Parte 35


Stanza 34

Hinata's POV

La porta della stanza si apre silenziosa, con un tocco appena accennato.
Il pavimento è di un verde accesso, segnato dal passaggio di diverse rotelle: che siano delle carrozzine o dei lettini.

Le mura sono bianche, con un infinità di monitor e macchinari che producono l'unica fonte di rumore.
Un bip continuo e ritmico, sempre uguale.

Le loro luci lampeggiano proiettando le proprie ombre lungo i muri.

Le tende sono quasi tirate completamente, lasciando filtrare solo una piccola porzione di luce esterna, già fioca poiché ci si avviava all'imbrunire.

Una piccola luce d'emergenza era accesa, vicino alla finestra.
La stanza era leggermente in penombra, ma si poteva intuire tutto il suo perimetro nonostante io fossi immobile sulla porta.

Nella stanza ci sono due letti di cui uno vuoto.

Uno era il tuo.

Non volgesti neanche il tuo capo, nonostante avessi sentito la porta aprirsi.
Non muovesti neanche un muscolo, nonostante potessi percepire la presenza di qualcuno.

Mossi un passo incerto, con il cuore che mi rendeva difficile sentire qualsiasi altro rumore.

Il tuo petto si abbassava ed alzava lentamente, mentre restavi disteso nel tuo letto, leggermente sollevato, con il capo girato verso l'unico angolo di finestra aperto.

Non ti scomponi, resti in attesa, senza voltarti.
Posso vedere diversi fili uscirti dalle braccia, tra cui quello di una flebo.
Il tuo petto era scoperto, completamente fasciato e sporco di anestetico e macchie di sangue.
Alcuni elettrodi monitoravano il tuo ritmo cardiaco e respiratorio.

Un altro macchinario era collegato alla tua mano sinistra, per controllare il livello di ossigeno nel tuo sangue.
Le dita della mano destra erano tumefatte, di cui una steccata.

Le tue braccia, altrettanto scoperte, erano piene di lividi, alcuni fasciati, martoriate anche dalle numerose iniezioni che hai dovuto subire, a giudicare dal livido verdastro che metteva in evidenza le tue vene.

Il tuo collo, anch'esso malandato, aveva i segni del collare, che forse ti sarà stato tolto da poco.

La tua testa era fasciata, con bende più o meno incrostate di sangue.
La fasciatura partiva da dietro la tua testa e ti scendeva fino all'occhio opposto, chiuso da una benda.
Dove c'era la fasciatura i tuoi capelli erano stati rasati.

Portavi un gesso anche sul naso, che era ingrossato e violaceo.
Le tue narici erano tappate da tamponi, inzuppati di sangue.
Poggiata delicatamente sulla tua bocca c'era una mascherina che ti aiutava a respirare ossigeno puro.
Le tue labbra sembrano secche e screpolate, con una crosta di sangue che prendeva buona parte del labbro inferiore.

Non ti curi di guardare chi fosse entrato, resti lì, immobile, nel silenzio della tua dolorosa solitudine.

Sento che le gambe stanno cedendomi, nell'esatto momento in cui nuovo un'altro passo verso di te.
Non riesco a parlare, sono pietrificato dalla paura e dall'angoscia.

"Non sarà facile accettare... le condizioni in cui lo troverai."

È impossibile credere che la persona che ho davanti gli occhi in questo momento sia davvero tu.
Non riesco a credere che chi giace in questo letto, sia davvero la stessa persona che ero abituato a guardare ed avere intorno ogni giorno.

La tua pelle tumefatta.
Il tuo viso sfigurato.
Le tue dita immobilizzate.

Non riconosco il Kageyama che sbraitava in campo, non riconosco il Kageyama che dormiva tranquillo nel mio letto.
Non sembra che ti sia rimasto più nessun tratto sul tuo viso.
Non riconosco il Kageyama che ero abituato a vedere  in casa mia, mentre mi baciava o mentre mi prendeva in giro.

Se penso che l'ultima volta che ti ho visto eri sorridente e spensierato mentre ora sei qui disteso, inerme e sofferente.

Se ripenso ai tuoi occhi tristi di quel giorno, non riesco a riconoscere quello sguardo adesso, nella persona che ho davanti.

Dal riflesso nella finestra posso scorgere le tue iridi chiare, spente e rassegnate.
Delle occhiaie scure e viola circondano il tuo unico occhio libero, facendone risaltare l'azzurro.

Non stai davvero guardando fuori dalla finestra, stai guardando dentro di te, nell'immensa voragine che ti ha inghiottito.

Quanto deve essere dolorosa questa solitudine?
Quanto devi aver sofferto, per essere ridotto in questo modo, senza avere la forza di alzare lo sguardo?

Non c'è una briciola di orgoglio e presunzione in questo corpo, vedo solo dolore e supplizio ed uno sconfinato abbandono.

La mia figura appare nella finestra, non appena muovo un'ulteriore passo verso il tuo letto.

Il mio sguardo, impaurito e tremante incontra il tuo, spento e distante.

Posso vedere come le tue pupille si sgranano.
Posso vedere come le tue iridi chiare risplendano per un breve attimo.

Piano cerchi di girarti verso di me, che immobile, ho iniziato a bere le mie stesse lacrime.

L'unico occhio libero dalla benda che hai, si posa su di me mentre una goccia di pianto ti riga la guancia, entrando all'interno della tua maschera per l'ossigeno.

Mi avvicino tremante appoggiandomi ad una sedia vicina al tuo letto.

La mano libera dalla flebo si solleva piano.
A rallentatore anche io avvicino una mano bardata dai guanti fino la tua.
I tuo tocco è leggero e impalpabile.
Le tue dita non hanno più il vigore di un tempo, sono fragili e insicure.

Il tuo indice è chiuso dentro una scatoletta che misura la tua ossigenazione, ma tutte le altre dita piano accarezzano il tessuto lattiginoso del mio guanto.

Non riesco a staccarti gli occhi di dosso.
Non riesco a fare a meno di piangere tutto quello che avevo taciuto in questo viaggio ed in questi 20 giorni di assenza.
Senza un controllo mi libero di tutta la pressione e la paura che ho avuto addosso nel disperato tentativo di raggiungerti.

Sono qui, vorrei dirti, non temere non sei più da solo; non puoi vedere che sotto la mascherina la mia bocca è aperta e traballante.

Posso comunicare con te solo attraverso i miei occhi.

Piano, mi accenni un sorriso, sotto la plastica, mentre respiri piano con la bocca semi aperta.

Posso vederlo, posso vedere come mi entra nel cuore e mi distrugge, quel tuo sorriso.

Mi accascio a terra, piangendo sulle coperte del tuo letto, mentre tu poggi la tua mano libera sulla mia testa.

Posso sentire il debole calore che emana.
Posso sentirti, finalmente vicino a me.

Mi sei mancato terribilmente, mi sei mancato da far male.
Ogni giorno senza di te è stato un supplizio indicibile, una condanna che sembrava non avere fine.
Ogni momento passato senza sentire il calore del tuo corpo o il suono della tua voce, è stato uno squarcio nel mio animo.

Ma niente potrà mai essere paragonabile alla devastazione che mi ha lasciato dentro, la visione del tuo corpo martoriato in questo letto.

Sollevo il capo nel tempo che tu porti una mano ad abbassare la tua mascherina.

- Mi ... sei ... mancato.- dici in un sussurro faticoso, rialzandoti subito dopo l'erogatore.

Sentire la tua voce mi fa vibrare le corde del cuore.

-Mi sei mancato anche tu.- ti rispondo, mentre venivo scosso da una nuova ondata di disperazione.

Non avrei mai voluto piangere davanti a te, soprattutto in queste condizioni, ma le emozioni escono da sole, travolgendomi e scuotendomi violentemente

Avrei un milione di domande che vorrei farti.
Avrei un milione di cose che vorrei dirti.

Lentamente abbassi ancora una volta la mascherina.

-Hai... un.... aspetto.... pietoso.- dici, rialzandola.

Tra le lacrime mi scappa anche una risata.

-Io invece ti trovo davvero bene.- ti rispondo.

Piano, cerchi di farmi un tremolante dito medio.

Non hai perso la tua verve da presuntuoso e permaloso.
Il cuore, straziato dalla tua visione, mi trabocca d'amore.

Non ho mai amato qualcuno come amo te e non credo amerò mai qualcun altro, nonostante la sofferenza di vederti in questo stato.

-Che cosa è successo, Kageyama?-

-Sono.... sono... scivolato.-
I tuoi sussurri sono lenti e faticosi.

Non riesci a dire più di poche parole per volta, senza la mascherina che ti aiuta a respirare, avendo le narici tappate.
Non vorrei farti parlare ma ho davvero l'urgenza di capire come tu sia finito qui dentro in queste condizioni.

-Deve essere stata una brutta caduta.- dico, osservandoti meglio.

Tu sbatti la palpebra del tuo unico occhio aperto.

-Ti prego, ho bisogno di capire... vederti così... mi fa male. Avevi detto a domani... ed io ti ho aspettato. Ti ho aspettato per tutto questo tempo...ma non avrei mai immaginato che tu... fossi qui.-

-Mi... dispiace.- è tutto quello che riesci a dirmi.

Lo accetto.
Non ne hai la forza per riviverlo mentre me lo racconti e posso capirlo.

I miei occhi corrono per tutto il tuo corpo, cercando di imprimere questa visione dentro di me, per non dimenticare mai più quanto doloroso può essere l'amore.

È questo l'amore?
Questo dolore e questo senso di solitudine è davvero l'amore?

Accettare in silenzio, tutta questa sofferenza, è davvero l'amore di cui si parla nei libri?
Non vedo l'ombra di scintillanti armature e cavalli bianchi, in questo momento.
Non riesco a sospirare sognante, riesco a malapena a darmi un contegno per non svenire.

"Perchè è successo tutto questo? Perché è successo a noi? Perché è successo a te ?"

-Pa...parlami.- dici ad un certo punto.

Annuisco, prendendo un respiro.

Inizio a parlarti di queste giornate, del tempo e di come sia stato difficile fare gli allenamenti di pallavolo con il dolore che avevo alle natiche.
Di come sia stato faticoso nasconderlo agli altri e di come Suga-San sia quasi svenuto quando, scherzando mi disse:

"Sembra quasi che tu abbia avuto un trauma al tuo ano."

Ed io impacciato gli risposi:

"Non lo definirei trauma, però si."

Ti descrivo come il suo sguardo sia passato dal divertito all'allarmato nel giro di due secondi, per la realizzazione.
Aveva quasi urlato ed ho dovuto tappargli con le mani la bocca, per non far sentire agli altri.
Subito dopo per l'imbarazzo dovette stendersi a terra, sotto gli occhi sempre vigili di Daichi.

Ti racconto di come sono andato spesso davanti casa tua, della spesa che andavo a fare quasi ogni giorno pur di non restare chiuso in casa a rimurginare.
Prendo poi a raccontarti ogni singolo giorno di allenamento: ti parlo degli schemi, delle strategie, dei miei punti favolosi.

Ti parlo infine del primo giorno di scuola, di come sia stato difficile vedere il tuo banco vuoto e del professore che voleva farmi leggere il saggio sull'amore davanti a tutti.

Resto a parlare perdendo la cognizione del tempo, incalzando sempre di più con il mio solito modo energico di raccontare qualcosa.

Tu in silenzio mi ascolti, senza staccarmi gli occhi di dosso.
Segui ogni mio movimento e immagazzini ogni parola che ti dico.

Nel mentre fuori è diventato buio e le luci esterne del complesso si sono aperte.
Apro anche le luci all'interno della tua stanza, per permetterti di vedere meglio.

Mentre continuavo a parlare di Natsu e di come volesse fare i biscotti di Natale a Settembre, la porta della stanza si apre.

Un'infermiera, bardata come lo sono io, entra trascinandosi un carrello alle spalle.

-Buonasera Tobio, è arrivata la c...- si blocca quando mi vede, in piedi vicino la finestra.

-Chi sei tu? Che cosa ci fai qui?- mi dice rivolgendomi uno sguardo inquisitore.

-Ah io... ecco io... cercavo...- inizio a sudare freddo.

-L'orario delle visite termina tra 10 minuti, cerca di fare in fretta.
Te lo concedo solo perché nessuno viene mai a parlare con lui.-

A quelle parole mi sento stringere il cuore, davvero sei rimasto da solo per tutti questi giorni, in questo letto, senza mai vedere nessuno?

Rialza con un pulsante lo schienale del letto, mettendo Kageyama seduto.
Appoggia sul suo comodino la sua cena, composta da:
Un bordino caldo e un qualcosa di indefinito dal colore giallo, rigorosamente frullato.

-Riusciamo a mangiare tutto questa sera, ora che c'è il tuo amico?-  dice l'infermiera, sedendosi sulla sedia vuota accanto al letto.

Kageyama lentamente sposta la sua mascherina.

-Fidanzato...- sussurra.

I miei occhi si riempiono nuovamente di lacrime, le gambe mi sembrano diventate delle gelatine.
Credo che potrei collassare su me stesso.

-Oh, addirittura?- dice lei accennando ad una risatina imbarazzata.

Porta un cucchiaio alla sua bocca di minestra, lui lo prende e si riporta la mascherina in posizione.

Io resto ad osservare, senza fiatare, quella scena.

-Puoi provare tu, devi far piano e soffiare prima di darglielo. Poi attendi che prende un respiro e ricominci.- mi suggerisce lei, alzandosi.

Mi avvicino tremante, prendendo il posto della donna.
Prendo il piatto caldo in mano e immergo il cucchiaio, riempiendolo e poi soffiandolo.

Con mani malferme mi avvicino a lui, sorreggendo un possibile gocciolamento con l'altra mano.
Piano, Kageyama si abbassa la mascherina, prendendo in bocca il cucchiaio e rimettendosela in posizione subito dopo.

Mi sento scoppiare di felicità da un lato e pervadere dalla tristezza dall'altro.
Non avrei mai pensato che sarei finito ad imboccarti.

Ogni porzione del mio corpo non faceva altro che urlare:

"Sono qui, Kageyama, sono vicino a te. Sono qui, non sei da solo."

L'infermiera mi osserva imboccarti per due/tre volte, dopodiché prende la parola:

-Bene, tornerò tra 30 minuti. Non posso concedervi di più.-

-Grazie, davvero.- le dico, guardandola con occhi carichi di emozione.

Chiude la porta e ci lascia nuovamente da soli.

Faccio per darti un'altro cucchiaio, ma invece provi a parlarmi:

-Tornerai.... domani?-

Resto con il cucchiaio sospeso a mezz'aria.

-Certo, tornerò domani.-

Raccolgo la mia borsa dalla reception, ringraziando concitatamente l'infermiera dietro il bancone.

L'aria all'esterno è calda e umida, molto diversa da quella piacevolmente accogliente che si trovava all'interno dell'ospedale.

Estraggo il cellulare dalla borsa riaccendendolo, si trova all'11%.

"Dovrebbe bastare per una telefonata rapida."

Lascio un ultimo sguardo, triste,  alla struttura mentre cerco nella rubrica del telefono il contatto da chiamare:

-Kozume Kenma.

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