𝟒.

Potrei parlare per ore di come camminammo in mezzo alle onde scure.
Di come lei rise mordicchiando il cono senza gelato, e di come mangiò anche il mio perchè le dissi che non mi piaceva.
Di come mi trascinò in mezzo alle onde fino a sopra le ginocchia e di come ci bagnammo i pantaloncini con i capelli scompigliati dal vento.
Del suo profumo che si mischiava a quello della salsedine.
Delle mie mani che si univano alle sue e del suo sorriso nel buio che fece sorridere anche me.

La mattina mi svegliai con la sensazione di essermi addormentata tra le sue braccia e che lei mi avesse portato a casa così, rannicchiata sul suo petto - quasi io non l'avessi mai veramente lasciata, mai veramente salutata.
Tuttavia, mentre facevo colazione sola, a casa, ricordai di come eravamo salite su un tram della rete notturna a mezzanotte, sfinite ma felici.
Non avevamo parlato. Ci eravamo solo guardate. Sedute su due sedili vicini. Non c'era nessun altro. Solo le stelle fuori e l'autista. Lei era scesa prima di me, salutandomi con un cenno timido della mano. Di nuovo, mi era parso che le mancasse il coraggio di fare qualcosa che avrebbe voluto.
Ero arrivata a casa e mi ero accorta che mi sentivo quasi ubriaca - come se mi avesse baciato.
Il rumore delle onde e delle nostre risate nelle orecchie.
Mi ero addormentata così.
Sfinita, e incredibilmente infiammata.

Nella doccia, quella mattina, cercai di non pensare a niente - di non pensare a Marina - senza riuscirci.
Avevo ancora stampata nella testa la sua doccia e il suo shampoo su di me.
Mi vestii senza fretta dopo aver alzato le tapparelle per far entrare un po' di luce nella mia stanza, chiedendomi se stesse già facendo la marmellata di pesche, e se anche quel giorno si fosse alzata presto-presto e se il pensiero di me le avesse attraversato la mente almeno qualche volta, da quando si era alzata.

Dopo aver passato un'ora a dipingere nella mia stanza, guardai il telefono per vedere l'orario, e mi accorsi che nella mia rubrica c'era il suo numero di telefono.
Si era salvata dueditram.
Con un sole e un girasole.

Mi fece sorridere.
Non le volevo scrivere subito, anche se ne sentivo il bisogno - bisogno di lei e della sua vita, quella vita che io, prima, avevo così tanto aborrito e rifiutato.
Quella vita che io, prima, forse non possedevo nemmeno.
Era questo, l'amore? Luce che guarisce, luce che dilania, luce che disseta? Luce che desideri?
Lei mi sembrava così incredibilmente nuova. Sola contro un mondo di tenebra, l'ultimo baluardo del celeste sulla terra - il segreto del mondo, del fruscio del vento, tutto ciò che la natura sussurrava, ogni cosa era in quel viso semplice e pulito, in quegli occhi così puri, in quelle labbra impertinenti e vergognose. Nelle sue mani che si attorcigliavano alle mie. Nella sua voglia di pedalò e risciò. Nella sua raccolta di conchiglie.

Portarla a mangiare vegetariano.
Mi illuminai al pensiero.
Sapevo già dove.
Quando, ormai avevo imparato che lo avrebbe scelto lei.

Avrei voluto averla qui per baciarla e tracciare circolini lievi sui suoi fianchi.
Per disegnarla, per assaporare il suo profumo, il sapore delle sue parole e dei suoi silenzi...
Guardai fuori, i colori del principio di giugno, il sole caldo.
Non sapevo cosa fare, volevo tornare da lei.

Passai ore e ore nell'inerzia, iniziando un sacco di cose che non avevo voglia di portare a termine.
Pranzai con mio fratello, quasi senza parlare.

Alle tre mio telefono fece un piccolo trillo.

Le pesche.

Sorrisi.

Quando?

Dueditram non rispose nulla fino alle nove di quella sera.

Te le porto io. Domani.

Sembrava una promessa.
Non le chiesi nemmeno come.
Sapevo solo che lo avrebbe fatto.

- Marina Modigliani.

Lo disse la mattina dopo mentre veniva verso di me con una sigaretta Winston rossa spenta in bocca, un sacchetto di carta bianco e un sacchetto a rete violaceo con dentro tre o quattro pesche.
Era appena scesa dal tram, la fermata quasi sotto casa mia.
Mi aveva detto di farmi trovare pronta cinque minuti prima.
Aveva di nuovo quella gonna di jeans e sopra una camicetta bianca che la faceva sembrare un angelo.
Non appena mi fu vicino, si tolse la sigaretta dalle labbra e la mise tra le mie.

- È così che mi chiamo. Marina Modigliani. E tu?

Ero sconcertata.
Sconcertata da questi eccessi di coraggio e dal colore rosso che tingeva le sue guance per la timidezza feroce.
Sconcertata dal fatto che mi avesse chiesto il mio nome proprio in quel momento.
In in momento come tanti.
Pensavo che non lo avrebbe fatto mai, oppure che lo avrebbe fatto un altro giorno, in un'altra situazione, come quella del pedalò o del risciò.
Non così.
Non una mattina tra le tante, in un luogo tra i tanti, senza che nemmeno avessimo parlato di altro, prima.

- Ambra - risposi, pianissimo, mentre mi accendeva la sigaretta con l'accendino rosso che mi aveva chiesto con un gesto.

- Ambra...?

Presi la prima boccata di fumo, solo per cercare di dimostrarle che l'improvviso bisogno di sapere come mi chiamavo non mi avesse destabilizzato:

- Ambra Vitale.

- Ambra Vitale - schioccò la lingua - Bene, Ambra Vitale, ti ho portato una brioche alla marmellata di more. Per me ne ho una alla crema. Spero ti piaccia, la marmellata di more.

La sua ultima frase suonava più come un spero che tu non abbia piani per questa mattina.
Mi fissava.
Il cielo era grigio.

- Ti ho portato anche le tue pesche.

Me le porse dopo un attimo di esitazione.
I capelli ricci erano scompigliati e profumavano di lavanda, questa volta.

- Sono libera, stamattina - lo dissi mentre la guardavo negli occhi.

- Quindi non ti dispiace accompagnarmi in biblioteca.

- Non in libreria?

- No, in biblioteca - insistette, e vidi nei suoi occhi qualcosa di imbarazzato, quindi non dissi più nulla.

La biblioteca non era lontana.
C'era un chiostro, e un sacco di stanze diverse con le porte aperte perchè faceva caldo ma il comune ancora non aveva dato il permesso di accendere l'aria condizionata.
Ci ero stata solo due volte in tutta la mia vita.
Preferivo comprarli, i libri.

Lei mi disse che non poteva farlo solo quando fummo dentro. Era davanti a uno scaffale, uno dei primi che stavamo guardando, e tremava un po'. Io ero dietro di lei perché mi sembrava che da un momento all'altro avrei dovuto sorreggerla.

- Non ho soldi.

Lo disse così, girandosi di punto in bianco con uno scatto dei talloni.
I nostri visi si sfioravano.
A lei non sembrava interessare.
Si mordicchiava il labbro.

- Per cosa? - domandai, cercando di non lasciarmi vincere dalla vergogna di averla lì a pochi millimetri da me, lì solo da baciare e da ammirare.

- Per i libri. Non ho soldi per i libri. Ecco perché vengo in biblioteca. Vorrei poterli comprare. Ma non ho soldi. Lo faccio poche volte. Devo tenerli, i risparmi, per l'università o per qualsiasi cosa dovrò pagarmi da sola. Insomma. Ho tre fratelli. I miei non fanno un gran lavoro. E non posso spendere molto.

Mi fissò a lungo.
Come se quella confessione gli fosse costata fatica.
Mi sembrava quasi di vedere delle lacrime nei suoi occhi.
Come se quello fosse solo il piccolo inizio di un intero mondo di sofferenze.
Chissà come l'avevano torturata, al suo Parini, per quella piccolezza.
Mi spaventò, vederla così, lei che era sempre così felice, lei che mi dava la luce.
Volevo stringerla.
Volevo dirle che andava tutto bene.
Volevo dirle che non mi sembrava stupida, se piangeva perché non poteva prendersi i libri e averli per sé, perché significava che ci teneva.

- È... è okay - lo dissi un po' incerta.
Lei mi sorrise.
E poi mi abbracciò.
E io la abbracciai.
In mezzo alla biblioteca deserta.
Le sue braccia erano calde e si aggrappavano a me come se fossi l'unica salvezza.
Mi fecero sentire importante.
Mi fecero sentire amata.
Le sue dita toccavano le mie scapole e poi la colonna vertebrale.

- Grazie. Che mi hai accompagnato - lo mormorò con il viso immerso nella mia maglietta verde scuro.
L'avrei implorata di restare lì per sempre.

C'era qualcosa, in lei.
Nel modo in cui oggi era lì con me.
Come se avesse bisogno di qualcuno per non annegare.
E avesse scelto me.
Volevo chiederle di Parco Sempione.
Del perchè era triste.
Del perchè stava per piangere.
Volevo vederla sorridere ancora e volevo dirle che lei per me sarebbe sempre stata una stella.
Volevo chiederle perchè aveva scelto me che nemmeno sapevo se volevo salvarmi da sola - ma forse per lei lo avrei fatto, avrei continuato a vivere per lei, anzi, a causa di lei, a causa di lei che mi stava insegnando ad essere felice.
Che mi stava insegnando la melodia del mare dopo la tempesta.
Quando le onde sono quiete.
E il vento sussurra.
E il cielo è azzurroblu.

Scelse i libri dagli scaffali con la schiena appoggiata al mio petto.
Desiderai in quel momento più che mai di baciarle la testa, anche se era lievemente più alta di me, di avvolgerle i fianchi con le mani solo per farla sentire al sicuro.
Si toccava le labbra con un dito mentre sfiorava il dorso delle copertine e tirava fuori di tanto in tanto qualche libro per leggere la trama. Io tenevo le brioche e le pesche.
Pensavo ancora a quell'anima sottile.

Passammo dalla zona degli ultimi arrivi, a quella dei libri meno recenti a quella dell'archivio, tra scaffali di legno e colonne con decori dorati, dove venivano conservati i volumi antichi e i manoscritti.
Quelli non si potevano prendere in prestito.
Solo guardare.
Marina li apriva e li adorava.
Me li mostrava uno per uno, le ciglia che sbattevano di tanto in tanto, lunghe e scure.
C'era profumo di carta e di inchiostro.
E della lavanda dei suoi capelli.
Era bello essere lì con lei che girava le pagine con tutta la sua delicatezza e mi sussurrava le parole.
Quel posto sembrava un labirinto silenzioso fatto di vite e di eventi, di tutte le vicende che trasudavano da ognuno di quei libri, e Marina si divertiva a perdersi lì dentro insieme a me.
Disse che era meraviglioso.
Mi indicò un sacco di opere che le erano piaciute.
Mi spiegò che teneva un quaderno dove scriveva tutti i libri che leggeva, fin dalla prima elementare.
Mi svelò che anche a lei sarebbe piaciuto scrivere.
Scrivere storie di sole.
Avrei voluto dirle che era stupenda.
Non lo feci.

Girammo per tutte le sale, scendendo e salendo scale di pietra fredda che ci facevano venire il fiatone.
Ridevamo.
A un certo punto ci accasciammo insieme sui gradini e rimanemmo lì per dieci minuti buoni a fissare il soffitto ad arcate.
Gli universitari fissavano le sue gambe lunghe con fare distratto mentre passavamo in mezzo ai tavoli delle zone studio, e io provavo lo strano impulso di metterle una mano attorno alla vita e attirarla a me per far capire a tutti che era mia.
Lei non ci prestava attenzione. O forse sì, ma non lo dava a vedere.

Alla fine prese in prestito tre libri, che tenne tutto il tempo sottobraccio.
Fece la tessera e sorrise al bibliotecario.
Uscimmo e mi chiese di tirare fuori le brioche, le mangiammo mentre camminavamo qua e là senza prestare attenzione si nostri passi.
Ogni tanto le cadeva della crema sulle dita e lei se le leccava.

- Quindi.

Una delle sue solite domande formulate come affermazioni.
La guardai, aspettando che finisse la frase dopo aver masticato la brioche:

- Mi devi portare a mangiare vegetariano.

Fissava i suoi piedi, intanto camminavamo.

- Sì, beh...

Avrei potuto dirle ma se facciamo tutto subito poi cosa ci rimane da fare, ma sapevo che con lei non mi sarebbe mai mancato niente.

- Mi vieni a prendere a casa?

Come a un appuntamento.

- Certo.

- Dopodomani?

- Dopodomani. Domani hai da fare?

- Domani ho da fare.

Non mi disse cosa, ma mi chiese:

- Tu, domani hai da fare?

- Esco con i miei amici di pomeriggio e poi andiamo in un locale.

- Okay. Quindi dopodomani va bene per tutte e due.

Mi sorrise.
Appoggiò la testa sulla mia spalla e camminammo così per un po'.
La amavo.

- Nella città a mille chilometri da qui - iniziò - Il profumo è diverso. Qui tutto sa di sale. Mi piace da morire.

Silenzio.

- C'è un parco?

- Sì, ma è lontano. Se vuoi ti porto al mercato.

Le si illuminarono gli occhi:

- Sì che voglio. Portami al mercato.

La portai al mercato.
Era colorato, grande e vivace, tutti urlavano.
Marina guardava i pesci, le spezie, la frutta secca, le caramelle.
Mi chiedeva come si pronunciavano i nomi delle specialità.
Come si dicevano le cose nel mio dialetto.
Le presi sei cannoli da portare a casa per tutta la sua famiglia. Arrossì quando le porsi il sacchetto, e mi ringraziò con una tenerezza che mi lasciò senza parole.
C'erano anche venditori ambulanti di libri e di cose che sapevano di polvere e di vecchio, di lettere scritte a mano negli anni della guerra e nel milleottocento, e lei si fermava a guardare le macchine da scrivere, i ciondoli, le pergamene, i bastoni da passeggio, i timoni delle navi, i bottoni, le macchine fotografiche, gli album di figurine che sicuramente non avrebbe mai comprato, le spade, elmi e scudi finti, libri in siculo, libri in latino, libri in greco e in spagnolo.
Si provò un cappello di paglia con un nastro celeste attorno.
Mi indicava un sacco di cose che volevaassolutamentecomprareungiorno.
Quando qualcuno la guardava troppo a lungo, si stringeva a me.
Ad un certo punto si slacciò due bottoni della camicetta, perché aveva caldo.
Non potei impedirmi di osservare il timido principio dei seni chiari, il collo scoperto, le clavicole lievemente sporgenti.
Il sole la inondava ed era bello pure il suo modo di strizzare gli occhi dietro le lenti degli occhiali per vedere.

Quando tornammo indietro era mezzogiorno passato, e insistette per prendere una confezione di gamberetti fritti. La guardai con una smorfia.

- Urto la tua sensibilità di vegetariana? - era la prima volta che mi punzecchiava così, e si vedeva che si divertiva da morire.
Io ero permalosa, ma il sorriso sul suo viso non lasciava nessun dubbio sul fatto che voleva solo scherzare, perciò finsi solo di essere offesa imcrociando le braccia e voltando il viso dall'altra parte.

- Ti ammiro tanto, per la tua scelta, lo sai? - me lo sussurrò dopo qualche istante nell'orecchio, come se fosse un segreto importantissimo - Tieni, ho preso anche qualche mozzarellina fritta per te.

Cedetti subito.

- Mozzarellina.

- Non le chiamate così, voi?

Rise mentre me ne porgeva una.

- Tu adesso dove devi andare? - me lo chiese con una gamberetto tra le mani.

- Vado in spiaggia.

- Ci sono i tuoi amici?

- Sì.

- Io devo tornare a casa.

Andavamo verso il tram che l'avrebbe riportata via da me lentamente.
Nessuna delle due aveva voglia di tornare.
Mi guardava.

- Sei bravissima a suonare la chitarra. E a cantare.

Mi diede il sacchetto dopo aver mangiato un altro gamberetto - l'ultimo.
C'erano dentro solo mozzarelline, adesso.

- Grazie.

Sapevo che aveva letto qualsiasi cosa ci fosse dentro di me.

- Grazie a te. Per i libri e per il mercato.

Salì sul tram.
Dal finestrino, mentre già stava iniziando ad allontanarsi, mi disse, senza che potessi sentire la sua voce: dopodomani.
E infine mi lasciò lì.
Con le pesche e un sacchetto di mozzarelline fritte.
Con la sua presenza ancora lì.
La sua bocca a pochi centimetri dalla mia.

Il mio telefono squillò.

Dueditram:
La maglietta verde ti sta bene.

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