𝒞𝒶𝓅𝒾𝓉𝑜𝓁𝑜 𝟾

❝𝑆𝑒 𝑙𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑡𝑖 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑠𝑐𝑜𝑛𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑓𝑎𝑟𝑛𝑒 𝑢𝑛 𝑑𝑟𝑎𝑚𝑚𝑎.
𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑡𝑟𝑜𝑝𝑝𝑜 𝑖𝑚𝑝𝑒𝑔𝑛𝑎𝑡𝑒 𝑎 𝑔𝑖𝑢𝑑𝑖𝑐𝑎𝑟𝑡𝑖.❞

||𝐹𝑜𝑛𝑡𝑒: 𝐴𝑛𝑜𝑛𝑖𝑚𝑜||

Poche cose riuscivano a far vacillare la calma di Kayla, e suo padre era tra quelle.

Parlare con lui, la maggior parte delle volte, era come rivolgersi al muro.
Quando si impuntava su una cosa non voleva sentire obiezioni, figuriamoci delle spiegazioni sul perché di certe azioni.

Non sarebbe stata una conversazione piacevole, ma andava fatta.
Quella di lasciare tutto al fato era stata una sua idea e doveva portarla a compimento dal momento che aveva perso.

Erano passati vari minuti da quando aveva preso a camminare per la sua stanza.

Avanti e indietro.
A destra e a sinistra.
Non riusciva a stare ferma.

Kagami raramente l'aveva vista così, non era con lei ma poteva benissimo sentirla fare i chilometri all'interno della camera.

Dopo un po' si alzò dal divano e si avvicinò con cautela alla sua porta, indeciso se bussare o meno.
Forse se non si fosse trovata da sola sarebbe stata più tranquilla, perché in quel momento non lo era per niente.

Sfortuna volle che il rosso non fu poi così silenzioso come invece si era ripromesso di essere.
Kayla, dopo aver sentito dei rumori, non ci pensò due volte ad aprire la porta, trovandosi davanti il suo amico, con il pugno alzato pronto a bussare.

«Hai un passo veramente felpato sai?» Disse ironicamente la ragazza, per poi scostarsi e farlo entrare.

«Beh, senti da che pulpito viene la predica.» La giovane lo guardò confusa mentre si richiudeva la porta alle spalle.
«Le tue camminate si sentono perfettamente dal soggiorno.» Precisò Kagami.

«Oh, ero così presa a pensare che non ci ho fatto caso.» Alzò le spalle.
«A quanto pare siamo due elefanti.»

Lui rise appena.
«Già, ma tu hai una motivazione per esserlo.»

L'animo agitato che Kayla cercava di nascondere tradiva quello che la sua stanza trasmetteva.
Era tutto sistemato in modo così ordinato che una volta attraversato l'uscio della porta si poteva avvertire una sensazione di calma, che era quello che cercava sempre di mantenere la giovane, soprattutto quando giocava.

«Non ho ancora chiamato» disse ad un certo punto.

«Lo so, per questo stavo venendo da te» rispose l'amico senza far passare troppi secondi.

«Scusa, probabilmente con le mie lunghe camminate ti ho disturbato.»
«Non lo hai fatto.»

La vedeva continuare a rigirarsi il telefono tra le mani.
«Se vuoi rimango.»
«Si, grazie.»

A quel punto Kagami si andò a sedere sul letto della giovane, appoggiando entrambe le braccia sulle sue ginocchia.
«È vero che hai perso contro quel ghiacciolo, probabilmente nemmeno lo vorrai più prendere a questo punto.» Kayla non riuscì a trattenere una risata nel sentire quell'ultima frase.

«Ma non sei costretta a chiamare tuo padre proprio oggi.»
«Invece si, se comincio a rimandare va a finire che alla fine non telefono più.» Lo raggiunse, sedendosi accanto a lui.

Aveva anche preso in considerazione l'idea di chiamare sua madre invece che l'altro genitore, ma sinceramente non sapeva quale delle due reazioni sarebbe stata peggio.

Sua madre non era severa come il padre, ma certe volte la urtava anche più di lui.
La donna era solita usare un tono canzonatorio nei confronti delle idee che non le andavano a genio.

Da una parte aveva la testardaggine allo stato puro, cosa che aveva ereditato anche la figlia.
Dall'altra invece vi era un animo derisorio.

Un sospiro uscì dalle labbra di Kayla, dopodiché sbloccò il telefono e chiamò il padre.

Uno squillo.
Due squilli.
Tre squilli.

La ragazza aveva cominciato a tamburellare con il dito sulla gamba. Kagami la osservava in silenzio.

Un altro squillo.

Nell'istante in cui stava pensando di riattaccare sentì partire ufficialmente la chiamata: il padre aveva risposto.

«Kayla, finalmente.» Ogni genitore si sarebbe mostrato apprensivo fino alla morte, anche sapendo dove si trovasse la figlia, ma lui sembrava più infastidito dal suo comportamento. Cosa che la giovane aveva già calcolato.

La sua famiglia era sempre stata strana, gli unici che si salvavano lì dentro erano i suoi nonni. Almeno loro erano normali.

«Papà.»
«Mi chiedo il motivo di questa telefonata, visto tutte quelle che hai ignorato.»

«Se fossi stata certa che quelle erano per semplice preoccupazione avrei risposto» affermò lei con disinvoltura.

«Siamo i tuoi genitori, avresti dovuto rispondere a prescindere. E poi non puoi decidere di andartene così dal nulla, lasciando una misera lettera! Immagino lo stessi pianificando da un po', considerando anche l'andamento delle ultime discussioni avute.»

Kayla stava per rispondere ma il padre la fermò sul nascere.
«Questo tuo atto di ribellione adolescenziale è durato fin troppo, devi tornare a casa.»

Kagami fu quasi sollevato quando la sentì rispondere in inglese.
Pensava che avrebbero cominciato a parlare scozzese, in quel caso non avrebbe potuto capire come stesse andando quella conversazione.

«È divertente sai? La nostra ultima discussione è iniziata proprio con questa frase.»
«Kayla, non voglio sentire obiezioni. Hai un'attività di famiglia da portare avanti, è tuo dovere tornare e continuare con gli studi che ti porteranno al successo.»

La ragazza strinse la mano in un pugno, infastidita.
Non ne poteva più di quelle costrizioni, secondo loro non aveva altra scelta per il suo futuro al di fuori dell'attività di famiglia.

Non negava il fatto che grazie a quella sarebbe stata agevolata nel campo lavorativo, ma non era il suo sogno.

Kayla voleva vivere in Giappone, giocare a basket.
Vivere una vita in cui era lei, e non qualcun altro, a decidere cosa fare del suo futuro.

«A voi interessa solo quello che vi porta dei vantaggi, scommetto che anche la mamma è d'accordo su questo... Non pensate minimamente a quello che invece voglio io.»

Lo sentì sospirare dall'altro capo del telefono.
«Tu vuoi cose che appartengono alle persone comuni, noi abbiamo una grande fortuna, dobbiamo approfittarne e tenere alto il nome della famiglia.»

«Ma a me non interessa!» Non voleva proprio ascoltarla e lei sentiva di star perdendo definitivamente la pazienza.

«Sono tuo padre, Kayla! Tu sei ancora una ragazzina quindi siamo io e tua madre a decidere cosa è meglio per te!» Anche lui si stava alterando, finivano sempre così i due.

«Ne ho fin sopra i capelli di questi obblighi che sono costretta a seguire senza protestare, mettetevelo bene in testa: Non è quello che io voglio!» Puntualizzò marcando la sua ultima frase.

«Se dovete chiamarmi per chiedermi cose diverse da come sto, allora smettetela di farlo.» Non gli diede il tempo di rispondere.
«Ciao papà.» E chiuse la chiamata.

Se avesse continuato con quella telefonata arrivare ad un punto d'incontro sarebbe stato sempre più impossibile.

Sfortunatamente per i suoi genitori, Kayla non era come loro la volevano: Devota alla famiglia a tal punto da sacrificare il suo futuro per essa.

Non era la classica figlia perfetta, era abbastanza ribelle nei confronti delle costrizioni.

Fece un pesante sospiro prima di buttarsi all'indietro e finire con la schiena sulle coperte del letto, con gli occhi rivolti verso il soffitto.

Kagami la seguì con lo sguardo.
«Quello che dovevi dirgli glie lo hai detto, dici che richiamerà?»

«A questo punto non ne ho la più pallida idea.»
«Come mai?»
«Credevo che mi avrebbe detto di considerarmi fuori dalla famiglia visto il mio comportamento, invece non lo ha fatto.»

Il rosso la imitò, sdraiandosi anche lui sul letto.
«Forse pensa ancora di riuscire a convincerti» disse incrociando le braccia dietro la testa.

«Non farà altro che sprecare il suo tempo. La vita che vogliono per me... È troppo soffocante, mi dispiace che non lo capiscano.»

«Non pensarci.» Kayla girò la testa verso di lui, per guardarlo. Dopodiché il ragazzo riprese a parlare.
«Se ci pensi troppo non ti puoi godere appieno questo tuo nuovo inizio.»

xxx

La brezza che tirava fuori fu un ottimo modo per scaricare lo stress di quella telefonata.

Kayla, dopo di essa, aveva deciso di uscire e farsi una camminata, ne aveva bisogno.

Poteva nasconderlo quanto voleva, ma non riusciva negare il fatto che l'atteggiamento dei suoi genitori la ferisse.

Erano comunque sua madre e suo padre.
Da loro ci si sarebbe aspettata severità, certo, ma anche comprensione e più amore nei confronti della figlia.

La causa di quel suo atto di massima ribellione, al fine di seguire i propri sogni, era nato principalmente dalla mancanza di questi ultimi due elementi.

Quando era piccola le cose erano diverse, probabilmente perché si trovava ancora nel pieno dell'infanzia.
Aveva dei bei ricordi di loro come famiglia.

La situazione cominciò a cambiare quando fu abbastanza grande da cominciare ad entrare negli studi che avrebbero costruito il suo futuro.

Un futuro già deciso.
Un futuro già programmato.

«Ho bisogno di un caffè» sussurrò a se stessa.

Non era sicuramente la scelta più logica visto che voleva attenuare quella sensazione residua di agitazione nel suo petto.
Poteva ancora percepire il cuore battere all'impazzata nel bel mezzo della conversazione.

Entrò nel primo bar che trovò, e che non fosse troppo pieno, per prendersi un caffè d'asporto.
La voglia di dover fare la fila si trovava ancora più in basso del solito.

Quando uscì prese subito un sorso, ma il bicchiere rimase fermo sulle sue labbra nel momento in cui, alzando lo sguardo, vide il ragazzo dai capelli blu notte che aveva praticamente costretto a giocare.

«Ma guarda chi si rivede!» Esclamò lei attirando la sua attenzione.

«Ancora tu-» Esattamente come la volta scorsa, Kayla lo trovò con entrambe le mani nelle tasche della sua giacca, con una neutra espressione in viso, come se niente potesse smuovere il suo interesse.

«Spero tu non voglia assillarmi nuovamente» disse poi il giovane riprendendo a camminare, sapeva già che lo avrebbe seguito.

Kayla ridacchiò appena.
«No, puoi stare tranquillo, al momento ho altri pensieri per la testa, non riuscirei a giocare ed impegnarmi come dovrei.»

«Non avrebbe fatto molta differenza.»
«Mh?» La giovane lo guardò mentre beveva il suo caffè.

«Non saresti riuscita a battermi comunque.»
«Probabile, ma sarei migliorata un po'.» Lui le lanciò uno sguardo e lei rispose con un leggero sorriso.

«In ogni caso, metterò a tacere la tua domanda silenziosa, non lo sto facendo di proposito a seguirti, dovevo prendere anche io questa strada.»

Kayla aveva intenzione di andare al campo da basket, anche se non avrebbe giocato stare lì le sarebbe stato d'aiuto a rilassarsi e a superare i suoi pensieri sulla telefonata, così da concentrarsi su quello che voleva fare.

«Non mi interessa quello che fai, potevi anche risparmiarti la fatica di dirmelo» affermò il ragazzo accanto a lei.

«Non volevo pensassi fossi una stalker o cose simili.»
«Anche se lo fossi stata non me lo avresti sicuramente detto.»

La giovane ci pensò un momento, rigirandosi il caldo bicchiere tra le mani.
«Già, effettivamente è vero. Comunque non lo sono, puoi fidarti.»

«Ti ho detto che non mi interessa, incredibile come la tua insistenza non riguardi solo il gioco.» Si lamentò lui.

Quella frase fece ridere Kayla, che si limitò ad alzare le spalle con fare innocente.

«L'altra volta non mi sono presentata, mi chiamo Kayla Campbell.» Non gli porse la mano, da quel poco che aveva potuto vedere sicuramente non glie l'avrebbe stretta.

Il ragazzo avrebbe voluto evitare di arrivare al punto di presentarsi, credeva che il loro incontro si sarebbe limitato solo a quell'allenamento occasionale.

«Aomine Daiki» rispose semplicemente, mentre i due continuavano a camminare l'uno di fianco all'altra.

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