Capitolo 7

JIMIN'S POV:

⚠️allarme MLML⚠️

Nemmeno eravamo entrati nel suo appartamento che già mi aveva inchiodato al muro. La bocca rovente e famelica sulla mia. Mi sembrava di venire trascinato dalla corrente di una vita altrui. Avevo già fatto sesso. Più o meno. Se il solo amplesso goffo e imbarazzante avuto ai tempi delle superiori poteva contare. Non era stato un impulso irrefrenabile, al contrario di quel momento, in cui sembrava che qualcosa stesse cercando di squarciarmi il petto.

Nutrivo qualche dubbio su Yoongi. Tanto per cominciare, l'avevo conosciuto sotto falso nome. Ma non potevo negare il nostro feeling a un livello primordiale. Era scattato qualcosa tra noi. Semplice. Dopo quella notte, chissà come sarebbe andata, ma in quel momento non volevo ostacolare i miei impulsi. Volevo bendarmi gli occhi, mettermi le manette e lasciare campo libero all'istinto.

Sentivo addosso le sue mani forti. Mi accarezzavano le gambe, sollevavano la maglia ammucchiando la stoffa a casaccio.

Baciarlo era inebriante. Non sentivo la mente vagare, ogni granello di concentrazione era focalizzato su quell'attimo. Su di noi. Era come trovarsi sommersi in acque tiepide e scintillanti; o almeno, acque che sanno baciare alla francese e adorano sprimacciare culi.

«Dovrei chiederti se facciamo bene?», bisbigliai tra un bacio e l'altro. «Sarebbe da vero signorino, no?»

«Che vuoi dire?». Si scostò abbastanza da guardarmi negli occhi. I polpastrelli mi sfioravano il viso con una tenerezza che mi spaventava.

Ero cresciuto trincerato in una scuola che predicava la severità a fin di bene e i miei genitori non erano mai stati tipi da abbracci, baci e coccole. Il modo in cui Yoongi mi guardava risvegliava un bisogno radicato in profondità. Volevo sciogliermi tra le sue mani.

«Credo che dovrei esprimere qualche dubbio. Sai, per non farti credere che sono troppo impaziente di venire a letto con te. Preservare l'immagine del vergine illibato eccetera».

Fece un sorrisetto. «Non mi importa se sei un vergine illibato o no. Devi volerlo quanto me. 'Fanculo alle regole non scritte. Adesso, ti voglio tutto per me. Ogni parte di te».

Mi morsi il labbro. «Allora portami nel tuo letto, perché se mi fai aspettare ancora potrei esplodere».

Mi afferrò dietro le cosce e mi tirò su, in modo che potessi aggrapparmi al suo collo come un bambino troppo cresciuto. Mi lasciai trasportare di peso fino in camera, dove mi buttò sul letto, cogliendomi di sorpresa. Quasi risi, atterrando sul materasso. Come un ragazzino. Non mi importava quanto mi stessi divertendo, l'ultima cosa che intendevo fare era ridere a quel modo.

Mi accontentai di un sorriso represso, guardandolo. Si tolse la maglia e stavolta io non distolsi lo sguardo. Lasciai che i miei occhi scivolassero lenti come melassa su ogni muscolo fremente del torso, sulle linee marcate e i piacevoli avvallamenti che si rifiutavano di lasciarmi guardare altrove. C'era un sentiero naturale che conduceva verso il basso, come un dipinto ben congegnato che ha un solo obiettivo in mente: far scendere lo sguardo giù, e più giù, e più giù.

A ipnotizzarmi del tutto fu la sua mano che si appoggiava sulla cintura e la sganciava. Il peso della fibbia abbassò la vita dei pantaloni, abbastanza da mostrarmi l'elastico della biancheria intima. Elastico grigio e boxer neri attillati.

In quel momento, misi in dubbio qualsivoglia bugia mi fossi mai raccontato sull'abilità di un dildo di rimpiazzare un uomo, persino quelli di ottima qualità. I peni di gomma non potevano spogliarsi. Non irradiavano profumo di virilità, una specie di cocktail ai feromoni che accendeva il mio punto G come un razzo e lo proiettava dritto nel mio cervello. "Bambini. Bambini. Bambini". Non avevo mai preso in seria considerazione l'idea di avere dei figli, ricordo che neanche da piccolo avevo questo desiderio mentre alcune mie compagne di scuola durante educazione fisica si mettevano le palle di pallavolo sotto le magliette per sembrare incinte. Ma quando guardai Yoongi che torreggiava su di me riuscii a raffigurarmi un bimbetto moro e sarcastico e quanto caldo sarebbe stato il fiotto del suo sperma dentro di me.

Per quanto mi sarei preso a schiaffi a quel pensiero inquietante, non riuscii a non pensarci.

Tirai subito il freno mentale. Una cosa era l'eccitazione, un'altra il senso pratico. Almeno una porzione della mia testa rimaneva ancorata al mondo reale, anche se il novanta per cento sbavava su Yoongi. Volevo sfondare nel mondo degli affari, forse persino avere una società tutta mia, un giorno. L'ultima cosa che avevo bisogno di aggiungere all'equazione era adottare un figlio.

Si calò i pantaloni e la mia bocca si spalancò.

"Che magnifico rigonfiamento".

I baci erano palesemente riusciti ad avviargli i motori e anche a me, a giudicare dal calore pulsante tra le mie gambe.

«Non si può fare se non ci spogliamo tutti e due», disse.

«Oh, davvero? Quindi le cose che mi hanno insegnato sulla riproduzione al catechismo erano tutte bugie?».

Si chinò su di me e mi alzò sempre di più l'orlo della maglia. «Secondo me, la bugia è un'altra: non sei mai andato al catechismo. Non ti insegnano niente sulla riproduzione, lì».

«Chi ti dice che non sono credente?».

Non spostò gli occhi dalla propria mano, che mi sfilava la maglia piano piano, con un movimento quasi rituale. Assaporava ogni centimetro di pelle che scopriva, come fossi un regalo di Natale a grandezza naturale. «Lo sei?»

«Forse. Ma non svelo i miei segreti così facilmente».

«Segreti, eh?». Si chinò e mi baciò sul petto, appena sotto l'orlo della clavicola.

Trasalii e inarcai la schiena quasi involontariamente. Dentro di me cresceva un fuoco inestinguibile e sapevo che lui era l'unico capace di soffocarlo. Avevo bisogno di lui. Sopra di me. Attorno a me. Dentro di me.

«Be'». Rialzò la testa e mi diede un bacio sulla bocca. «Credente o no, prima che abbia finito con te pronuncerai il nome di Dio invano più di una volta, ne sono convinto».

Repressi un sorriso. «È una sfida?»

«Forse».

«Sta' a guardare, allora».

«Tranquillo. Non ho nessuna intenzione di smettere di ammirarti tanto presto».

Finì di togliermi la maglia e si sollevò in ginocchio, divorandomi di nuovo con gli occhi. Nessuno mi aveva mai guardato in quel modo. Non era voglia cieca né un'attrazione casuale: sembrava provare qualcosa. Riuscivo a immaginare gli ingranaggi che ruotavano in quella testa bellissima, i pensieri che turbinavano cercando di metabolizzare un concetto sfuggente. Cos'era? Cosa stava cercando di capire?

Mi tirò su e fece per sganciarmi la cintura dei pantaloni. Lo sentii armeggiare per qualche secondo, prima di guardarmi con aria mortificata. «Mi sa che è incastrata».

«Questa qui ogni tanto lo fa. Posso...».

«No. Ci penso io». Diede uno strattone improvviso e a me si annodò lo stomaco al suono della mia cintura da cinquanta dollari che si sganciava di botto contro la sua volontà.

Nonostante fossi letteralmente in boxer davanti a un uomo per la prima volta da anni, riuscivo solo a pensare che aveva rotto l'unica cintura che avevo - quello che mi faceva sembrare il bacino più stretto e più elegante in base al mio aspetto fisico. Be', magari non faceva tanta differenza, ma per me comunque la faceva. Il punto era che mi faceva fare bella figura e quel bestione voleva giocare al cavernicolo e strapparmela di dosso.

«Lo sai quant'è difficile trovare una buona cintura?»

«Te ne comprerò un'altra». Fece per baciarmi di nuovo, ma io gli appoggiai un dito sulle labbra.

«Il negozio in cui l'ho presa ha chiuso i battenti. O hai la macchina del tempo, o non credo sia possibile».

«Imparerò a cucire e te la aggiusterò».

"Ma se è di cuoio la cintura". Lo fulminai con gli occhi, ma poi trattenni un sorriso, perché mi era venuta un'idea. «Ti farai perdonare, eccome, ma non con un kit da cucito. Voglio sentirti recitare l'alfabeto».

«Recitare... lo sai che l'alfabeto non si "recita", vero? Sono solo lettere, cosa...».

Indicai i miei boxer; imbarazzante a dirsi, tutti quei baci e spogliarelli avevano già formato una macchiolina umida sopra quel rigonfiamento.

Sembrava confuso. «Recitare l'al... oh. Cioè, sul tuo...? Oh...».

Non so perché avevo pensato che l'avrebbe presa come una punizione. In realtà, sembrava che gli avessi appena offerto un dolce. Mi sfilò la biancheria intima e la buttò per terra.

E di punto in bianco ero nudo come mamma mi aveva fatto, mentre lui portava ancora i boxer. Avrei posto rimedio alla situazione, ma potevo aspettare.

Mi coprii con una mano e lo guardai dritto negli occhi. A parole sembravo sfrontato, soprattutto con quell'ultimo ordine, ma dentro di me avrei voluto nascondermi. L'unica esperienza sessuale che avevo era quella del ballo del liceo, in più ero io a "comandare" la situazione. Avevo compiuto diciotto anni da un paio di mesi e mi ero fatto abbindolare dalla classica tattica del "sono vergine". Alla fine, nessuno dei due aveva capito che il lubrificante, naturale o no, era una parte essenziale del processo e avevamo sprecato dieci minuti inutili con io che annaspava invano, finché lui non avevo gettato la spugna.

Questo da un certo punto di vista faceva di me un vergine. Sempre se i peni di silicone non contavano.

Quando abbassò la testa tra le mie gambe, non riuscii a distogliere lo sguardo. Appoggiato ai cuscini, potevo vedere benissimo la schiena ampia e muscolosa. Mi stringeva saldamente le cosce e mi guardò negli occhi per un secondo, come a provocarmi, a dire: "Non sai che cosa ti aspetta".

Appoggiò la bocca su di me e cominciò a fare esattamente ciò che gli avevo ordinato.

La sua lingua tracciò prima la forma di una A, poi una B; tempo di arrivare alla M ed ero in guai seri. Ogni idea di avere il controllo della situazione svanì. Era lui il padrone. Gli bastava la punta della lingua per avermi alla sua mercé. E mi piaceva.

Avevo fatto così tanti sforzi per liberarmi. Avevo fatto del mio meglio per scrollarmi di dosso i tentativi dei miei genitori di trasformarmi nello sposino ideale preconfezionato. Non volevo essere il ragazzino vezzoso a cui piaceva vestirsi di rosa e lasciarsi viziare. A un certo punto, però, forse mi ero tanto impegnato a sfuggire a uno stereotipo da intrappolarmi in un altro.

Per una volta, era magnifico lasciar perdere tutto e liberarmi da ogni aspettativa e dubbio su me stesso. Quel che stava facendo mi piaceva e volevo che continuasse. Semplice.

«Dio, Yoongi», gemetti. «Puoi limitarti a recitare "mmm"?»

«Ricevuto». Quel bastardo sapeva il fatto suo: si staccò a malapena da me nel parlare. Le labbra sfioravano tutti i punti giusti e mi facevano tremare di piacere. «E sono già riuscito a farti nominare il nome di Dio invano. Di quello te ne hanno parlato al catechismo?»

«Non me ne importa più niente, basta che non ti fermi».

Ridacchiò e persino quel suono sordo mi provocò ondate di piacere.

Il trillo di un messaggio sul cellulare attirò la sua attenzione verso il comodino. Gli lanciò un'occhiata, poi si sollevò di scatto. Nonostante fossi nudo come un verme e con le gambe allargate davanti alla sua faccia, ebbe il fegato di allungare un braccio su di me per prendere il telefono.

«Stai scherzando?»

«Scusami, devo solo assicurarmi che...». Non appena lesse il messaggio, impallidì e si girò verso la finestra più vicina. Vidi i muscoli della mascella contrarsi più volte, come se cercasse di masticare qualcosa di incredibilmente duro.

«Ti sei annoiato o che? Yoongi?». Mi sedetti e gli schioccai le dita davanti alla faccia. «Lascia perdere». Tutte le emozioni e le sensazioni piacevoli che fino a un momento prima pulsavano dentro di me si trasformarono in un secondo. Tornarono il cinismo e la tenebra che mi erano familiari. Mi scostai, evitando i suoi tentativi fiacchi di fermarmi, raccolsi i miei indumenti e mi rivestii. Volevo allontanarmi il più in fretta possibile da quel momento, dal fatto che per lui avevo abbattuto ogni mia difesa come se niente fosse, e per cosa? Un ricordo che probabilmente non avrei mai potuto contemplare senza essere sommerso da un'orribile, profonda vergogna?

«È una questione di famiglia», mormorò. «Non c'entri tu, davvero. Tu...».

«Risparmiami. Sei bello e affascinante, quindi sei riuscito a farmi fare una stupidaggine. Una. È più di quanto riesca alla maggior parte della gente. Spero te la sia goduta, perché non ricapiterà».

Uscii in fretta, con tutta la dignità che riuscii a racimolare. Non appena la porta di casa sua si chiuse alle mie spalle, mi resi conto con un senso di vuoto allo stomaco che avevo dimenticato dentro le chiavi. Mi girai e me lo ritrovai davanti, ancora a petto nudo.

Dal suo volto era scomparsa tutta la sicurezza strafottente di poco prima. Sembrava solo pieno di rammarico, mentre mi tendeva la mia roba. «Posso spiegarti tutto domani, almeno? Vieni a pranzo con me».

Presi le chiavi senza dire nulla e me ne andai. Sentivo ancora il calore umido della sua bocca tra le gambe; non riuscivo quasi a credere alla velocità con cui una cosa fantastica era diventata orribile. Avrei dovuto aspettarmelo. Più ripensavo alla mia vita, più mi accorgevo che era sempre andata all'incirca così. Tutto cominciava in maniera promettente, poi, non appena abbassavo gli scudi e cominciavo a entusiasmarmi, finiva di merda. La mia migliore amica si era trasferita in un altro Paese. Quello stupido "Min Dohyun" mi aveva lasciato con mille domande su quale messaggio potesse mai fermarlo mentre mi stava consumando con la lingua e fargli perdere ogni interesse. Persino i miei genitori, anni prima, mi avevano dichiarato una causa persa.

Almeno avevo il mio gatto. Una cosa potevo dire a lode di Saja: non si era mai preso la briga di farmi credere che avremmo avuto un rapporto speciale. Era un libro aperto. Io ero solo l'umano che tollerava fintanto che gli avessi dato del cibo e una scatola vuota per giocare, all'occasione. Nella relazione tra essere umano e gatto non ci sono segreti. Mi usava per mangiare o si divertiva a svegliarmi più volte durante la notte tolettandosi con prepotenza, ma i patti erano chiari.

Mi ero fatto accecare dall'uccello, come si suol dire. La mia situazione era perfettamente accettabile: avevo un lavoro insoddisfacente che mi lasciava a malapena il tempo di inseguire i miei veri sogni, nessuna relazione interpersonale significativa e una crescente disillusione verso il mondo e il mio futuro. La mia vita andava bene così, poi avevo commesso lo stesso errore di tante altre donne e uomini come me nel corso dei secoli: avevo creduto che mi servisse un sacco di carne attaccato al pene. La tecnologia mi aveva dato i mezzi per separare il pene dall'uomo ma, chissà come e chissà perché, avevo permesso a quell'idiota del mio vicino di convincermi che il suddetto mi avesse condotto sulla cattiva strada.

Mai più. O almeno, probabilmente. A meno che non si fosse scusato davvero bene. O avesse avuto una giustificazione davvero, davvero buona. Forse avrei potuto accettare persino la corruzione, se in forma commestibile. Odiavo ammetterlo, ma avevo la sensazione che una volta dissipatosi un po' dell'imbarazzo per ciò che era appena successo, avrei cominciato a chiedermi cosa avrebbe potuto esserci tra noi.

Mi buttai di faccia sul letto e sospirai nel cuscino.

Saja saltò su, girò in cerchio sulla mia schiena tutto tronfio, poi si mise a pulirsi l'ano come se fosse qualcosa di fondamentale importanza. Gemetti, disgustato, e mi ribaltai come un alligatore per togliermelo di dosso. Cadde a terra con un tonfo e un lieve miagolio irritato.

«Niente maschi nel mio letto stanotte. Nemmeno tu, Saja».

Come da copione, non mi diede retta.

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