Capitolo 10

YOONGI'S POV:

Dieci minuti dopo il mio rientro abbandonammo l'idea di guardare davvero la maratona di Crescere, che fatica! Passai mezz'ora in uno stato di rapimento di fronte a Jimin e al suo stomaco senza fondo. Ingurgitò tre fette di pizza, quattro grissini al formaggio, una fetta di dolce fatto con l'impasto della pizza e tre wonton al formaggio. E si spazzolò l'intero frappè.

«Mi sento un po' evirato. Non credo che potrò mai eguagliarti». Posai la mia fetta di dolce con un sospiro rassegnato. Quel ragazzo era la metà di me ed era riuscito a battermi.

«Non è una gara. A meno che tu non sia troppo orgoglioso per ammettere che ti straccio a tavola».

Risi. «Però se la metti così assomiglia molto a una gara».

«Non c'è niente di male a perdere, Yoongi. Accetta la sconfitta».

«Ma non è quello. Sto cercando di capire dove metti tutto quel cibo».

«Facile: digiuno preparatorio. Sono una specie di drogato delle maratone. Non guardo questi programmi ogni giorno e nemmeno ogni settimana, ma quando sento che sta per esserci una maratona in TV, per me è festa grande».

Sorrisi. «Lo sai che Netflix è un juke-box di maratone, vero? Non serve aspettare che arrivino in TV né sorbirsi la pubblicità».

Non riuscii a decifrare cosa gli passasse nello sguardo in quel momento. «Penso che sia l'effetto nostalgia. Senza la pubblicità o l'obbligo di organizzare la giornata apposta, non è lo stesso. I miei genitori mi facevano sempre molta pressione per tutto, ma avevamo una specie di tradizione di famiglia: le serate maratona quando c'era uno dei loro programmi preferiti. Era l'unica occasione in cui si dimenticavano di fare i bastardi. Non mangiavamo niente per tutto il giorno, poi mettevamo su un banchetto e restavamo davanti alla TV fino a addormentarci. Forse era il cibo a mandarci in coma, ma probabilmente sono gli unici ricordi che ho di loro in cui non mi davano il tormento né mi pungolavano. Stavamo insieme e basta e non gli importava se non mi comportavo da perfetto signorino».

Lo guardai in viso mentre parlava e riuscivo quasi a vederlo, più piccolo, seduto sul divano in mezzo ai genitori dall'aria severa. Mi resi conto che aveva ancora dentro quel bambino in cerca di amore e comprensione e che aveva imparato a mettersi una maschera di durezza per convincere il mondo che stava bene.

Sapevo cosa dovevo fare per lui. Non aveva bisogno che gli facessi perdere la testa, né che lo convincessi di essere il ragazzo più bello del mondo, anche se cominciavo a pensarlo: dovevo solo accettarlo e volergli bene. La notte in cui mi ero pietrificato dopo il messaggio di Mina, probabilmente avevo mandato in frantumi la fiducia che cominciava a nutrire nei miei confronti e dovevo impegnarmi a ricostruirla.

«Quindi, non avevo nessuna possibilità fin dall'inizio, perché è una vita che ti alleni a mangiare così?».

Annuì, sorrise persino. «Esatto».

Quando Jimin si fu ingozzato a sufficienza, ci sedemmo sul divano. Non oppose resistenza quando gli cinsi le spalle con un braccio e lo strinsi al petto. Fu una bella sensazione. Non ero mai stato tipo da coccole, forse perché in passato non avevo mai voluto dare l'impressione sbagliata a una donna o uomo che era, o forse perché non ero mai stato preso a sufficienza.

«Sai», disse Jimin dopo un po'. «Nei film d'amore, quando lui e lei si abbuffano di pizza e dieci minuti dopo scopano, è davvero inverosimile. Cioè, hai una specie di bambino di cibo unto nello stomaco. Davvero ti viene in mente di spogliarti, salire a cavalcioni di un tizio e comportarti come se ti sentissi sexy?»

«Bambino di cibo unto», ripetei sottovoce. «Hai ragione, se la metti così, all'improvviso non ne ho più molta voglia».

Piegò la testa appoggiata al mio petto per guardarmi in faccia. «Non trovi sexy il mio bambino di cibo?». Si alzò la maglia e gonfiò lo stomaco in un'imitazione sorprendentemente rotonda dei primi stadi di gravidanza.

Risi, gli appoggiai il palmo della mano sulla pancia e la strizzai per gioco. «Non sento niente, io».

Si divincolò e scattò su a sedere con aria serissima. «Non farmi il solletico».

Inarcai le sopracciglia. «Cosa? Perché no?»

«Non ho nessuna intenzione di spiegartelo, quindi non chiedere. Non farlo e basta».

«Eddai. Non puoi lasciarmi nel dubbio. Perché no?».

Divenne rosso come un peperone. «Ci sono ragazzi che preferiscono mantenere un velo di mistero. Okay?».

Gli feci un sorriso obliquo. «E va bene. Ma un giorno lo scoprirò. Te lo garantisco».

«Spero di no. Per il bene di tutti e due».

Aveva lasciato il telefonino sul bracciolo del divano; quando si illuminò e cominciò a vibrare, riuscì ad acchiapparlo appena in tempo, prima che cadesse a terra. Guardò lo schermo, accigliandosi. «Ah, merda. Scusa, ti dispiace se rispondo? Potrebbe essere il posto dei gatti».

Ero perplesso, ma annuii. "Il posto dei gatti?".

«Pronto?». Lo vidi esitare, poi aggrottare la fronte. «Oh. Oh, sì. Rose. Mi ricordo di te. La sera alla Galleon, come no».

Un'altra pausa.

«Uhm, certo. Un attimo». Allontanò il telefonino dall'orecchio e si girò verso di me. «Ehi. Volevi fare qualcosa con me domattina?»

«Ho delle riunioni di lavoro. Pensavo di riprendere i tentativi di seduzione non prima di domani sera».

Parlò di nuovo al telefono. «Domattina va bene».

Pochi secondi dopo riattaccò. «C'è una ragazza che ho incontrato a una festa aziendale. Ha detto che ha problemi con un tipo o roba del genere e voleva sfogarsi. Caffè gratis e dettagli piccanti su un dramma di qualche genere».

«Be', se stanotte va secondo i piani, avrai bisogno di caffeina».

«Perché, vuoi drogarmi, forse?»

«Cosa? No. Volevo dire che starai fuori tutta la notte».

«Oh. Sì, ha più senso, in effetti. Ma se stiamo in giro fino al mattino, mi farai perdere le ultime quattro ore di maratona. Ti servirà un'idea bella potente per farmi alzare dal divano».

«Quello che vuoi. Se avessi la città intera a disposizione, cosa vorresti fare?»

«Uh, non saprei, sgattaiolare a Mokdong e pattinare sul ghiaccio dopo l'orario di chiusura?»

«Facile. Tutto qui?»

«Facile? Non ti facevo uno che infrange le regole. L'ultimo turno è a mezzanotte. Sono le due del mattino e probabilmente ci sono le guardie».

«Lascia fare a me. Hai i pattini?».

Si alzò senza dire nulla, aprì una porta e tirò fuori un paio di pattini da ghiaccio relativamente lussuosi. «E tu?».

◦•●◉✿✿◉●•◦

C'era un solo addetto alla sicurezza in quell'area e bastarono due chiacchiere per convincerlo a lasciarci sgattaiolare sul ghiaccio in cambio di un centone. Mi concesse persino un paio di pattini tra quelli che si prendevano a noleggio. Sembrava eccitarlo più l'idea della mazzetta che la cifra offerta; sospettavo che avrebbe accettato anche per cinque dollari, o persino per un cheeseburger.

Mi sedetti davanti a Jimin fuori dalla pista e mi allacciai i pattini. Fu più o meno in quel momento che mi resi conto che non ero mai stato sul ghiaccio prima d'allora. Stavo per fare la figura dell'idiota. «Sicuro che è questo che vuoi? Ho detto che potevi scegliere qualsiasi cosa, ricordi?».

Mi fissò, poi accennò un sorrisetto. «Stai cercando di dirmi che non sai pattinare?»

«Non esagerare. Non ho nessuna esperienza diretta, ma che ci vorrà mai?»

«Lo scopriremo presto, giusto?».

Strinsi le cinghie con uno strattone e decisi che avrei fatto il culo a quel ghiaccio. Jimin sembrava già convinto che mi sarei messo in imbarazzo; gli avrei dimostrato che si sbagliava.

Entrò sulla pista e dimostrò subito di avere molta esperienza: fece un mezzo giro in scioltezza e cominciò ad allontanarsi all'indietro, guardandomi con aria impaziente. Sembrava quasi che volesse vedermi cadere.

Reggendomi al bordo dell'ingresso, appoggiai un piede esitante sul ghiaccio. Vedendo che il pattino aderiva abbastanza bene, mi rinfrancai. Non appena sollevai l'altro piede, il primo scivolò in avanti e piombai a terra con una spaccata che mise a dura prova la mia flessibilità.

Sentii una fiammata di acuto dolore all'inguine. Gemetti e mi raggomitolai su un fianco, in attesa che si affievolisse.

Jimin si avvicinò e allungò una mano per aiutarmi.

«Sto bene». Non riuscii a nascondere la tensione nella voce; mi aggrappai al cancelletto d'ingresso e cercai di sollevarmi a braccia.

«Prova ad allargare un po' i piedi, così non scivoli in avanti».

«Va tutto bene. Il ghiaccio qui era un po' bagnato e ho...». Persi di nuovo l'equilibrio e stavolta caddi di schiena, ritrovandomi a fissare di sotto in su Jimin incorniciato dalla neve che cadeva. «Potrei chiederti se sei un angelo, ma non penso che un angelo avrebbe quell'aria divertita di fronte alle mie sofferenze».

«Di fronte alla tua cocciutaggine, più che altro. Vuoi una mano, o ti diverti a farti male?».

Goffamente, riuscii ad alzarmi carponi e poi in piedi, barcollando. Alla fine rimasi dritto, ma sentivo che i pattini minacciavano di scivolare da un momento all'altro. Svanita ogni velleità di mostrarmi calmo e sicuro di me, rimase solo il bisogno primordiale di sopravvivere a quella prova.

«Forse mi farebbe comodo qualche consiglio», dissi, senza staccare gli occhi dai pattini.

Si avvicinò con un movimento fluido e mi appoggiò le mani piccole sui fianchi, stabilizzandomi. Mi picchiettò sull'interno coscia. «Allarga un po' di più le gambe. Se le tieni così dritte, le lame cercheranno di scivolare in avanti o indietro da sole».

«Sai, non mi aspettavo che stanotte fossi tu a dire a me di allargare le gambe».

«Ti dispiacerebbe concentrarti sul non cadere, invece di fare battutine?». Mi diede un altro colpetto nello stesso punto e spinse verso l'esterno.

Lo lasciai fare e mi sentii subito un po' più stabile. «Okay, quindi adesso come avanzo?»

«Piegati in avanti».

Obbedii e persi subito l'equilibrio, finendo di faccia sul ghiaccio; riuscii a malapena a parare la caduta con le mani. Mugugnai.

Jimin rise. «Oh, mio Dio. Non mi aspettavo che ci credessi. Scusa. Mi dispiace». Si accovacciò e mi aiutò a rialzarmi. Non avevo mai visto un sorriso ampio come quello; qualsiasi possibile traccia di irritazione evaporò di fronte alla sua gioia.

«Già, avrei dovuto capirlo che era un'idea stupida».

«Cosa, piegarti o fidarti di me?»

«Tutte e due, probabilmente».

Mi spiegò i fondamentali e poco dopo stavo girando in cerchio sulla pista. Era piacevole, mi dimenticai di tormentarmi per la goffaggine che di certo dimostravo, muovendomi a un quarto della sua velocità. Mi misi a guardarlo pattinare di qua e di là come se il ghiaccio fosse la sua seconda casa. Non si pavoneggiò con piroette o salti, ma, chissà perché, ero certo che avrebbe potuto. Poco dopo mi affiancò, adeguandosi al mio passo.

«Stai migliorando».

«Non ti avevo preso per un pattinatore».

«Già, be', non è che sia mai andato alle Olimpiadi. Era solo il mio peccatuccio».

«Peccato? Perché mai dovresti sentirti in colpa?»

«I miei genitori sarebbero stati al settimo cielo se mi fossi innamorato del pattinaggio su ghiaccio. Qualsiasi cosa impersonasse il bambino e ragazzo di lusso ideale era un "sì" automatico. Certo, ci sono anche delle pattinatrici femmine, ma, insomma... Su, sarei stato comunque più bravo di loro».

Accennai un sorriso. «Sì, le tutine aderenti non urlano "macho man". Né i gesti che fanno con le mani».

«Già, insomma, il modo più veloce per farmi odiare qualcosa era che i miei genitori me lo volessero imporre. Quindi, il pattinaggio sul ghiaccio era off-limits. O almeno, avrebbe dovuto. Una volta abbiamo fatto una prova con la scuola. Non avevo mai messo i pattini, ricordo ancora come mi sentii. La mia vita era piena di rigidità e resistenze, era una lotta continua. Poi sono sceso sul ghiaccio e per una volta ho sentito che mi stavo lasciando andare. Sapevo che stavo esaudendo un desiderio dei miei genitori, ma era una mia scelta».

Ridacchiai. «Lo sai, sembri l'antitesi di Cenerentola. La principessa che vorrebbe diventare una popolana».

«Se io sono l'antitesi di Cenerentola, tu sei il Principe Non Azzurro?»

«Non posso rispondere, sono di parte. Perché non me lo dici tu?».

Piroettò e si mise a pattinare all'indietro di fronte a me, in modo da potermi sorridere. «Be', dipende. Se bastano la perfezione e la sfrontatezza e un viso troppo bello per rispondere ai requisiti, allora sì. Lo impersoni a meraviglia».

«Non sono perfetto».

Inarcò le sopracciglia e dopo un po' mi prese le mani e mi costrinse a fermarmi accanto a lui, traballando. Ci appoggiammo alla parete esterna della pista. «Dimostramelo, buco di culo».

«Eccola, la prima prova: non esiste un buco di culo perfetto. Siamo onesti, chi starebbe a guardarne uno volentieri?»

«Parlo seriamente. E comunque, grazie, considerando che l'altra notte mi hai allargato le gambe e hai dato una bella guardata al mio».

«Sono un gentiluomo. Non mi sarei mai permesso di farlo senza il tuo consenso».

Scoppiò a ridere, sorpreso, poi rincarò con un sorriso che mi fece temere di cadere a terra di nuovo, ma stavolta non per via delle mie scarse abilità sui pattini.

«Il mio culo è al sicuro finché non lo offro», mormorò, pensieroso. «Ne prendo nota. Posso sapere che genere di rituale preveda?»

«Oh, quando arriverà il momento buono lo saprai».

«Aspetto ancora le mie prove, Mr Non Azzurro».

«Okay. Non sono perfetto perché mi piace intingere i toast al formaggio nel ketchup».

«Scusa patetica. L'ho fatto anch'io. Hai mai dato un morso a un panetto di burro come fosse una barretta di cioccolato?».

Inorridii al pensiero.

«Sì, esatto. Va' avanti».

«Okay. A otto anni ho intasato il bagno a casa di un mio amico e quando mi hanno chiesto spiegazioni ho dato la colpa a sua nonna».

«Sei un mostro», commentò, sarcastico. «Se è tutto qui quello che hai, continuerò a dare per scontato che tu sia perfetto».

«Allora senti questa. Mi sa che mi sto innamorando di un ragazzo incontrato qualche giorno fa. È un brutto momento per iniziare una relazione. Ho troppi casini al lavoro per pensare a uscire con qualcuno. Ho una sorellastra psicopatica decisa a rovinarmi la vita e a fare lo stesso con le persone a cui voglio bene. E il ragazzo ha un gatto. Lo sanno tutti che sono molto inferiori ai cani, quindi è ovvio che abbia dei problemi».

«Un amante dei cani. Ecco la conferma; non sei perfetto, dopo tutto».

«Quindi». Ricominciammo a pattinare. «Dovevi allenarti di nascosto, immagino. O alla fine lo hai detto ai tuoi?»

«Mai. Ancora oggi, non ne sanno niente. Mentivo e dicevo che restavo a scuola nel pomeriggio per dei progetti di gruppo. Andavo al palaghiaccio e mi estraniavo da tutto. Immagino che fossero quelli i momenti in cui sognavo chi sarei potuto diventare se i miei genitori mi avessero fatto meno pressioni».

«E come saresti stato?».

Mi fece un sorriso obliquo. «Probabilmente una Pollyanna tutta perbenino». Si strinse nelle spalle. «Forse è un bene che si siano sforzati di modellarmi secondo i loro desideri. Dopotutto, non mi sembri il tipo da invaghirti dei principini».

Risi. «Ne è bastato uno per capire che non erano il mio genere. No, preferisco quelli che hanno spina dorsale. Sei diverso, è questo che mi piace di te».

«Anche tu sei diverso da come ti avevo immaginato. Devo ammetterlo, ti avevo inquadrato come un Dong-sun che passava le giornate sullo yacht».

Risi. «Be', sfortunatamente, uno dei miei migliori amici si chiama Dong-sun. E, qui lo dico e qui lo nego, ma potrei avere davvero uno yacht. Quindi forse non sono poi tanto diverso».

Rise. «Dove c'è il denaro, c'è un Dong-sun. È una legge universale. Hai anche un amico di nome Soobin? O forse Edward?»

«Nessun Soobin, ma un altro figlio di mio padre si chiama Geum-jae, in effetti».

«Cazzo! Con te, vincerei al bingo di cliché sui riccastri in pochi secondi».

«Posso giocare anch'io. Fai sacrifici a Halloween? Ti piace andare per boschi di notte e ballare nudo attorno ai falò?»

«No e sì», rispose, serissimo.

«Non mi aspettavo il sì, però la prossima volta che organizzi un ballo nature nella foresta potresti mandarmi un messaggio; potrei assistere e darti consigli tecnici».

«Ti piacerebbe, vero? Maniaco».

«In fondo, l'altra notte ti ho spogliato e ho recitato l'alfabeto con la lingua tra le tue gambe. È ovvio che mi interessa cos'hai sotto i vestiti. Non mi pare di averne fatto mistero».

Arrossì. «Già, be', almeno il mio culo imperfetto è ancora un segreto. Credo».

«Non l'ho proprio guardato... bene». Cercò di colpirmi, ma io gli afferrai al volo le mani. «Tutto considerato, penso che sia spettacolare».

«Piantala. Mi farai arrossire e non è da me».

«Sei già rosso».

«No, ho un'emorragia interna. Non gongolare così».

«Chiedo scusa. Pensavo che la mia opera di seduzione cominciasse finalmente a funzionare».

«Forse un pochino».

«Comunque. Sono contento di questa notte. Mi piace poter guardare dietro le quinte, anche solo per un po'».

«E che cosa ci vedi dietro le mie?»

«Non ne sono sicuro. Avevo gli occhi chiusi, quando ho alzato il sipario».

Esitò, poi fece una smorfia di disgusto. «Oh, mio Dio. Per favore, non chiamare mai più "sipario" nessuna parte della mia anatomia maschile».

Risi. «Scusami. Hai perfettamente ragione, è una parola orribile e poco lusinghiera. Non ho resistito. Me l'hai servita su un piatto d'argento».

Assunse un'aria interrogativa e allargò le mani. «Quindi? Lasciando da parte il tuo pessimo senso dell'umorismo. Che segreti ti ho rivelato?»

«Che forse una scusa quasi decente per comportarti da stronzo frigido ce l'hai».

Rise. «Mi raccomando, non pesare le parole. Cazzo».

«Scherzo - quasi. Sei bravo a indossare quella maschera, ma io non me la sono mai bevuta. Non fino in fondo».

«Chi ha detto che è una maschera?»

«I tuoi occhi. Controlli bene i lineamenti, ma non quelli. E hai un fremito sulle labbra quando qualcosa ti diverte. Inoltre, è dal nostro primo incontro che mi scopi con gli occhi».

Aprì la bocca per protestare, poi la richiuse di scatto.

Risi forte. «Cazzo. Ci ho azzeccato in pieno?»

«Chiudi il becco. No. Ero solo sbalordito dalla tua sfacciataggine».

«Mi sbaglio, forse?»

«Non ti ho scopato con gli occhi. Forse, ogni tanto immaginavo che genere di persona potessi essere. Ma niente di più».

«Passi le giornate a fingere, eppure sei un pessimo bugiardo».

«Occhio a dove metti i piedi, Dohyun».

Abbassai lo sguardo. «Eh? Non vedo niente».

Alzò gli occhi al cielo. «Ho scelto male le parole. Lo sai che intendevo. Se vuoi ottenere qualcosa dai tuoi gesti romantici, sarà meglio che la smetti di prendermi in giro».

«Non so di che parli. Non ho fatto nessun gesto romantico e non spero in nessuna ricompensa».

«Stiamo pattinando sul ghiaccio in mezzo ai fiocchi di neve. Andiamo. Questo è romanticismo all'ennesima potenza. Al novanta per cento, come minimo. Ammettilo. Ti stai sforzando un sacco, anche se non riesco a capire perché mai ti interessi a me».

«Diciamo al centodieci per cento», ammisi, con una risatina. «Mi sforzo perché non riesco a farne a meno. Nemmeno io capisco bene il perché, ma con te è tutto diverso. Mi hai attratto sin dalla prima volta in cui ci siamo parlati. Prima pensavo solo al lavoro, ora all'improvviso mi devo sforzare per concentrarmici. Continuavo a pensare a come conquistarti o infrangere le barriere di sarcasmo di cui ti circondi».

«Barriere di sarcasmo. Cattivo».

«Non mi sto lamentando».

«Allora perché non hai ancora fatto la domanda fondamentale?».

Mi girai verso di lui, scordandomi dei pattini, e caddi di culo.

Tanto per aggiungere umiliazione su umiliazione, scivolai di sedere per qualche metro e andai a sbattere contro il recinto della pista.

Jimin si piegò con grazia sulle ginocchia e pattinò fino a me, poi si accovacciò tra le mie gambe e mi guardò fisso. Mi sorprese l'improvviso silenzio della notte, ora che non si sentivano più le nostre lame graffiare il ghiaccio.

«Mi sa che stanotte ho battuto troppe volte la testa, non ricordo quale sia la domanda fondamentale. Potresti aiutarmi?»

«Non mi hai chiesto perché ho accettato di uscire con te due

». «Non è ovvio?». Sorrisi.

Mi diede un pugno sul petto che mi fece ridere. «Dico sul serio».

Tornai serio e scossi la testa. «Devo indovinare, o è una domanda retorica?»

«Ho accettato perché di solito la gente mi sfinisce. Bastano pochi minuti di interazioni sociali e me ne passa la voglia per una settimana. Sei il primo da cui abbia mai voluto di più». Abbassò gli occhi; il silenzio che seguì sembrò aggiungere maggior peso alle sue parole.

Gli sfiorai il mento per sollevargli il viso. «Di solito, a questo punto farei la mia mossa, ma temo di poter spostare solo di qualche centimetro le braccia senza cadere ancora peggio».

«Cioè?»

«Se non vuoi che ci fermiamo qui, dovrai trascinarmi fuori e dimenticare tutto ciò che è successo».

Si alzò, mi si mise accanto e mi prese le mani, poi cominciò a pattinare, trascinandomi supino sul ghiaccio.

«Visto da quaggiù, hai un bel culo», dissi, fissandolo di sotto in su.

Si girò a lanciarmi un'occhiataccia. «Significa che dalla tua prospettiva normale è brutto?»

«Niente affatto. È magnifico da ogni punto lo si guardi».

«Già, mi chiedo se la tua sorellastra sia della stessa opinione».

Feci una smorfia. Me lo meritavo, anche se odiavo quanto lui ciò che aveva fatto Mina.

Mi trascinò fino all'ingresso, dove riuscii ad arrancare in maniera molto poco dignitosa fuori dalla pista. «Mi sa che mi è piaciuto più essere trascinato sul ghiaccio che pattinarci».

«Per il mio culo, o perché non rischiavi di cadere?»

«Per il culo, decisamente».

Si morse il labbro, poi si inginocchiò e mi spinse sulle spalle. Ero ancora seduto in terra e per un attimo pensai che volesse farmi sdraiare.

«Che fai?»

«Ti voglio come prima. Sì». Mi fece allargare le gambe. «Così va bene». Si inginocchiò di nuovo nel mezzo, come poco prima sul ghiaccio. «Se ricordo bene, hai detto che saresti passato all'azione, se avessi potuto muoverti».

Lo presi per la nuca e lo baciai. Aveva le labbra un po' freddine, ma la lingua rovente. Sperai vagamente che la guardia che avevo corrotto non fosse rimasta nei paraggi e non potesse vederci pomiciare, ma non avrei comunque permesso a nulla di impedirmi di prenderlo come volevo una seconda volta.

«Sicuro che lei non ci stia filmando?», domandò Jimin.

«No», ammisi. «Ma dovrei farle un applauso se avesse pensato a nascondere delle telecamere qui. Però, pensavo di tornare al chiuso. Farti venire i geloni al culo non lo chiamerei finire la notte in bellezza».

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