella è la motivazione di superficie. In realtà mi serve un favore personale da parte tua».
Lui parlava, ma io stavo iniziando a non capirci davvero più un cazzo. Sapevo solo che il bono di poco prima era sparito e che davanti a me era apparsa la versione abbellita di un disagiato appena uscito dalle Vallette. *
«Un favore? Ma che... come sarebbe a dire gusti più odierni, cosa cazzo vorresti dire?»
Ridacchiò, mostrando una fila di denti bianchissimi: «Tua cugina leggeva un certo genere di libri. Non importa, il punto è che devo trovarla, e tu mi servi».
«Trovarla... perché, cosa sai tu di questa storia?»
Il cipiglio protettivo non era esattamente la cosa più coerente con le mie scelte di vita. D'altronde, di Miriam fino a quel giorno me ne era importato ben poco, e lo sapevo. La coscienza risaliva a pungolarmi solo quando qualcuno arrivava a disturbarla, però, era una prassi che conoscevo bene.
«Dietro a questo tremendo guaio, che ha portato tuo zio alla morte e te a ereditare il suo compito, c'è lei».
Sussurrai, sempre più esterrefatto: «Inizio a non capire davvero niente, mi stai prendendo per il culo? Fai il serio». Non sapevo nemmeno cosa mi stesse portando a fare altre domande. Il fatto che sembrasse sapere fin troppo della mia famiglia, o l'aura invisibile che mi incatenava a lui. O ancora, il fatto che fossi comunque un po' brillo e non in grado di ragionare con piena lucidità.
Il tizio strano, che aveva detto chiamarsi Rosario o qualcosa di simile, si zittì per un breve momento. Voltò la testa all'indietro, verso l'ingresso del locale. Un gruppetto di ragazze era appena uscito e si stava allontanando, attese che fossero abbastanza distanti prima di riprendere: «Te l'ho detto, il patto ricade su un umano designato. Questa figura era tuo zio, e alla sua morte il compito sarebbe dovuto andare a sua figlia. Ahimè, Miriam è fuggita portandosi dietro qualcosa che mi appartiene e che la cela alla magia oscura». Fece una piccola pausa, si sistemò le mani nelle tasche dei pantaloni. Un altro agglomerato di plastilina colorata prese il suo posto e lui riassunse l'immagine del biondo che avevo conosciuto. Riprese: «Le regole prevedono che il ruolo venga assegnato in automatico all'erede più prossimo. Ed eccoti qui».
L'espressione che mi mostrava era fin troppo rassicurante, per essere quella di una qualche bestia satanica uscita dall'oltretomba.
Strizzai gli occhi, cercando di concentrarmi sulle assurdità che mi stavano piovendo addosso. Mi passai una mano sulla faccia e con l'altra lasciai cadere a terra il mozzicone, ormai era spento.
«Quindi, fammi capire... io avrei ereditato questo locale insieme a qualche passaggio magico che fa uscire ed entrare svitati come te? E dove sarebbero gli altri?»
«Ho chiesto che non assumessero una forma a te comprensibile, temevo avresti avuto una reazione spropositata. La prima volta è sempre meglio non esagerare».
«La prima volta?»
Inclinò di poco la testa, l'aria da maestrino e il tono netto: «Il portale va aperto ogni venerdì, a mezzanotte, e va richiuso esattamente dodici ore dopo. Quello è il tempo concesso sulla terra ai figli delle nostre gerarchie. Non incontrerai sempre gli stessi, l'assegnazione è casuale e ogni settimana i casati vengono smistati verso uno dei tre portali del mondo. Ma per queste cose ci sarà tempo...»
Mi bloccai, mentre lui faceva un passo nella mia direzione. Si avvicinò, senza staccarmi gli occhi di dosso, e io non riuscii a scostarmi mentre abbassava il viso verso di me. Avvertii tardi la sua mano che mi afferrava per un braccio, e dopo arrivò soltanto il suono di un petardo gigantesco, a frastornarmi senza scampo. Chiusi gli occhi senza rendermene conto, dentro lo stomaco la sensazione di una discesa ripida e repentina, le viscere che mi risalivano verso la gola. Li riaprii quando compresi che il movimento, o qualsiasi cosa fosse, era finito. Tremai, e mi accorsi che la sua presa non si era staccata da me.
Solo che intorno non c'era più il muretto di pietra, nessuna insegna tamarra e nessun lampione mezzo scassato. Non eravamo neanche a Torino, cazzo.
Feci mente locale, capii con orrore che io e Rosario eravamo in piedi sul bordo di un enorme ponte in ferro, sotto di noi un lungo fiume che scorreva nella notte nera. Alzai lo sguardo e lo feci vagare tutt'attorno: in lontananza una miriade di luci, fari e finestre accese nel buio di una città brulicante, ben più grande e chiassosa della mia. In sottofondo, clacson e vociare. Mi voltai ancora, dietro di me le macchine passavano a velocità sostenuta, le corsie più grandi di quelle che potevo incontrare al Quadrilatero, le insegne dei taxi sopra ad autovetture giallo canarino...
«Siamo a Londra?» ebbi la forza di sussurrare. Lui si limitò a guardarmi con aria spenta, come se il fatto che ci fossimo ritrovati dall'altra parte dell'Europa, e senza neppure un passaporto aggiornato, fosse una questione di poco conto.
«Mi spiace aver usato dei modi tanto bruschi, ma ho fretta che tu mi creda e capisca con cosa hai a che fare. Le mie capacità svaniranno entro le dodici ore previste dall'accordo, e a quel punto non sarò più in grado di fare prodezze del genere».
Serrò la presa e io strizzai di nuovo gli occhi, presagendo ciò che mi aspettava. Un secondo tuffo, un altro conato che mi attraversava mentre viaggiamo nel fottuto spazio-verso. Non ero mai stato tanto felice di rivedere casa mia, appena li riaprii.
Mi accorsi che stavo respirando con un certo affanno. Lui si staccò da me, coi soliti cazzo di modi flemmatici e calmi. Ma stavolta avevo sentito.
«Come sarebbe a dire, oltre le dodici ore? Non hai detto che ve ne dovete tornare nel buco da cui siete venuti, entro quel tempo?»
Notai che mi sorrideva, gli occhi azzurri che brillarono persino alla luce di quel lampione scassato. «Ed è proprio qui che mi servi, mio caro Stefano. Ho intenzione di protrarre la mia permanenza sulla terra, per questa volta. Ho bisogno di trovare la ragazza, e tu devi aiutarmi a scovarla... Usando mezzi consueti a voi umani, temo».
Il pazzo voleva che io gli insegnassi a prenotarsi un volo?
«Non ho idea di dove si trovi Miriam, e anche se lo sapessi, perché dovrei dirtelo?»
Una cosa l'avevo notata, nonostante la situazione ben oltre i limiti del paradossale.
Devi.
Avevo smesso da tempo di ubbidire, poco importava la provenienza del comando. Fui preso dall'istinto di scansarmi da lì. E io che credevo di aver soltanto trovato un passatempo per la serata.
Ebbi la spiacevole sensazione che potesse leggermi nel pensiero, mentre si allontanava di qualche centimetro da me, lento: «Non sei tenuto a farlo, ma è un aiuto che mi sento di poter chiedere soltanto a te».
«Ti ho detto la verità, non ho idea di dove possa essere. Usa i tuoi poteri, magari? Saranno meno forti, ma sei tu la "creatura magica", qui, no?», mimai con le dita il gesto delle virgolette.
Non si scompose, nemmeno a quel punto: «In condizioni normali potrei avvertire la presenza di una persona con cui ho instaurato un forte legame intimo, ma l'oggetto che mi ha sottratto la scherma del tutto...tu la conosci, sei un suo parente, hai più possibilità di me di capire dove sia andata».
Se solo fosse stato vero. Di Miriam non sapevo una beata minchia, ormai, e quella farsa pareva volersi protrarre ben oltre le bugie dette al signor Giuliani.
«Cosa intendi con legame intimo?»
Un momento di silenzio, le sue iridi blu oceano che non si scostarono dalle mie, ma sembravano studiarmi a fondo.
«Io e lei eravamo amanti, una ragazza splendida. Purtroppo, la fragilità umana porta anche a sentimenti eccessivi che non ero in grado di ricambiare, e questa è la conseguenza. Ora che sai tutta la verità, mi aiuterai?»
Sbottai. Se non altro, avevo una buona scusa a cui aggrapparmi.
«Mi stai dicendo che tu l'hai scaricata da bravo stronzo, e io ora dovrei riparare al danno? Non esiste».
«Non è per me che devi farlo, ma per lei. La situazione in cui si è cacciata è molto rischiosa, credimi. Non potrà durare a lungo».
Fui attraversato da un piccolo brivido, ma mi limitai a chiudere la cerniera del giubbotto. Faceva fresco, in fondo. Tastai dentro le tasche, agguantai l'astuccio arancione e lo tirai fuori. Avevo bisogno di un'altra sigaretta, e ormai tornare dentro non aveva senso. L'intero umore della serata era andato a farsi fottere.
«Non lo so, fra, hai appena ammesso di essere un qualche demone uscito dall'inferno. Definiamo il termine rischioso, che dici? Dovrei consegnarti mia cugina a cuor leggero?»
Finii di girare la carta intorno al tabacco, mi chinai per leccare il bordo e chiuderla. Non osavo guardarlo. Forse avrei dovuto essere un po' spaventato, almeno all'idea che lui fosse davvero ciò che andava blaterando. Ma il fatto era questo, proteggere la mia coscienza era più importante del preservare la mia vita.
Rosario sospirò, ne avvertii il suono lasciare il suo corpo e ricadere con dolcezza nell'aria tra di noi. Non mi fulminò né mi mandò a fuoco, si limitò a parlarmi ancora una volta: «Ti prego di pensarci, è una questione davvero importante. So che può sembrare una richiesta egoista, ma ti assicuro che è per il bene di entrambi».
«Sì, va bene, dai. Ci sentiamo, in caso. Tanto ti trovo in cantina, no?»
Accennai una risatina, ma stavolta il sarcasmo non parve colpirlo. Mi allontanai da lì, dovevo muovermi, camminare, fare qualcosa. Decisi che la strada verso casa era una buona direzione da intraprendere. Dentro al locale avrei solo incontrato le domande di Fra e Matti, appena avessero notato l'espressione sconvolta che si era dipinta sulla mia faccia di cazzo.
Mi mossi di un passo, quando Rosario mi lanciò un avvertimento che suonò più convincente di qualsiasi frase gli fosse uscita di bocca fino ad allora. Gli credetti davvero solo in quel momento preciso. La voce rimbombò come il colpo di un tamburo, intrisa di una gravità che non apparteneva al mondo reale.
«Stefano, qualsiasi cosa tu scelga di fare riguardo a Miriam... ti consiglio di tornare a chiudere il varco, più tardi. È meglio non spezzare questo particolare vincolo».
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