Capitolo 5
JIMIN'S POV:
Mi appoggiai al bancone della reception della Galleon. La festa era a uno dei piani superiori. Io ero il comitato di benvenuto per chi si presentava al piano terra. Taehyung perlomeno mi conosceva abbastanza bene da sapere che non avrei sorriso e detto una frase carina a chiunque fosse entrato. In effetti aveva accennato qualcosa a proposito di "indicare la strada agli ospiti", ovvero spiegargli quale pulsante schiacciare in ascensore, ma non volevo rubare il lavoro al poveraccio che ci stava seduto dentro apposta con uno stupido berretto in testa. Quindi mi misi comodo e ammazzai il tempo guardando il telefonino e fingendo di non vedere le occhiatacce della gente.
Una delle mie attività preferite era spulciare Reddit, ed era così che ero incappato in quei fatterelli sull'aquila codacuneata poche ore prima di dover cagare quella pepita di stronzate nella stazione della metropolitana. Sembrava che Dohyun si fosse bevuto la scusa, pur bofonchiando.
E comunque non avevo veramente intenzione di usare i visori o le cimici. Almeno credo. Semplicemente mi stavo annoiando e per puro caso mi trovavo nell'androne del nostro palazzo quando lui era uscito di casa. Forse in un punto dove sapevo che non mi avrebbe visto.
Persino nella mia testa suonava come una balla. C'era una sagoma muscolosa di un metro e novanta proprio al centro della mia mente e io ero più che felice di continuare a fingere che non esistesse, così come evitavo con cura pile di altri ricordi repressi. Con il passare del tempo il mio cervello era diventato la stanza di un accumulatore seriale, che dovevo attraversare al buio. Ogni tanto urtavo un ricordo sgradevole o una conversazione traumatica, ma per la maggior parte del tempo ne rimanevo a debita distanza. Così era tutto più semplice.
Si avvicinò una coppia. L'uomo era in giacca e cravatta, la donna in abito lungo nero coperto da quello che sembrava un motivo a squame di pesce iridescente. Era figo, però mi guardavano come se si aspettassero che mi alzassi a baciargli l'anello; quindi riabbassai gli occhi sul cellulare e li ignorai ostentatamente.
«Siamo qui per la festa. Siamo amici di Kim Namjoon».
«Bene. È nel palazzo di fronte. Se trovate chiuso, bussate e aspettate».
«Il palazzo di fronte?». L'uomo indicò tutta la gente che entrava alla spicciolata e si dirigeva agli ascensori. «E allora tutte queste persone che stanno facendo?»
«Sono venuti per la colonscopia gratuita. Trentaseiesimo piano, se vi interessa. Però dovevate portarvi il lubrificante da casa. Avete...».
I due stavano già uscendo con aria inviperita. Ops. Certa gente non sa proprio stare allo scherzo.
In teoria, avrei dovuto controllare che non arrivasse il vecchio compagno delle superiori di Taehyung, ma non mi aveva detto che ci sarebbero stati centinaia di invitati. Come si aspettava che notassi qualcuno "con gli occhi ravvicinati da furetto e il collo a spaghetto bagnato"? E comunque, che cazzo significava?
Dopo pochi minuti, una ragazza che doveva avere circa la mia età si appoggiò alla scrivania della reception. «Scusa», disse.
Alzai gli occhi con un sospiro che avevo perfezionato a lungo. Doveva servire a spaventare i predatori sociali, come il ruggito del leone informa la savana che è arrivato uno tosto. Per mia sfortuna, la ragazza non batté ciglio. Aveva i capelli scuri, lunghi, legati in una coda di cavallo, con al centro della fronte un ciuffo da dura. Era carina, per una con l'aria da cattiva delle storie; l'abito verde smeraldo le calzava a pennello. Decisi di prestarle attenzione.
«Scusa per cosa?»
«Per l'interruzione. Vedo che sei impegnato, ma mi chiedevo, non è che potrei nascondermi qui dietro per un paio di minuti? C'è un tizio che mi sta importunando e io...».
«Accomodati. Ma non toccare niente. E ti avverto: se fischi quando respiri, ti butto fuori».
Mi ringraziò e corse ad acquattarsi dietro la scrivania, accanto alla mia sedia. Io mi dedicai di nuovo al telefonino, aspettando che la serata finisse; tuttavia, pareva che la nuova fosse una loquace.
«Lavori per la Galleon, vero?», domandò.
«No. Sono un barbone. Ho rubato i vestiti a un ragazzo dopo averlo picchiato e nascosto nel bagno».
Accennò un sorriso. «Sarcasmo. Mi ero quasi dimenticata com'è. Passo il tempo con gente così inamidata che nemmeno riesce a pensare qualcosa di sarcastico, figuriamoci fare una battuta».
Avrei voluto darle una risposta stizzita, solo per zittirla, ma un po' mi faceva pena. Sembrava che avesse avuto una serataccia; pensai che potevo comportarmi come un normale essere umano, per un po', forse. Anche se avevo un'opinione distorta delle interazioni sociali, non avevo ancora imparato come spegnere la capacità di provare empatia. Sfortunatamente. «Hai detto che un tizio ti dava fastidio? Vuoi che lo becchi con il taser se entra qui?»
«Hai un taser?».
Lo tirai fuori dal cassetto segreto della scrivania. Era grande più o meno come un mazzo di carte; quando schiacciai il grilletto, tra i due nodi metallici in cima scattarono archi di elettricità. Il suono era simile a quello di due sfere metalliche che si scontrano. Alcuni ospiti diretti agli ascensori girarono al largo della reception e accelerarono il passo.
Fece un cenno di approvazione. «Se lo becchi tra le gambe, mi sta bene».
«Dove altro vorresti usarlo un taser?».
Sorrise. «Il capezzolo, o forse il buco del culo».
«Cazzo». Mi girai verso di lei. «Potresti piacermi».
«Idem. Sono Rose». Allungò una mano per stringere la mia.
«Jimin».
Mi parve di vederle balenare nello sguardo qualcosa che sembrava quasi un moto di trionfo, ma accantonai quell'idea. Non aveva alcun senso e comunque non ero bravissimo a leggere le persone.
Taehyung uscì di corsa da un ascensore. Era spettinato e sembrava che gli si stesse formando in fretta un livido attorno a un occhio. Rose si abbassò un po' di più dietro la reception e mi guardò con un dito sulle labbra.
«Ne ho già visti così». Gli indicai l'occhio. «È uno di quegli insetti africani. Quelli che ti depongono le uova sottopelle. Penso che ti restino tipo tre giorni, poi cominceranno a uscirti nugoli di mosche dalla faccia».
Fece un verso inarticolato, poi si premette il palmo della mano sul punto dolente, fremendo. «Non penso, a meno che gli insetti africani non abbiano inquietanti baffi da pedofilo e la corporatura di un campione russo dei pesi massimi».
«Wow», commentai, sarcastico. «Hai preso un pugno? Non so proprio perché a qualcuno dovrebbe venire voglia di colpirti. O perché dovrebbe fermarsi al primo cazzotto».
«Non sono dell'umore giusto per le tue battute, Jimin». Si chinò sulla scrivania. «Guarda un po', è stato il tizio che dovevi intercettare per me».
«Quindi ha il collo a spaghetto bagnato e la stazza di un campione dei pesi massimi russo? Faccio un po' fatica a immaginare le due cose insieme, scusa».
«Vabbè, forse non era poi così grosso. Mi ha solo colto di sorpresa. Un colpo a tradimento. Non importa. Gli ho messo della polpa di granchio nella tasca del cappotto, in una di quelle interne, piccole, che nessuno usa mai. Tra un paio di giorni comincerà a chiedersi che cazzo sia quella puzza. Punti bonus se lo ficca in un armadio e se ne dimentica per settimane».
«E giravi con della polpa di granchio perché...».
«Non è andata così. Ho fatto un commento. Mi ha dato un pugno. Ho preso del cibo dal buffet, ho trovato il guardaroba e pagato l'addetto per farmi dire quale fosse il suo cappotto. Altre domande?»
«Arrivi al punto?»
«Insomma, una persona normale si scuserebbe per aver lasciato salire quel teppista senza avvertirmi. Era l'unico compito che ti avevo assegnato».
«Scusa se ho permesso a un teppista russo con il collo a spaghetto bagnato di tirarti un pugno in faccia».
«Non volevo altro. Ora, me la presenti la donna nascosta sotto la tua scrivania, o faccio da solo?».
Rose si alzò con una grazia sorprendente, si spolverò il retro dell'abito e tese la mano. «Sono Rose».
«Taehyung. Ci siamo già incontrati?»
«Me lo sento chiedere spesso». Rise, un po' irrequieta. «Adesso devo proprio andare, ma ehi». Si girò e prese un post-it e una penna. Scarabocchiò il suo numero di telefono, poi me lo appiccicò sulla fronte con un sorrisetto. «Prendiamoci un caffè, un giorno o l'altro».
Mi tolsi il foglietto dalla fronte e lo attaccai alla scrivania. Non avevo la minima intenzione di richiamarla. Avevo un gatto con le zampette corte. Che me ne facevo degli amici? E poi, una migliore amica ce l'avevo. Solo che sarebbe rimasta all'estero per un paio d'anni. Ma io avevo tempo.
«Permetti che ti aiuti». Taehyung prese un post-it e ci scrisse il mio numero, poi glielo diede, facendole l'occhiolino. «Fidati, questo qui non ti chiamerà mai. Va conquistato con la forza bruta. Anche se non posso dire che il gioco valga la candela. Adesso il piccino mi adora e a volte mi chiedo perché mi sia dato tanta pena per...».
«Sei un idiota».
Guardò Rose come se gli avessi appena confessato amore eterno. «Capisci che intendo?».
Rose guardò il biglietto e sorrise. «Be', grazie. È stato un piacere conoscervi. Tutti e due», aggiunse, poi se ne andò.
Quando fu scomparsa, Taehyung fece una smorfia. «Giuro che l'ho già vista da qualche parte».
«Non fissarla tanto o lo dico a Jungkook».
«Jungkook ha fiducia nel nostro matrimonio, posso guardare altre donne o uomini. E poi, serve solo a ricordarmi che lui è molto più sexy. Prendiamo te, per esempio...».
«Bada. Continua a scegliere male le parole e finirai appeso nella mia cella frigorifera».
«Com'è che sembra un'allusione sessuale? Mi sa che sto per vomitare».
«Forse perché hai il senso dell'umorismo di un ragazzino delle medie e tutto diventa un'allusione sessuale?»
«Molto probabile, sì. Comunque, non sarebbe così divertente prenderti in giro se non avessi l'incazzatura facile. Te le cerchi».
«E io lavoro per te solo perché il mio piano è detronizzarti e costruire un impero sulle tue ossa».
Annuì con aria soddisfatta. «L'ambizione mi piace. Continua così e potresti fare strada».
«A proposito di strada, posso andarmene adesso, visto che ho già mandato a puttane quel compito idiota che mi avevi affidato?»
«Va', bambino. Sono certo che le arti oscure ti aspettano, o magari una seduta spiritica».
Sospirai. «A volte vorrei praticare davvero le diavolerie che mi attribuisci, perché ti maledirei di sicuro. Potrei cominciare spostandoti l'uccello sulla fronte».
Alzò gli occhi al cielo. «Ah ah. Testa di cazzo. Sì, da scompisciarsi dalle risate».
«Non lo è, ma avresti le palle negli occhi per tutto il giorno».
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Passai il resto della notte a studiare come un matto per un esame di economia che dovevo dare di lì a un paio di giorni. Quasi tutti i compiti si svolgevano online, il che era un bel vantaggio. Ero certo che se avessi detto a Taehyung cosa stavo facendo mi avrebbe concesso dei giorni liberi. Probabilmente me la sarei cavata con una battutaccia o due e tempo ventiquattr'ore si sarebbe dimenticato della faccenda. C'era però la remota possibilità che reagisse in modo strano e mi dicesse che era orgoglioso di me o roba del genere. Quello bastava a trattenermi dal parlargliene.
Peggio ancora, avrebbe potuto unire i puntini e tramare nell'ombra perché mi si aprisse qualche opportunità lavorativa perfetta per me. Volevo diventare un imprenditore tosto dopo essermi fatto il culo ed essermelo guadagnato. Non volevo regali.
Dovevo essermi appisolato, perché a un certo punto mi riscossi e scoprii una striscia di bava che collegava la mia faccia alla scrivania. Sentii qualcuno scuotere una maniglia in corridoio e delle imprecazioni soffocate. Mi sfregai gli occhi per scacciare il sonno, mi avvicinai incespicando alla porta e la sfessurai, sbirciando fuori per vedere cosa stava succedendo.
Dohyun era in piedi davanti al suo appartamento, le mani sui fianchi e l'aria incazzata.
«Litighi con la tua porta?», domandai.
Si girò di scatto e per un secondo il suo sguardo mandò lampi, come se si aspettasse un'aggressione. Si rilassò quando capì che ero io.
«A quanto pare, la chiave non funziona più».
Uscii in corridoio e tesi la mano. «Da' qua. Abito qui da tanto che conosco tutti i trucchi per aprire queste stupide serrature. Miss Yena hai il braccino corto e non fa le chiavi nuove, quindi dopo un po' finiscono tutte per consumarsi e smussarsi. Posso...».
Sentii un vuoto allo stomaco quando udii la mia, di porta, chiudersi alle mie spalle. Merda. Mesi prima aveva imparato a muoversi da sola e mi ero dovuto abituare a piazzare qualcosa contro lo stipite per non rimanere chiuso fuori senza chiavi. A quanto pareva, Min Dohyun riusciva a ottenebrarmi il cervello.
Tentai di aprire. Bloccata, ovviamente. Anche uno dei chiavistelli supplementari all'interno aveva l'abitudine di infilarsi da solo al suo posto se si chiudeva con troppa forza.
«Chiuso fuori? Siamo in due».
Sospirai. «Tu non sei chiuso fuori. Solo che non sai usare la chiave. Dammela».
Sembrava scettico, ma obbedì. Gli lanciai un'occhiata e vidi che aveva la maglia macchiata di sudore e i pantaloncini. Anche la pelle era ancora un po' sudata.
«Perché sei in questo stato pietoso?», chiesi e infilai la chiave nella toppa.
«Mi stavo allenando».
«In piena notte?»
«Mi piace andare in palestra quando è vuota».
Spinsi un po' in su la chiave e applicai pressioni differenti mentre spostavo lentamente il pomello. Alla fine, trovai il punto giusto e aprii.
«Ta-dan. Ora puoi andare a farti la doccia, ne hai un disperato bisogno».
Si riprese le chiavi, guardandomi; riuscivo praticamente a vedere il turbine dei suoi pensieri.
Mi resi conto di quanto fossimo vicini quando mi ritrovai intrappolato nella cornice della porta e riuscii a sentire il suo odore. Mi aspettavo puzzasse; che stupido. Chissà come, riusciva ad avere un buon profumo mascolino nonostante fosse madido di sudore. Non ero mai stato tipo da sbavare per gli uomini sudati; eppure, sentivo che mi convertivo sempre di più a ogni goccia che rotolava sulla clavicola e scompariva sul petto scolpito.
Nella mia mente passavano immagini di polpastrelli che si scavavano un sentiero sulla pelle muscolosa e sudata, illuminata solo dalla poca luna che entrava dalle finestre. Immaginai di essere avvolto da quel profumo virile che mi soggiogava come una droga.
«E dovrei lasciarti qui fuori da solo in piena notte dopo che mi hai salvato?», domandò.
«Posso andare a rompere a Miss Yena per farmi dare il passe-partout».
«No, invece. È fuori città e torna la settimana prossima. Ricordi?»
«Posso chiamare un fabbro».
«È tardi, dovrai aspettare ore».
«Se proprio vuoi invitarmi a casa tua, fallo e basta, coglione».
Incrociò le braccia al petto e si appoggiò allo stipite, un sorrisetto sulle labbra. «Si può sapere che problemi hai?»
«In questo momento? Tu. Se avessi saputo usare una chiave, ora io non sarei intrappolato in corridoio con il mio puzzolente vicino sudato».
«Puzzolente?». Si avvicinò un po' di più, senza smettere di sorridere. «A giudicare dalla tua faccia, la puzza ti piace».
Feci un passo indietro e scossi la testa. «Se ti sembro felice è solo perché stavo immaginando di darti una ginocchiata nelle palle».
Si vedeva dal sogghigno che aveva sgamato subito la bugia.
«Quindi ammetti che fantasticavi sulle mie palle?»
«E su come distruggerle, sì».
«Chissà perché, penso che se riuscissi a mettere le mani tra le mie gambe ti verrebbero ben altre idee».
«E chissà perché, penso che sei abituato a parlare così alla gente e farla franca».
«Così come?»
«Come uno spaccone sicuro di sé, come se potessi... dare per scontato che chiunque incontri voglia strozzarti la salsiccia».
Ridacchiò, ma allo stesso tempo mi trapassava con uno sguardo infuocato. «Non do per scontato che chiunque voglia scoparmi. Solo chi mi guarda a quel modo».
Cercai di immaginare la testa di mio papà sul corpo di Dohyun, al posto di quell'opera d'arte così bella da risultare irritante.
Inarcò le sopracciglia e mi fece un sorriso sghembo.
«Okay. Mi arrendo. Quella non è la faccia di chi spera in un colpo di fortuna; visto che puzzo tanto, farò meglio a correre nella doccia. Non ti lascio a fare anticamera in corridoio nel cuore della notte. Non è sicuro. Vieni a sederti sul divano. Puoi prendere uno spuntino o una birra in frigorifero».
«Già, perché se resto qua fuori potrebbe arrivare un pervertito che non conosco per rapirmi e portarmi a casa sua. Ma se vengo con te, almeno so di chi si tratta, giusto?».
Si leccò le labbra e trattenne a malapena un sorriso. «Mi sa che mi piaci».
«Mi sa che tu ti piaci ancora di più».
Rise. «Non la fai mai riposare quella bocca? Non che io lo farei», mormorò, abbassando gli occhi sulle mie labbra.
Sentii la mia barriera che cominciava a sgretolarsi. C'era un limite al flirt scoperto che riuscivo a respingere prima che qualche frase scivolasse nelle fessure del muro e mi scaldasse il petto. Sapevo che da qualche parte nel mio cervello galleggiava una replica mordace, ma non riuscii a emettere altro che un grugnito indifferente. Deglutii, poi mugugnai che potevo restare da solo in corridoio per qualche ora.
«Ne sono certo, ma non ce ne sarà bisogno. Vieni». Mi invitò con un gesto a entrare.
Non avevo intenzione di obbedire, ma scoprii che i miei piedi si muovevano lo stesso. Prima di rendermene conto, ero già dentro; mi sembrò di avere attraversato un confine invisibile - uno che mio malgrado desideravo valicare da molto prima di incontrare Dohyun.
Ogni tanto la gente cercava di avvicinarsi a me. Io mi ritraevo. A volte insistevano, ma vincevo sempre io. Riuscivo sempre a metterli in fuga con la giusta dose di sarcasmo e le mie battute al vetriolo. Quella sera, avevo lasciato vincere Dohyun. E la cosa peggiore era che invece di arrabbiarmi per la sconfitta provavo una sensazione dolcissima.
Casa sua era ordinata e minimalista. Quasi nessun suppellettile, tranne l'immagine anonima di una barca a remi appesa in corridoio, che sembrava abbandonata lì dal precedente proprietario. C'era solo lo stretto indispensabile.
«Per la cronaca, penso ancora che sia più pericoloso qui che là fuori», dissi.
Inclinò la testa e mi scrutò da capo a piedi con quei suoi occhi grigi. «Ne sono certo e vale per entrambi, ma è un pericolo d'altro genere».
«Cioè? Hai un serpente come animale domestico? O peggio, uno scimpanzé? La gente pensa che siano carini, passano anni a vestirli come delle persone. Un giorno il tuo piccolo pseudoumano si sveglia, decide che non gli hai messo abbastanza latte nei cornflakes e ti strappa la faccia. È successo davvero».
Rise. «Niente serpenti né pseudoumani». Parve sul punto di dire qualcosa, poi lasciò perdere. «Mettiti comodo. Torno tra qualche minuto».
Cominciò a sfilarsi la maglia prima di aver chiuso la porta del bagno; per una frazione di secondo, vidi ogni centimetro tentatore della sua ampia schiena muscolosa. Mi schiarii la gola e mi sedetti sul divano, poi balzai di nuovo in piedi e andai a specchiarmi nel vetro del quadro all'ingresso.
Sentii aprirsi l'acqua della doccia e dovetti ricorrere alla ginnastica mentale per impedirmi di immaginarlo mentre si spogliava in mezzo a nuvole di vapore che avvolgevano il suo poderoso, ben cesellato...
Buttai fuori un lungo respiro controllato. Non sapevo nemmeno perché ci tenessi tanto a reprimere l'attrazione che provavo verso di lui. In genere non mi piacevano le persone, ma contro i peni non avevo proprio nulla. Non potevo chiamarla infatuazione sessuale? Non serviva fingere che mi piacesse lui. Forse potevo far finta che fosse arrivato in una lucida scatola rosa alta un metro e novanta - un dildo ultimo modello, completo di ricco bastardo annesso.
Mi passai una mano tra i capelli e sprofondai sul divano. Chi volevo prendere in giro? Mi piaceva anche l'uomo attaccato al pene. Mi piaceva che per quanto gli mostrassi il peggio di cui ero capace, la cosa non lo scalfisse nemmeno. Mi piaceva come mi guardava. Non sembrava tipo da badare a me, eppure mi guardava come se fossi l'unica persona sulla faccia della terra. Sì, era ovvio: nascondeva qualcosa. Sì, probabilmente gli era stato servito il mondo su un piatto d'argento e l'idea di concedermi con la stessa facilità mi irritava; però mi piaceva.
Lo circondava un'aria di mistero. La sua postura trasudava sicurezza, come chi ha conquistato il mondo intero e non ha nulla da dimostrare. E poi c'erano quei momenti di paranoia che stonavano con il solito manto di fiducia. C'era il pacchetto arrivato nella posta, ovviamente, e la stranezza di farsi spedire la patente in una busta senza indirizzo. C'era il modo in cui mi aveva inseguito dopo avermi pescato a guardarlo e gli amici misteriosi quanto lui. E il sobbalzo qualche minuto prima, quando l'avevo trovato fuori dal suo appartamento, come se l'avessi colto in flagrante.
Min Dohyun, sempre che fosse il suo vero nome, di certo nascondeva qualcosa.
Un tonfo nella doccia mi riportò bruscamente alla realtà. Cercai a tentoni il telefonino, per rendermi conto quasi subito che non ce l'avevo.
Magnifico. Non potevo nemmeno chiamare il fabbro. Dovevo rientrare prima di giorno, a costo di buttare giù la porta. C'era Saja e avrebbe messo in scena una rivolta felina in solitaria se gli fosse venuto a mancare il cibo lasciato in buon ordine sul tavolo, a una temperatura leggermente superiore a quella ambientale, pronto per essere buttato sul pavimento e divorato barbaramente. Una volta assistito alle sue tendenze bislacche, avevo provato a lasciarlo per terra, ma a lui piaceva il sussulto di potere che derivava dal buttarcelo da solo. A volte i gatti sono stronzi.
Mi alzai e cercai di nuovo di scorgere il mio riflesso nel vetro della barca a remi. Una barca a remi. Era un simbolo? Non avrei proprio saputo dire di cosa.
Quel che riuscii a vedere del mio viso mi diede i brividi. Mi facevo un vanto di non essere uno di quelli, i ragazzi che non si presenterebbero mai al mondo se non in tenuta impeccabile, ma persino io avevo dei limiti. I capelli erano sottosopra. Le occhiaie cominciavano a vedersi. Su una guancia avevo persino una macchietta di quella che sembrava bava secca. Feci una smorfia, ripensando alle condizioni in cui avevo guardato in faccia Dohyun.
Mi diedi una rapida sistemata, per quanto possibile usando le mani e un po' di saliva dove necessario. Non avrei vinto nessun concorso di bellezza, ma almeno non potevano più scambiarmi per un paziente fuggito dal manicomio.
Quando l'acqua nella doccia si spense, quasi saltai di nuovo sul divano. Cambiai in tutta fretta posizione più volte, alla ricerca di quella giusta: doveva sembrare che fossi rimasto lì seduto per tutto il tempo, calmissimo. Mi allungai come pronto a farmi un sonnellino, poi decisi che era troppo disinvolto. Mi sedetti a gambe incrociate, le mani giunte. Troppo serio. Alla fine, appoggiai i piedi sul tavolino e le mani sul divano. Disinvolto il giusto.
Uscì dal bagno con addosso solo un asciugamano grigio scuro legato in vita. Sapeva esattamente ciò che faceva; mi incazzai perché funzionava così bene che non me ne importava niente.
Aveva tutti i muscoli scolpiti, persino quelli piccoli, sconosciuti, che non avevo mai capito se appartenessero alle costole o fossero addominali supplementari. Non era così palestrato da muoversi in modo strano, ma comunque sembrava capacissimo di colpirti in testa con una clava, prenderti in spalla e portarti nella sua caverna per dimostrarti che non era il fuoco il più grande miracolo dell'umanità.
Sentii un suono a metà tra le fusa di un gatto e un ringhio. Un secondo dopo capii, mortificato, che era uscito dalla mia gola. Tossicchiai, una mano sul petto. Sostenni il suo sguardo come se la mia vita dipendesse da quello. «Indigestione», esclamai. «Ho mangiato tre burrito a cena».
Annuì, come se quell'uscita meritasse una vaga ammirazione.
«Quindi... Ti sei dimenticato di prendere i vestiti puliti, giusto?». Avevo la gola secca, ma volevo con tutto me stesso spezzare il silenzio.
«Certo. Possiamo dire così. O forse, speravo di scoprire se fossi umano o un robot».
«Un robot, decisamente. Puoi guardare dentro se non mi credi. Tutta cavi, batterie e spinotti. Perché me ne frego altamente di tutta quella roba». Indicai il suo torso, piazzandomi in faccia un'aria quasi delusa, e nello stesso tempo convogliai nel mio cervello tutta l'energia che avevo per fotografare quel ricordo in ogni particolare, a costo di cancellare dati trascurabili per fargli spazio, tipo l'algebra o la storia degli Stati Uniti.
«Sarò sincero. L'idea di entrarti dentro mi era già passata per la testa».
Sentii le sopracciglia sollevarsi da sole. Di solito avevo un buon controllo dei miei lineamenti, ma era troppo. Guardarlo dritto negli occhi richiedeva tutta la mia capacità di concentrazione e non mi era di nessun aiuto. Sembravano due scure calamite roventi che minacciavano di attrarmi e non lasciarmi andare mai più.
«Possiamo continuare la conversazione dopo che ti sarai messo qualcosa addosso?». Non ce la facevo più. Mi coprii gli occhi con una mano e abbassai la testa. Che scoprisse pure la mia debolezza, non mi importava. Se avessi continuato a guardarlo, avrebbe visto molto di più.
«Certo». Sentii l'asciugamano cadere a terra; fece lo stesso rumore di un tuono.
Avevo il cervello in massima allerta. Uomo nudo. Uomo nudo. Pene al vento. Chiappe d'acciaio in piena vista. Il pacchetto completo. Avevo un uomo nudo dritto davanti a me e sarebbe bastato sbirciare tra le dita per vederlo.
Raccolsi tutta la forza di volontà che possedevo per tenere ferma la mano finché non sentii chiudersi la porta della camera da letto. Sospirai di sollievo e mi accasciai sul divano. Gesù. Morire di infarto causato da un uomo sexy sarebbe stato uno dei modi più imbarazzanti per andarmene all'altro mondo, soprattutto vista la reputazione che cercavo di conservare.
«Ehi», esclamai, sperando che riuscisse a sentirmi. «Posso usare il telefono per chiamare il fabbro? Ho lasciato il mio a casa».
«Come?». Aprì la porta e fece capolino fino alla vita, ancora nudo.
«Gesù». Mi coprii di nuovo gli occhi. «Piantala di sbandierarlo in giro, coglione».
Chiuse la porta. «Scusa, mi pareva avessi detto che stavi soffocando».
"No, invece, stronzo". «Ti ho chiesto se posso usare il telefono».
«È sul tavolino. La password è "Dohyun"».
Fissai il battente come se potessi leggergli in faccia attraverso il legno. Davvero mi lasciava aprire il suo cellulare senza supervisione?
Lo presi e digitai la password - per la cronaca, probabilmente la più stupida e la meno sicura insieme che avessi mai sentito. Funzionò e mi trovai davanti il desktop di default, all'apparenza senza nessuna app. Non aveva nemmeno notifiche di messaggi.
Lottai qualche secondo per controllare l'indice e sconfiggere l'impulso di ficcanasare. Mi ero sempre chiesto se davvero le gallery degli uomini "alpha" fossero piene zeppe di foto del loro uccello.
Aprii Google e feci per scrivere "fabbro", ma non appena toccai la barra di ricerca comparve un unico suggerimento, basato sulle ricerche più recenti: "Min Yoongi".
Per un attimo rimasi a guardare il display, accigliato, poi sentii la porta riaprirsi e mi affrettai a digitare quel che mi serviva. Aggiunsi il codice postale del quartiere, trovai un fabbro in zona e chiamai.
«Fatto?»
«Mmm».
Speravo di avere un tono indifferente, o ancora meglio - irritato. Adesso portava una semplice maglia bianca e pantaloni della tuta. Avrebbero dovuto dargli un'aria sciatta o da poltrone, ma ovviamente a lui stavano bene. E i capelli erano ancora spettinati e umidi, il che aumentava il desiderio istintivo di buttarlo su un letto e pretendere, coltello alla mano, che mi coccolasse a morte. Per fortuna non avevo un coltello.
Pochi minuti dopo lo raggiunsi in cucina. Stava versando della polvere in uno shaker e mescolando. Gli diedi il telefonino.
«Tutto tuo. Arriverà fra tre ore. Ha detto che prima non era possibile».
«Grazie». Bevve un lungo sorso, fremendo.
«Frullato proteico? Non ti fa venire l'aerofagia a manetta?».
Sorrise. «Ho lo stomaco robusto».
«Ho visto».
«Quindi hai sbirciato?».
Sospirai. «No. Hai praticamente messo in scena Full Monty, sei volte, tipo. Non mi serviva sbirciare per accorgermi che sei un fanatico salutista. Probabilmente non mangeresti una caramella nemmeno se ti puntassero una pistola contro, vero?».
Aprii un cassetto della cucina, in cui erano stipate almeno sei confezioni da un chilo di uvetta ricoperta di cioccolato.
«Fai sul serio? Con tutti i dolci del mondo, scegli l'uva disidratata ricoperta di cioccolato?»
«Allora». Ignorò la mia domanda. «Se sei stanco puoi farti un sonnellino nel mio letto. Io mi sistemo sul divano».
«Pensi che entrerò nel sex dungeon che hai piazzato in camera tua? No, grazie. Mi siedo per terra proprio accanto alla porta. Così se provi a fare scherzi posso scappare più in fretta».
Ridacchiò. «Cosa intendi con "fare scherzi"? Voglio essere sicuro di non spaventarti».
«Brutto segno, se devi chiedermelo».
«Okay, facciamo un patto. Puoi sederti per terra, se mi permetti di metterci un cuscino e darti una coperta».
«Come vuoi». Mi strinsi nelle spalle. Tolse uno dei cuscinoni dal divano e lo sistemò vicino alla porta. Poi andò a prendere in camera quella che aveva tutta l'aria di una trapunta appena tolta dal suo letto.
«Grazie». Mi sedetti sul cuscinone e mi coprii le gambe. «Credo».
La trapunta aveva il suo profumo, riuscii a malapena a resistere all'impulso di avvicinarmela al naso e mettermi in imbarazzo con una bella sniffata. Si sedette per terra poco lontano da me e rispose alla mia occhiataccia alzando le mani.
«Tranquillo. Non faccio niente di male. Ho solo pensato di tenerti compagnia. Tre ore sono lunghe da passare rimuginando».
«Magari mi piace rimuginare».
Mi aspettavo che sospirasse o ridesse; invece appoggiò la testa al muro con aria pensierosa. «A volte, piace anche a me».
«Non è la prima cosa che mi è venuta in mente guardandoti».
«Non mi conosci per niente».
Il suo tono mi colse di sorpresa, ma l'effetto venne attenuato dal sorrisetto che mi rivolse.
«È un invito a farti domande? Non che me ne importi qualcosa, tanto per essere chiari».
«Facciamo così: tu mi dici qualcosa di te, io ti dico qualcosa di me. Ti sembra uno scambio equo?»
«Qual è il tuo vero nome?»
«Yoongi», rispose, come se nulla fosse. Nessuna esitazione; tuttavia, alzò gli occhi per spiare la mia reazione. Ero solo vagamente sorpreso. Min Yoongi, probabilmente. Quindi, aveva cercato sé stesso su Google e nemmeno quello avrebbe dovuto stupirmi. Il fatto che avesse un nome falso sembrava quasi scontato. Quello che non sapevo era perché si fingesse qualcun altro. Scappava dai debiti? Dalla polizia?
«Ha più senso di Dohyun. Quindi, perché fingi di essere qualcun altro?»
«Nossignore. Tocca a te. Perché ti sforzi tanto di convincermi che non ti interesso?»
«Forse perché è vero?»
«No, invece».
Feci un verso indignato, ma senza riuscire a guardarlo negli occhi.
«Allora dimmi che mi sbaglio».
«Anche se mi interessassi davvero, rimarrebbe una cosa piuttosto vaga da dire. Cioè, mi interessa quello che succede ai nostri corpi dopo la morte. Mi interessa perché chiamiamo le nuvole "nebbia" quando sono vicino al terreno e non quando stanno in alto. Mi interessa imparare a finire un pasto senza rovesciarmene sempre un po' sui vestiti. O perché...».
«Perché cerchi di convincermi che non vuoi venire a letto con me?»
«Perché pensi di meritartelo, magari?».
Ridacchiò. «Cosa te lo fa pensare?»
«Guardati». Agitai le mani verso di lui. «Quante volte ti è bastato fare l'occhiolino a una ragazza o a un ragazzo per convincerlo a spogliarsi e implorarti di fare sesso? Mi sento in dovere verso il mondo di renderti la vita difficile».
«Be', ci sei riuscito. Più di una volta, in realtà».
"Oh, santo cielo...". Non ero tipo da arrossire, però mi sentivo le guance un po' accaldate. Dovevo avere la febbre. E comunque volevo cambiare discorso.
«Tocca a me. Perché tanta segretezza? Perché fingi di essere un certo Min Dohyun? E cosa ti ha fatto pensare che fosse un alias decente?»
«Sono due domande, quindi risponderò alla prima. È per via della mia sorellastra. Abbiamo avuto... un diverbio. Ha pensato che il modo migliore di vendicarsi fosse spargere voci false su di me in tutte le riviste e i tabloid che poteva. Nel giro di qualche settimana, avevo fatto coming out, avevo annunciato di voler cambiare sesso, avevo svelato la mia cartella clinica con tutte le malattie sessualmente trasmissibili che avevo, più lunga di uno scontrino... Potrei continuare, ma credo di aver reso l'idea. Voleva assicurarsi che ogni donna e uomo della città mi restasse a due metri buoni di distanza ed era solo questione di tempo prima che quei pettegolezzi sconci cominciassero a influire negativamente sugli affari».
Inarcai un sopracciglio. «È il genere di pettegolezzo con un nocciolo di verità o aria fritta?»
«Prova a indovinare».
«Nocciolo di verità?».
Mi guardò malissimo. «Tutte bugie. Ma non aveva nessuna importanza. Se avessi negato pubblicamente, non avrei fatto altro che legittimarle e attirare ancora di più l'attenzione. Ignorandole, sembrava che evitassi la realtà. Ho deciso che l'opzione migliore era nascondermi in bella vista e sperare che, non riuscendo a trovarmi, perdesse la voglia di rendere la mia vita un inferno».
«Sembra un piano molto stupido».
«Tu che suggerimenti hai?»
«Non so, dalle ciò che vuole? Che sarà mai?»
«Voleva una storia con me».
«Oh. Oh». Mi fermai a metabolizzare quell'informazione, poi scoppiai a ridere. «Però, be', è fantastico, da un certo punto di vista malato e perverso».
Mi guardava con un sorrisetto obliquo. «Sono contento di essere riuscito a strapparti un sorriso, almeno. È bastato avere una vita incasinata».
«Sorrido, qualche volta. Di solito solo con gente che mi piace, però».
«Significa che ti piaccio? Bene. Facciamo progressi».
Mi strinsi nelle spalle. «Non ho ancora deciso. Ma quella valeva come domanda. Tocca di nuovo a me».
Mi guardò dritto negli occhi, appoggiandosi un pollice sulle labbra; quel gesto mi fece andare a fuoco la pelle, come se stessi bruciando da dentro. Aveva una bella bocca. Non proprio imbronciata, ma nemmeno rigida e noiosa. I suoi gesti trasudavano sicurezza, persino i più impercettibili, come il modo in cui inclinava la testa da una parte quando sorrideva. Mi chiesi se fossi io o se chiunque dotato di battito cardiaco avrebbe trovato impossibile staccargli gli occhi di dosso.
«Chiedi pure».
«Perché ti interesso così tanto?»
«All'inizio, pensavo che mi spiassi per conto della mia sorellastra. Ma anche che assomigliassi un po' a un animale ferito. Ho sempre avuto un debole per le cose danneggiate».
«Chi dice che lo sono? Non serve un passato traumatico per diventare stronzi».
Rise. «Allora che scusa hai?»
«I miei genitori non mi hanno maltrattato. Immagino che si siano comportati come la maggior parte dei genitori sulla Terra. Si erano fatti un'idea di cosa sarei dovuto diventare e farmi raggiungere i loro obiettivi era diventata un'ossessione». La risposta mi sfuggì prima che me ne rendessi conto. Strana sensazione, come le cuciture di una sacca troppo piena che saltavano all'improvviso.
Prima di allora, avevo raccontato la mia storia solo alla mia migliore amica, Nayeon, dopo anni a costruire un rapporto di fiducia tra noi. Ma parlare con Yoongi sembrava una cosa naturale. Mi osservò con aria assorta, del tutto concentrato su di me.
«Venivano tutti e due da generazioni di riccastri. Il bisnonno di papà aveva fatto milioni con l'industria tessile e il bisnonno di mamma, ai suoi tempi, era un magnate dell'immobiliare. I nonni di entrambi non hanno mai avuto bisogno di lavorare e hanno fatto la bella vita grazie all'eredità. Case sparse in tutto il Paese, club esclusivi, yacht eccetera. Quando è arrivato il turno dei miei genitori, avevano le pretese dei ragazzini ricchi e viziati, ma l'eredità non bastava più a mantenere quello stile di vita. I loro genitori l'avevano praticamente già scialacquata. Quasi tutte le proprietà immobiliari erano state vendute dai miei nonni nei loro ultimi anni, perché i soldi cominciavano a scarseggiare. Non sapevano spendere meno, quindi hanno continuato fino a trovarsi i conti in rosso.
«I miei volevano un maschio da crescere come una specie di guru degli affari. Papà l'ha ammesso qualche anno fa, dopo essersi ubriacato. Quando mamma è rimasta incinta di me e hanno visto il mio carattere già allora indifferente, hanno deciso di continuare a provare; ma pochi mesi dopo avermi dato alla luce mamma ha dovuto fare l'isterectomia. Erano devastati e da bravi stronzi pessimisti e sessisti hanno deciso che non potevano crescere il figlio come un genio dell'imprenditoria. Volevano trasformarmi in un marito chiavi in mano - il pacchetto ideale con apertura facilitata, da dare in pegno al primo scapolo economicamente accettabile che fossero riusciti a trovare».
«Cazzo. Te l'hanno detto loro?»
«Già. Quando abbiamo fatto quel discorsetto, si può dire che avessi già bruciato un po' di ponti, quindi avevamo comunque un rapporto burrascoso. E l'alcol è stato d'aiuto. Pensavano che se avessi sposato uno ricco li avrei proiettati di nuovo nella vita da milionari».
«Quindi dovrei preoccuparmi per il nostro incontro? Sei ancora il marito chiavi in mano che aspetta solo di passare i miei soldi ai genitori?».
Feci una smorfia provocante. «Certo che sì. Per me sei solo un grosso salvadanaio sexy ben fornito. Tra un attimo scrivo ai miei per fargli sapere che sta andando alla grande».
Sorrise. «Sei ancora un pessimo bugiardo».
«Mentire non faceva parte dell'addestramento. Però, se vuoi che cammini tenendo una pila di libri in equilibrio sulla testa, che mangi seguendo ogni regola del galateo o ti lavi i panni, sono molto bravo. Conosco anche tutti i titoli dell'aristocrazia britannica, il che è utilissimo nella vita quotidiana. Chi non conosce un duca o una duchessa?».
Yoongi non rispose, però mi osservava con grande interesse. Credo che nessuno mi avesse mai ascoltato con tanta attenzione; ebbi di nuovo quella strana sensazione di febbre in faccia, ma ovviamente non perché stessi arrossendo.
«Quindi». Mi schiarii la gola. «Ho agito come avrebbero fatto la maggior parte dei ragazzini. Non appena tolto il guinzaglio, mi sono impegnato a diventare esattamente come non mi volevano. Offensivo. Sarcastico. Maligno. Tutto ciò che ti può venire in mente. Ero la personificazione del cliché. Pensavo di ribellarmi e non permettere ai miei genitori di decidere chi dovevo essere; alla fine, in pratica, gliel'ho permesso comunque».
Risi, con un po' di tristezza.
«Per la cronaca, se mai dovessi avere voglia di non mostrarti sarcastico e maligno, a me non dispiacerebbe. Pensandoci bene, però, non mi sembri cattivo; solo sincero. Ironico, visto che a quanto dici è tutta una maschera».
Giocherellai con le dita appoggiate sulle gambe, il cervello in tumulto. «Ormai chi lo sa qual è il vero me. Forse se reciti una parte abbastanza a lungo diventa la realtà. O forse no».
Sembrava pensieroso. «Be', cosa ti rende felice?».
Mi strinsi nelle spalle. «Non saprei. Vedere uno stupido sbattere contro un ostacolo o inciampare e cadere? Quando qualcuno fa lo stronzo e il karma lo morde al culo?».
Sogghignò. «Mi piace. Che altro?»
«Quando chi ritenevo un cretino si rivela una persona quasi decente».
Inarcò le sopracciglia. «Chi dice che sono quasi decente? Non sai quasi nulla di me. Nemmeno il mio nome, fino a poco fa. Potrei essere solo uno stronzo che si sforza di comportarsi bene».
«Be', lo sei?»
«Mi piace conservare un po' di mistero. Se vuoi scoprirlo, dovrai continuare a frequentarmi».
«Mmm». Guardai i lineamenti decisi e cercai di immaginare che genere di uomo fosse in realtà.
Avevo sempre creduto che la gente comune non potesse nascondere la propria vera identità. Avevo letto da qualche parte che la nostra espressione a riposo viene modellata lentamente da come viviamo la nostra vita. Se siamo quasi sempre accigliati, i muscoli che usiamo per assumere quell'espressione diventano più forti e rendono la nostra faccia più minacciosa. Qualcuno che sorride tutto il giorno sembrerà più felice e così via.
Con Yoongi, mi sembrava di vedere solo un'intensa concentrazione. Riuscivo a immaginare una vita passata a perseguire uno scopo senza mai distrarsi. Lo immaginavo estraniarsi dal mondo, lavorare e lavorare più di quanto sarebbe stata capace una persona normale. Era uno di quelli che nulla può scalfire, pensai - un uomo che non scegli, perché è lui che sceglie te.
Più lo guardavo, più ero certo che mi avesse in effetti scelto e che volesse farmi entrare nella sua vita.
«Quando ti guardo, vedo solo un tipo che non avrei mai immaginato potesse interessarsi a un ragazzo come me».
«Non è facile distrarmi; eppure, da quando hai messo le mani sul mio pacco, non sono riuscito a pensare ad altro».
«Be'». Un sussurro roco fu tutto quel che mi uscì di bocca, come se avesse fatto un incantesimo all'aria stessa. Avrei voluto assumere un tono calmo - persino indifferente - ma sentivo una mano stringermi la gola, fino ad avere l'eco dei miei battiti nelle orecchie. «Scelta di parole da vero manipolatore».
«Quale parte? Quando ho detto che non riesco a smettere di pensare a te, o che hai palpeggiato il mio pacco e mi è piaciuto?».
Non sapevo se la stanza si stesse restringendo, o se lui si fosse avvicinato, perché sembrava pericolosamente a distanza di bacio.
«Tutte e due...».
Mi ritrovai un suo dito sulla faccia. Scivolava dal mio orecchio al mento e lasciava ovunque andasse un formicolio caldo e meraviglioso. Chiusi gli occhi e mi protesi in avanti, le labbra pronte a un bacio. Fu automatico. Non avrei potuto fermarmi nemmeno se l'avessi voluto, come non avrei potuto non boccheggiare in cerca d'aria se fossi stato sul punto di affogare.
Sentii le sue labbra venire a contatto con le mie. Senza fretta. Morbide e tenere. La realtà si condensò attorno a noi, mi sembrò di avere le orecchie tappate e i sensi offuscati, ogni centimetro del mio cervello era concentrato solo e unicamente sul bacio - sulle sue labbra. Pelle morbida ma soda. Caldo. Umido al punto giusto, un sapore a malapena percepibile che rischiava di diventare una droga. Fu un'estasi, pochi secondi che mi consumarono.
Quindi, all'inizio non udii bussare. Scomparvero le labbra che avevo a malapena assaggiato. Mi spostai in avanti con un sussulto, cercandole, ma non trovai nulla. Aprii gli occhi e scoprii che lui guardava la porta.
«Mi sa che è arrivato il fabbro».
Ovviamente. Mi alzai troppo in fretta, il sangue mi andò alla testa e per poco non inciampai. Sembrava che si fosse radunato in tutt'altra parte del corpo.
«Scusa per il bacio», dissi. «Non so che mi è preso. I gesti romantici spontanei non sono da me. Probabilmente sono ancora mezzo addormentato».
Si alzò piano piano. «Sono quasi certo di essere stato io a baciarti. Non so se puoi prenderti il merito solo per essere rimasto seduto lì senza reagire».
«Okay, be', mi dispiace che tu mi abbia baciato, allora».
«A me no».
Deglutii. Palesemente, come un cartone animato, in maniera molto teatrale e facendo un gran rumore imbarazzante.
«Okay, be', meglio che vada».
«Torno a prenderti domani alle sette».
Non mi venne in mente un motivo per rifiutare o cambiare idea. Sentivo solo un rimescolio ronzante ed eccitato nello stomaco, qualcosa che non avevo mai provato prima. Quello e il desiderio di chiamare Nayeon e fare una chiacchierata tra migliori amici seria, cosa che proprio non era da me.
Non sarei caduto tanto in basso. Per il momento, mi sarei tenuto stretta la mia dignità, per quanto possibile, anche se Yoongi sembrava un torrente impetuoso di fascino, bellezza e svenimenti che cercava di sradicare me e ogni malumore che avessi mai cercato di difendere.
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