1. Una gran botta di culo

Erano già le sei del pomeriggio e quel notaio pomposo mi aveva avvisato che non avrebbe avuto troppo tempo da dedicarmi. Non guardai neanche il telefonino per controllare se mi avesse già scritto, me lo infilai semplicemente nella tasca del giubbotto insieme a chiavi, bustina del tabacco... e i documenti, cazzo. Potevo essere così coglione da presentarmi senza? Tornai in camera e rovistai dentro ai jeans lasciati sulla sedia, gli stessi indossati per fare il giro di consegne poche ore prima. Acciuffai la carta d'identità e tentai di infilarla nei dannati pantaloni eleganti che avevo scelto per l'incontro.

Ma certo. Non ci entrava. Quale damerino si infilerebbe mai un documento nella tasca sul didietro, loro usavano che cosa? Una pochette, un fottuto marsupio, un borsello costoso quanto il mio ultimo stipendio.

La infilai con rabbia dentro alla stessa apertura ormai rigonfia della giacca, sarebbe andata bene lo stesso. Poco importava che si sarebbe piegata.

Non persi neanche tempo a darmi una controllata e verificare lo stato delle mie occhiaie: terribile, con alta probabilità.

Mi ero detto che avrei smesso con le ore piccole, con la gente che piombava in casa in piena notte e non sloggiava prima della mattina dopo, con le cazzate e con tutta la merda con cui ci ostinavamo a voler dimenticare di essere dei perfetti falliti sull'orlo di un tracollo fisico e morale.

Finché hai diciotto anni la vita libera ti sembra un miraggio, qualcosa da assaporare con il gusto proibito di chi crede di avere davanti l'eternità. A venticinque inizi a sentire un fastidio all'altezza dello sterno, come un pranzo ingoiato male, quando capisci che i coetanei si stanno laureando e sono pronti a lanciarsi verso un'età adulta meravigliosa e costellata di successi. Io mi ero sentito un po' in colpa, mentre li avevo visti superarmi. Ricordavo di aver provato una sensazione del genere, ma la mascheravo dietro alla strafottenza di credermi migliore di loro: più vissuto, più artistico, più maledetto, più rivoluzionario, forse solo più pigro.

All'alba dei trenta diventi me: un fantasma dal viso spento che si ostinava a dormire poco e convincersi che dietro l'angolo avrebbe trovato una qualche risposta. Nonostante gli amici che non smettevano di occuparmi l'abitazione fossero ormai mosche ronzanti, che non vedevo l'ora di cacciare via in una molesta sera d'estate. A pensarci bene, iniziavo a credere persino di aver sopravvalutato il concetto stesso di amicizia: tutti se ne andavano, a un certo punto. Tutti tranne i due relitti con cui pagavo l'affitto, perenni entità di un trio inossidabile, fatto di necessità e abitudine.

«Oh, Ste, mi raccomando, allegro. Dopo passiamo a dare un'occhiata, che dici? Te le fai dare subito le chiavi, no?»

Non risposi nemmeno, l'avrebbe scoperto più tardi. Uscii, seguito dal tonfo della porta che non mi preoccupai di accompagnare con la mano. Feci tutti e quattro i piani di scale di corsa e attraversai il cortile interno. Un lampo, nel notare la fila di biciclette appoggiate contro il muro di mattoni dal lato opposto: avrei anche potuto usarla, sì, erano appena cinquecento metri, ma avrei fatto prima. No, cazzo, le chiavi della catena. Potevo risalire a prenderle, feci dietrofront. No, idiota, non c'è tempo. Un passetto nella direzione precedente, di nuovo, ecco la danza dell'indeciso.

Lasciai perdere e mi fiondai verso il portone, lo aprii e inaugurai l'andatura svelta-ma-non-troppo, dedicata per tradizione al mio cronico ritardo.

«Ammazza, che figurino. Che hai, un appuntamento?»

Sorpassai il gruppetto appostato, come ogni giorno, davanti all'enoteca del civico prossimo al nostro.

«Bella» fu tutto ciò che rivolsi loro prima di continuare col mio cammino sconnesso.

Loro rappresentavano l'evoluzione definitiva della situazione in cui stavo annaspando, brilli ancora prima di cena e con l'unica prospettiva di raccontarsi fesserie l'uno con l'altro ogni sera. Sempre le stesse facce e gli stessi sguardi. Non avevano capito abbastanza in fretta: il salto dall'essere il più figo del circondario allo sfigato privo di futuro poteva avvenire così, senza avvisare. Io stavo iniziando a rendermene conto, forse.

Di certo, quella che Fra aveva definito come "un'incredibile botta di culo" avrebbe potuto aiutarmi a uscirne. Non avrei dovuto neanche pensarla, un'espressione simile, lo sapevo. Mio zio Renato era stato ritrovato morto a Londra solo due settimane prima e io ero già pronto a banchettare sui suoi resti, godendomi l'inaspettata fortuna che mi era piovuta dal cielo.

Il fatto è che sì, d'accordo, era mio parente e sì, l'esercizio commerciale in cui lavorava da una vita era a uno sputo da casa mia, ma in fondo non lo conoscevo davvero. Né lui, né quel luogo.

Zio Renato non era nient'altro che una figura confusa, dentro ai ricordi di un'infanzia che spesso dimenticavo persino di aver avuto. Una voce dentro a qualche Natale, e neanche troppi: ero talmente pieno di me da averne saltati parecchi, negli ultimi anni.

Saltai giù dal marciapiede troppo stretto per superare la vecchietta che mi impediva il passaggio, e pensai. Mi chiesi se potessi avere da qualche parte un audio di zio Renato. Un video, anche un inutilissimo stralcio qualsiasi della sua voce. Un calore mi salì su per il collo e il volto, mentre mi rendevo conto di non avere niente del genere e di sentirmi come se l'avessi già scordata. Era grave, bassa, acuta? Aveva la erre moscia? Forse, leggermente.

Non la ricordavo. Dio, che schifo.

Ma era l'effetto della camminata concitata, di certo. Rallentai un minimo e presi dei lunghi sospiri, non era il caso di presentarsi con la camicia madida di sudore. Forse il giubbotto sarebbe stato meglio toglierlo, ma me lo tenni addosso. Sarei stato il primo a fotterlo di mano a chiunque avessi visto camminare con quel capo penzoloni, e una parte di me era certa che in caso me lo sarei meritato.

Cinquecento metri sembravano pochi, ma solo sulla carta. Oltre l'incrocio perfettamente ortogonale, tagliato dalle rotaie del tram, potevo intravedere che la via iniziava a stringersi ancora di più, segno che eravamo nella zona più prossima al locale. Il quartiere di Torino in cui abitavo da ormai cinque anni mi piaceva: non l'avevo scelto per davvero io, mi era capitato e me l'ero fatto andare bene, come tutte le cose della mia vita. Però lui aveva trovato me, e io lo apprezzavo.

Le viuzze strette, coi palazzi così ravvicinati da dare l'impressione di due amanti timidi che vogliano limonare senza trovare il coraggio di dirselo, parevano fatte apposta per nasconderci: nascondere me, Fra, Matti e tutti gli altri reietti di quella città ambigua.

Persino le macchine sembravano aver paura di passare, come se il Quadrilatero e Porta Palazzo fossero pronti a strizzarle e sputarle fuori. Il centro non era adatto a noi: i larghi corsi sabaudi costeggiati da viali alberati erano buoni a contenere banche, automobili, ragazze ben vestite... e il signor Giuliani.

Capello grigio pettinato all'indietro, scarpa lucidata a puntino, un orologio al polso che avrebbe fruttato parecchio al mercato dell'usato, un completo di ottima fattura color blu casual. Forse il blu casual non esiste, ma a me dava l'idea di un borghesotto con una caterva di soldi in tasca, tanti da potersi comprare abiti di alta sartoria sia per gli eventi serali che per gli incontri meno formali. Era un signor cazzo di completo, per farla breve, e l'uomo che lo indossava era lì, fisso e fiero come la statua di Cavour, ad aspettarmi.

Il signor Giuliani di certo non apparteneva alla mia stessa razza.

«Buonasera, signor Costa. È in ritardo, mi spiace ma non potrò tr—».

«Non può trattenersi troppo a lungo, certo, me l'ha detto ieri. Non fa niente, facciamo quello che dobbiamo fare e la lascio andare, che dice? Alla fine, non dovrà mica volerci molto».

Avevo straparlato. Probabile, a giudicare dallo sguardo stizzito che mi rivolse da sopra gli occhialetti quadrati — ma era ancora considerato legale indossare lenti tanto inscopabili? — prima di mettersi la cartelletta sotto al braccio, liberare una mano e porgermela.

La afferrai, cercando di restituirgli una presa salda e vigorosa. Fra diceva sempre che una stretta di mano sicura era il primo biglietto da visita di qualsiasi trattativa o conoscenza degna di nota. Peccato che il signor Giuliani doveva aver già deciso che io ero un totale inetto, immeritevole del beneficio del dubbio, perché mi sfiorò appena la mano prima di ritrarre la propria.

Aggiunsi: «Mi scusi, che maleducato. Piacere, finalmente ci vediamo dal vivo».

Alzò un sopracciglio. Forse anche quell'entusiasmo era eccessivo.

«Venga, entriamo e le illustro i documenti da firmare. Non serve che io le faccia fare il giro del locale, immagino, giusto?»

«Non si preoccupi, lo conosco perfettamente».

Bugia.

«Ottimo. E, signor Costa...»

«Mmh?»

«Le mie più sentite condoglianze».

«Oh... Oh. Grazie, davvero. Gentile da parte sua».

Che coglione. Abbassai immediatamente gli angoli delle labbra che tenevo rizzati in su come un perfetto deficiente e cercai di darmi un tono. Grazie andava bene? Come cazzo si poteva rispondere, alle condoglianze?

Mentre il signor Giuliani mi ignorava e armeggiava con le chiavi, intento ad aprire le spesse grate esterne del locale, diedi un'occhiata più attenta. L'insegna del bar di mio zio era l'unico elemento moderno su una facciata dall'intonaco scrostato, che metteva in bella vista la muratura sottostante. Le grondaie ai lati dell'ingresso erano di rame, regalavano un'antitesi affascinante a contrasto con il font pacchiano gotico, impresso su sfondo nero: Cellar door. Poco sopra, l'immagine stilizzata di un demone, traslucida e argentata. Che nome, per un esercizio notturno. E che tamarro.

Chissà come l'aveva scelto.

Alzai lo sguardo: come a volersi beffare di me e del destino di cui mi stavo prendendo carico, notai che a salire l'edificio cambiava del tutto rotta. Appariva ristrutturato da poco, dipinto di bianco candido e suddiviso in un piano nobile e uno mansardato. Il primo sembrava a doppia altezza, corredato di larghi finestroni incorniciati da colonne decorative, forse ioniche. La laurea triennale in architettura l'avevo presa, e su quella magistrale diciamo che ci stavo lavorando da qualche anno di troppo, ma ciò non implicava che avessi davvero studiato per ottenerla.

Dopo le grate, la serranda. Mi chiesi se zio Renato non ci nascondesse per caso la droga, lì dentro. Un tale zelo di sicurezza era eccessivo.

Riuscimmo a entrare, il signor Giuliani in testa, che tentennò per qualche secondo prima di trovare un interruttore e fare luce sull'ambiente che io fingevo di conoscere a menadito. Dimenticai la recita e non potei fare a meno di socchiudere la bocca e strabuzzare le orbite.

Intorno a me si dipanava il covo di un gruppo di darkettoni in procinto di dare il meglio di sé all'alba di Halloween. Mobilio nero, a tema, comprendente tavoli e sedie dall'aspetto vetusto e ricercato. Ragnatele finte ovunque, pareti volutamente rovinate a dare un effetto macabro, poster e quadri usciti da un film horror, piccoli teschi di plastica piazzati tra le mensole della grossa dispensa di alcolici posta dietro il bancone principale. Cosa ancora più inquietante, al fondo della sala una nicchia conteneva due scheletri appesi per il collo da catene lugubri: uno dei due era stato posizionato con le falangi intorno a delle grate di polistirolo, a simulare una prigione in cui sarebbero morti nei tempi non sospetti in cui la fantasia di mio zio ce li aveva rinchiusi.

Non sapevo nemmeno che covasse gusti del genere. Mi sentii a un tratto una merda totale, e il senso di biasimo prese il posto del raccapriccio. Non sapevo nulla su di lui, niente di niente. E venivo lì a pretendere che cosa? Di salvarmi il culo e le finanze con un'attività che neanche meritavo di ereditare, non fosse stato per...

«Ho provato a chiamare ancora sua cugina Miriam, in questi giorni, ma non ho voluto insistere troppo. Immagino che lei non abbia notizie più attendibili delle mie, in merito».

Miriam. Era sparita senza lasciare nessuna traccia dietro di sé, lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere di zio Renato, pescato a galleggiare sul pelo del Tamigi. L'intera vicenda era valsa persino un trafiletto di cronaca nera su Torino News, in cui erano riusciti a sbagliare il cognome di entrambi e storpiarlo da Capoli a Capponi.

La polizia mi aveva anche contattato, fatto due domande di circostanza e poi lasciato perdere. Immaginavo che il suo essere una persona maggiorenne e autonoma non fosse valso poi l'interesse di nessuna indagine particolare, ma io non ne sapevo niente.

Non parlavo davvero con Miriam dai tempi del liceo, da quando ancora le visite famigliari obbligate erano una scusa per ignorare gli adulti e chiuderci da qualche parte, a fumare una canna di nascosto e sentirci più grandi. Un paio di volte eravamo sgattaiolati via per imbucarci a una serata, dopo aver assicurato ai suoi genitori che l'avrei tenuta d'occhio. Lei aveva appena due anni in meno di me, ma all'epoca mi venerava come il ragazzo figo che non sono mai stato sul serio e che le avrebbe assicurato un pass per la libertà. In realtà ero solo un simulacro vuoto, una maschera di belle parole, agitatore di bombolette spray con cui scrivevo striscioni in cui forse non credevo nemmeno; organizzatore di feste fatte per sentirci tutti meno soli, contro l'assordante silenzio che avremmo covato nelle rispettive camerette, a piangerci addosso.

Lo ero stato e non ero mai cambiato. Miriam la ricordavo come una ragazza fin troppo sensibile, di quelle perse a rincorrere idoli e immagini nella speranza di trovare un'identità. Una di quelle donne che finisce per essere mangiata dallo stesso mostro di cui ha scelto di innamorarsi. E io l'avevo lasciata perdere, me ne ero fregato anche di lei.

Era capitato che ci incontrassimo per sbaglio, negli anni successivi. Un saluto veloce e due parole di circostanza, quando l'avevo beccata in giro. Il caschetto le si era fatto sempre più corto, la frangia sempre più netta e il cipiglio degli occhi truccati sempre più torbido.

Ma io non le avevo prestato attenzione.

«Signor Costa, mi sta ascoltando? Prego, direi che un paio di firme basteranno. Mi farò sentire nei prossimi giorni, casomai la signorina Capoli decida di farsi viva e debba essere eseguito un ulteriore passaggio di proprietà».

«Sì, certo... Firmo, firmo subito. Mi scusi, non ho una penna».

Ecco cosa avevo dimenticato. Ovvio, vuoi non presentarti a un passaggio notarile senza penna. Il signor Giuliani mi porse la sua, lucida e scintillante come la sciabola di un re in mano a un pezzente qualsiasi.

Firmai. Il grattare fastidioso della punta di metallo sulla carta, poggiata sul bancone liscio e duro, fu la sinfonia adatta ad accompagnare la mia sgraziata calligrafia. Stavo rovinando le carte di quell'uomo impeccabile.

Gliela restituii.

«Bene, direi che io vado. Le lascio le chiavi, che fa? Rimane qui o usciamo insieme?»

«Rimango. Rimango a dare un'occhiata».

Il signor Giuliani se ne uscì senza più dirmi una parola, la sua fedele cartelletta sotto l'ascella e il passo svelto di un uomo che aveva fin troppe cose a cui badare.

Rimasi solo a contemplare quel grottesco ammasso di casualità. Avrei dovuto chiamare Fra e Matti, far sapere loro qualcosa sul posto, dirgli di raggiungermi, ma me ne stetti immobile, la schiena poggiata contro il bancone e le mani in tasca. Guardavo tutti quegli orribili orpelli appesi al soffitto.

Tirai fuori l'astuccio color arancione zucca, presi un filtrino da una stecca e me lo ficcai tra le labbra, iniziai a sistemare il tabacco su una cartina un po' annerita. Indugiai un po' troppo sul movimento di rotazione della sigaretta, prima di portarmela alla bocca e leccare, forse per riempire l'aria con qualche fruscio.

Io in silenzio non c'ero mai stato davvero, eppure per la prima volta non sapevo proprio che cazzo dire.

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