𝟗.

Marina partì il giorno dopo.

Saranno solo due settimane.

Me lo disse la mattina.
Venne in spiaggia solo per me.

Dobbiamo solo sistemare un paio di cose. Finire il trasloco.

La guardai.
Sembrava stanca, aveva la fronte contratta.

Mi strinse forte e io feci lo stesso.
La lasciai andare, anche se avrei voluto trattenerla lì con me per sempre, solo noi due sulla sabbia, a camminare.
Solo noi, sulla sabbia...
Ci guardammo.
Ma non ci baciammo.

Passai il tempo senza di lei cercandola in ogni cosa.
Una sera ripercorsi i nostri passi. Il ristorante, la gelateria... E poi il cinema, la spiaggia di sera...
Raccolsi le conchiglie che lei avrebbe raccolto, mi sedetti sul molo come lei avrebbe fatto.
Com'era la mia vita prima di Marina?
Mi sembrava di non ricordarla - o di ricordarla insapore.
Avevo bisogno dei suoi sorrisi, del suo entusiasmo, del suo voler andare da qualsiasi parte e stare immobili, del suo rimanere in silenzio e della sua voglia di gridare.

Dopo quattro giorni della sua assenza, mi arrivò un messaggio.

Dueditram:
Vì, mi manchi e non poco. Qui fa troppo caldo e non c'è il mare. Dopo ti chiamo al telefono.

E mi chiamò davvero.
Sotto si sentivano i rumori del traffico.
Io ero imbarazzata.
C'erano momenti in cui stavamo solo silenzio, e la immaginavo sul balcone a guardare il cielo, lo stesso cielo che copriva me, che ci racchiudeva insieme anche se lontane, mentre io ero sdraiata sul letto.
Parlammo.
Mi disse che voleva prendere un coniglio, quando sarebbe tornata lì da me.
Che aveva fatto qualche passeggiata da sola ma non era la stessa cosa. 
Che aveva voglia di andare a ballare.
Che le mancavo, in un sussurro appena udibile.
Pensavamo entrambe alle nostre labbra che si sfioravano, ma non avevamo il coraggio di dire niente. Ci pensava? Me lo chiesi mille e mille volte mentre ascoltavo la sua voce. Sì, ci pensava.
Eravamo in attesa. Stavamo prendendo fiato, cercando il coraggio, forse.
Parlammo e parlammo.
Fino a che lei non mi disse che doveva cenare.
Torno presto.
E poi, dopo due secondi di esitazione:
Aspettami
Sorrisi.

I giorni seguenti mi arrivarono solo messaggi sporadici. Era impegnata. 
Uscii con i miei amici.
Fumai qualche sigaretta facendo finta che ci fosse lei ad accenderla.
Guardai il suo viso in una foto che ci eravamo fatte insieme a tutti gli altri in spiaggia.
E poi in una foto che avevamo fatto solo noi due, sorrideva e aveva le guance rosse per il sole.
E poi in un set di cinque polaroid che le avevo scattato mentre dormiva, in silenzio, sulla sabbia. Il suo viso, le sue labbra... Il suo corpo... Le sue gambe, i suoi capelli...
Mi perdevo in ogni particolare e la ricordavo, sentivo ancora il sapore delle sue labbra salate, dell'aranciata che aveva appena bevuto, la mia camicia stretta nel suo pugno, e i suoi ricci tra le mie dita.

Tornò di sera.
Mi scrisse:

Dueditram:
Ore 9.00. colazione al parco. ti aspetto sotto casa.

E la mattina dopo mi aspettava davvero sotto casa, con il suo zaino di tela e i capelli profumati.
Mi prese la mano e iniziammo a camminare.

- Ambra Vitale, mi sei mancata, mancata, mancata.

Schioccò la lingua, si strinse al mio fianco e lasciò che io avvolgessi un braccio, lentamente, attorno alla sua vita.

- Anche tu...

- Ma adesso sono qui.

Mi indicò le cose che si ricordava.
Mi disse che secondo lei avevo fumato troppe sigarette mentre lei era via quindi questa mattina ne avrei avuta solamente una.
E fece uno con l'indice.
Risi e lei rise con me.

Arrivammo al parco dopo una mezz'ora di cammino.
Trovò un posto metà all'ombra e metà al sole, aprì lo zaino, stese sull'erba lo stesso telo con cui mi aveva fatto sdraiare, un giorno, nel suo giardino, poi tirò furi succo d'arancia in una bottiglia di vetro, le brioches che mi aveva fatto mangiare sul pedalò e biscotti con le gocce di gioccolato in un barattolo di plastica giallo.
Aveva fatto tutto lei.
Doveva essersi alzata la mattina presto.
Ed era tornata solo ieri sera.
Volevo darle un bacio sulla fronte.

- Non dovevi...

- L'ho fatto perchè volevo, non perchè dovevo.

Si sedette vicina a me.
Mangiammo mentre parlavamo.

- Com'era la tua città?

- Insopportabile e afosa.

- Insopportabile?

Sospirò.

- È bellissima, in realtà. Ma... Non ci ho vissuto bei momenti. Mi piacerebbe tornarci con te. Vuoi? Magari nelle vacanze di Natale possiamo andare insieme.

- Solo... Solo noi?

- Solo noi. Così è il mio turno di farti vedere le cose.

Diede un morso a un biscotto e poi mi diede quello che ne restava, sorridendo.
Quando finì di masticare, versò il terzo bicchiere di succo a tutte e due.

Ci sdraiammo.
Lei fece una corona di margherite e me ne mise altre nei capelli.
Il suo viso era vicinissimo al mio mentre cercava un punto in cui appoggiare i fiori.
A un certo punto me ne mise uno sul collo, sullo sterno, sulle clavicole.
Ero senza fiato.
Lei sorrideva, timida.
Quello era il suo linguaggio.
Quando raggiunse la conca nel mezzo dei seni, le sue labbra sfiorarono le mie.
Sentii il suo cuore battere all'impazzata, misi una mano sul retro del suo collo e la spinsi dolcemente verso di me.
Era un bacio a stampo, era semplice, ma meraviglioso, perché mi faceva sentire lei.
Me la faceva gustare, come se fosse un sapore, me la faceva toccare come un raggio di sole, me la faceva capire, me la faceva ammirare, amare. Racchiudeva lei, quel bacio, il modo in cui lei muoveva pianissimo e impercettibilmente le labbra, il modo in cui chiudeva gli occhi e il modo in cui li apriva, il modo in cui vedevo le sue palpebre tremare. 
Ci separammo e mi accorsi che mi stava carezzando la mascella.
Emise un risolino nervoso, e si nascose poggiando la testa sul mio collo.

Mi sentivo pervasa di lei, quasi mi girava la testa. 

- Possiamo ancora? - fu Marina a domandarlo, timida timida, le guance rosse.

Non aspettai un secondo.
Le nostre bocche si toccarono ancora, questa volta in modo più deciso.
Le carezzai un fianco.

- Non so cosa fare. Come baciarti - sussurrò, piano, socchiudendo le labbra.

- Nemmeno io...

Ridemmo insieme.
Le leccai le labbra, lei le leccò a me.

- Voglio imparare - sussurrò, passando la lingua sull'angolo della mia bocca.

- A fare cosa? - respirai su di lei, lei su di me.

- A baciarti alla francese.

- Alla francese.

Inarcai un sopracciglio, poi mi alzai a sedere.
Lei era seduta a cavalcioni sulle mie cosce.
La abbracciai e le sussurrai la frase in francese più stupida che mi venne in mente al momento.
Ci mise venti minuti a convincermi a dirle cosa significava in italiano.

Rimanemmo in silenzio, poi, a guardarci, stese una di fianco all'altra, vicinissime.
Tutte le margherite erano cadute per terra.
Lei mi carezzava i capelli.
Volevo baciarla ancora e ancora.
E lo feci.
Ogni tanto, piccoli baci sul suo viso.

- Vì - mormorava lei, ad occhi chiusi, ricambiando quando i baci raggiungevano la sua bocca.
Tenevo una mano attorno al suo bacino.

- Mari - la chiamavo io, sussurrando e mordicchiando piano quelle labbra rosse.

Le lessi qualche pagina di un libro.
Qualche poesia.
Lei ascoltò con la testa sul mio stomaco.

Quando venne ora di tornare a casa, ci alzammo e tornammo indietro.
Mi teneva la mano, ma era diverso.
Le sue dita erano intrecciate con le mie.

- Portami a pranzo fuori.

Lo disse a un certo punto, a un semaforo rosso.

- Adesso?

- Adesso, se vuoi.

- Come un appuntamento.

- Come un appuntamento. Se vuoi.

La guardai, la baciai sulla guancia, davanti a tutti.

- Voglio. Pizza speciale. Ti va?

- È perfetto.

Mi baciò sulle labbra, piano, per l'ennesima volta.
Eppure diversamente da tutte le altre volte.
Come ogni volta.
























Penso che nel prossimo capitolo si concluderà il tutto.
E che dire, dispiace pure a me.

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