Cαριƚσʅσ 24

Le settimane passarono silenziose ed inesorabili. Jisoo osservava i giorni segnati sul calendario scivolare l'uno dietro l'altro senza essere scanditi da nessun evento in particolare.
Ogni mattina si alzava, si preparava, ingurgitava un caffè al volo per poi recarsi in ufficio e passarci il resto della giornata, per lo più annoiandosi,  riprendeva la metro, tornava a casa, cenava e si rimetteva a letto, esausta.
Questa era la sua monotona routine che sembrava non avere alcuna intenzione di cambiare.
Continuava a domandarsi se non avesse sbagliato tutto, se quella di trasferirsi a Seoul fosse stata la mossa giusta o il peggior sbaglio della sua vita.
Non era appagata, non era stimolata ma solo apatica e annoiata.

E se il problema fosse proprio lei?
Se qualsiasi posto nel mondo non la rendesse serena perché in realtà il caos era dentro sé stessa?
Quella domanda continuava ad arrovellarle la mente, a torturarla come un tarlo famelico che le scavava nel cervello prima di chiudere gli occhi ogni benedetta sera.

Quando era stata veramente felice?
Il pensiero di quella risposta le attraversava la mente ed era difficile da ammettere, ancora più da accettare.
Eppure era semplice: negli anni passati accanto a Taehyung.
Pensava a lui, pensava a lei, pensava alla semplicità della loro sintonia che si manifestava nel semplice tocco delle loro mani, nell'incastro perfetto delle loro dita intrecciate ogni volta che si tenevano per mano. Quella mano che non avrebbe mai creduto di dover lasciare e che era sempre stata in grado di indicarle la direzione giusta in cui procedere.
Almeno fino a circa un mese prima. Almeno fino a quando aveva sentito quella felicità sciogliersi giorno dopo giorno come neve al sole, offuscata dalla sua insoddisfazione e dalle tenebre che evidentemente non riusciva a scacciare.
Ora si sentiva brancolare nel buio, confusa, disorientata e sola, tremendamente sola.

Giocherellava con una matita, seduta alla scrivania, immersa nei suoi pensieri, attendendo l'arrivo della sua capa che, stranamente, quella mattina era in ritardo.
Tanto le avrebbe assegnato l'ennesimo lavoro da scribacchina inutile e privo di qualsiasi importanza, come era solita fare da quando era arrivata in quell'ufficio.
D'un tratto sentì bussare alla porta e si meravigliò perché la supervisor era invece solita entrare e spalancare l'uscio senza alcun preavviso.

«Avanti», disse.

Come aveva immaginato, non si trattava di Seohyung, quanto della signora Park, che le si rivolse con la sua solita aria cortese:

«Buongiorno Jisoo. Volevo dirti che la dottoressa Kim questa mattina non verrà al lavoro»

Jisoo inarcò le sopracciglia sorpresa, per poi esclamare:

«Ah. Strano, problemi in famiglia?»

«Ha avuto un brutto incidente», aggiunse la segretaria, abbassando il tono della voce come se stesse per raccontare un sordido segreto.

«Con l'auto? Quanto brutto?», chiese sconvolta.

«Stava attraversando la strada per venire in ufficio e a quanto pare una macchina l'ha investita sulle strisce pedonali.
Sembra che si sia rotta un femore»

In un attimo l'immagine di Seohyung stesa su una barella con la gamba ingessata attraversò la mente di Jisoo e un sinistro sentore di godimento la pervase.
Tentò di scacciare il prima possibile quell'immagine cattiva dalla sua mente per poi commentare con un:

«Dio, mi dispiace»

«Il karma ha questi effetti collaterali», esclamò perfida la signora Park, guardandola con sguardo d'intesa.

«Detto ciò il dottor Jung vorrebbe parlarti nel suo ufficio»

«Quale dei due?»

«Entrambi»

"Guai in vista?", pensò Jisoo deglutendo.

Paralizzata dall'ansia di quell'incontro era rimasta seduta immobile sulla sedia della scrivania.

«Jisoo? Muoviti cara!», la incitò la signora Park con aria benevola.

«Sì, giusto! Vado», rispose lei in trance, alzandosi in piedi.

Afferrò velocemente un block notes e una penna e prese la porta dell'ufficio seguita dalla segretaria.
Dentro di sé sapeva che la simultaneità dell'incidente della collega e quella chiamata improvvisa da parte dei capi, non potevano essere una coincidenza.
Si domandava solamente cosa volessero nello specifico da lei.

Arrivò all'ufficio del CEO e bussò con le nocche due volte.
La voce di entrambi la spinse ad entrare.
I due cugini erano in piedi davanti all'enorme vetrata: Jun in giacca e cravatta, con un completo grigio che sembrava stargli un po' troppo largo, mentre Haein era in maniche di camicia e sorseggiava un caffè, simile a quello che le aveva gettato addosso la prima volta che si erano incontrati, o meglio, scontrati.

Non si erano più parlati da quella sera, da quando avevano trascorso quel tempo sospeso in ascensore.
Jisoo aveva evitato in tutti i modi d'incrociarlo, smettendo addirittura di passare davanti alla porta del suo ufficio all'uscita: sgattaiolava in velocità dalle scale di emergenza in modo tale da ridurre tutte le possibilità di un incontro.
Non capiva il motivo di quel disagio, anzi, lo intuiva ma non voleva ammetterlo: Haein riusciva a metterla in difficoltà perché il rapporto con lui era ufficiale, ma al tempo stesso, ufficioso.
Non era il classico capo da temere e di cui avere soggezione, ma un uomo che in varie occasioni aveva cercato un contatto con lei e che in qualche modo aveva tentato di conoscerla.
La loro ultima conversazione aveva superato il limite che dovrebbe esserci tra superiore e sottoposta: avevano parlato di interessi, di relazioni, di desideri e solitudine.
Tutti argomenti che prescindevano sicuramente da un formale rapporto lavorativo.
Trovarselo lì di fronte ora la metteva a disagio, e non appena entrò nella stanza focalizzò lo sguardo sul cugino, ignorandolo.

«Buongiorno dottoressa!», fece il vicepresidente voltandosi verso di lei, mentre l'altro la guardava fisso.

«Buongiorno, volevate parlarmi?», chiese lei, stringendo forte il blocco di carta che aveva tra le mani.

«Esattamente. Si sieda», continuò Jun, mentre Haein era rimasto in silenzio.

Jisoo si sedette sulla poltroncina in pelle scura di fronte alla scrivania, Haein di fronte e il cugino in piedi accanto a lui.

«Come credo abbia saputo, purtroppo la Dottoressa Kim non potrà svolgere il suo lavoro per un po' di tempo.
Quindi abbiamo necessariamente bisogno che lei la sostituisca», disse Jun con tono solenne.

«Io?», chiese Jisoo, sgranando gli occhi.

«Beh Seohyung è la sua supervisor, chi altro se non lei?», le chiese a quel punto Haein, intervenendo per la prima volta.

«Sì ma non sono ancora stata formata adeguatamente. La dottoressa Kim ha un bagaglio di tutto rispetto, mentre io sono ancora inesperta in questo settore... »

«Quindi? Cosa vuole dirci?
Che molla prima ancora di sentire la nostra proposta e di provare?», continuò Haein provocatorio.

«Non ho detto questo. Darò, anzi, il meglio di me stessa per essere all'altezza della situazione», rispose Jisoo risoluta, guardandolo fisso negli occhi come se avesse davanti il suo più acerrimo nemico.
Stava palesemente tentando di metterla alla prova e lei non avrebbe ceduto.

«Bene, ottimo inizio!
Parliamo a questo punto del progetto.
Come forse già sa, siamo interessati a brevettare una nuova formula a base totalmente naturale, cruelty free e vegana per un sonnifero.
Qualcosa che sia innovativo e totalmente sicuro, ovviamente.
Seohyung credo che avesse iniziato ad abbozzare qualche proposta, da cui signorina Kim potrebbe prendere spunto... », disse Jun, per poi essere interrotto.

« ... o distaccarsene del tutto», esclamò Haein.

«Sì certo, certo. Deve sentirsi libera di progettare, di proporre delle idee sue altrettanto valide», si corresse il cugino.

"Mi stanno affidando un intero progetto: il lancio di un prodotto del tutto nuovo!
Jisoo, respira e mostrati disinvolta", cercò di autoincoraggiarsi mentre il cuore cercava di fuoriuscirle dalla camicetta.

«Ho delle scadenze da rispettare?», chiese timidamente, temendo la risposta.

«Un mese, può andare?», rispose il vicepresidente.

«Sì! Un mese è più che sufficiente!», mentì Jisoo, i cui pensieri invece cozzavano nella sua testa come schegge impazzite.

"Un mese? Trenta giorni scarsi per una cosa che non ho mai fatto e non ho idea di come iniziare? Sono spacciata! "

«Bene. È tutto», fece Haein, concludendo la conversazione.

«Un attimo... avete già delle richieste? Siete interessati a qualche estratto in particolare, magari?», domandò, con la speranza che le dessero una minima direzione da seguire.

«Ci stupisca Jisoo», rispose il CEO con sguardo provocatorio, scandendo bene le sillabe del suo nome.

Lei avrebbe solo desiderato prenderlo a schiaffi in quel momento, mentre poteva percepire l'ansia crescere dalla punta delle dita fino alla sommità del capo.

«Allora grazie per questa opportunità e ... non ve ne pentirete!», disse in imbarazzo, avvicinandosi alla porta.

«Buon lavoro!», le auguró Jun con il suo solito modo benevolo, mentre Hein rimase in silenzio.

"Non ve ne pentirete? Che idiozia!", pensò Jisoo una volta fuori, dandosi un sonoro schiaffo sulla fronte.

Attraversò a grandi falcate il corridoio in direzione del suo ufficio: aveva un mese, 744 ore, 44.640 minuti per la precisione, e non ne avrebbe sprecato nemmeno uno.

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Era rinchiusa nel suo studio da un tempo indefinito: era riuscita solo a percepire il cambio di luce e l'avvento della sera.
Stava facendo ricerche su internet da ore, finalizzate a capire come impostare un simile progetto, senza però ottenere grandi risultati.
Le sembrava di brancolare nel buio, di essere talmente in paranoia da aver perso completamente la lucidità.
Tutte quelle ricerche non la stavano portando a nulla, se non a confondersi maggiormente e ad aprire continue finestre su internet che ripetevano sempre le stesse inutili informazioni.

Era quello a cui aveva aspirato in tutti quei mesi: avere un obbiettivo lavorativo soddisfacente, qualcosa che la spronasse a dare il meglio di sé, e ora?
Ora che l'aveva finalmente ottenuto, non sapeva da dove iniziare, né tanto meno come procedere.
Era letteralmente impietrita dall'ansia e dalla paura di non essere in grado di farcela.
Aveva allontanato lo sguardo dal pc e si era portata una mano sulla fronte sfinita.

"Jisoo, calmati cazzo. Se continui così non otterrai niente!", si ripetè in silenzio.

In quel momento qualunque bussò alla porta dello studio.

«Avanti», disse lei presa alla sprovvista.

Haein fece capolino dalla porta chiedendo:

«Posso?»

«È la sua azienda, penso che abbia l'autorità per entrare in ogni stanza», rispose Jisoo, con il volto rischiarato dalla luce della lampada posta sopra la scrivania.

«Non eravamo passati a darci del tu?», chiese lui di rimando.

«È la forza dell'abitudine», rispose Jisoo.

«Come procede? Trovato qualcosa d'interessante?», le chiese, varcando la porta.

«No. Cioè volevo dire sì, ma... no, non ancora», rispose lei confusa.

«Vedo che hai le idee chiare.
Beh mi sono permesso di portarti questo, penso che ti possa essere utile», disse Haein, allungandole un plico di fogli stampati.

«Che cos'è?», chiese Jisoo sfogliandolo.

«Un insieme di progetti che sono stati portati avanti dall'azienda. Ci sono vari farmaci che abbiamo prodotto negli anni, dalla loro ideazione fino al lancio vero e proprio.
Puoi prendere qualche spunto»

«Grazie. Ma non voglio alcun favoritismo», fece Jisoo seria.

«Favoritismi? Non mi risulta che io abbia qualcosa da spartire con te e viceversa.
Lo avrei portato a chiunque si fosse trovato nella tua stessa situazione», rispose di getto lui, mettendo le cose in chiaro.

«Ovvio... grazie allora», rispose Jisoo in imbarazzo.

«Voglio un buon lavoro Kim, e un'ottima presentazione da valutare tra un mese», fece Haein, voltandosi e dirigendosi verso la porta.

«Sarà fatto...»

«Mi raccomando: respiri duraturi e profondi. La parola chiave è training autogeno», le disse con un sorrisetto beffardo prima di chiudere l'uscio.

"Sbaglio o mi ha chiamata "Kim"? ", rifletté tra sé Jisoo, pensando inevitabilmente all'unica persona che da sempre l'aveva chiamata così.

❉⊱•═•⊰❉⊱•═•⊰❉⊱•═•⊰❉

L'altoparlante della metro la destò dai suoi pensieri, annunciandole di essere arrivata alla sua stazione.
Era stanca e lo stomaco non le stava dando tregua, reclamando cibo, eppure forse per la prima volta da quando si era trasferita, si sentiva carica, incoraggiata a dare finalmente una svolta alla sua carriera e, in qualche modo, anche alla sua vita.
Quello che le era stato assegnato era un compito sicuramente arduo, ma voleva affrontarlo al meglio, voleva dimostrare di valere qualcosa ai suoi capi, ma soprattutto a sé stessa.
Poteva essere la svolta che aspettava da tempo, il momento di brillare finalmente in quella città che le stava regalando una nuova opportunità.

A questo pensava, armeggiando con le chiavi davanti alla porta di casa.
Entrò e quello che l'avvolse, o piuttosto, la travolse, fu il suono della musica ad alto volume.

«Jimin? Yoongi?», chiese, tappandosi le orecchie, per poi dirigersi verso il salotto.

La stanza era in disordine, con i resti della cena sparsi sul tavolo e Jimin era in mezzo alla sala, intento a volteggiare su sé stesso con un calice di vino in mano.

«Jimin?», gli chiese Jisoo, cercando di alzare il tono della voce per farsi sentire.

Ma non sortì alcun effetto: l'amico barcollava con gli occhi chiusi a ritmo di musica, immerso nel suo mondo alterato.

«Ehi!», insistette Jisoo, dandogli un leggero colpo su una spalla.

A quel punto lui si voltò verso di lei con aria sorpresa e le si fiondò tra le braccia urlando:

«Eccola! La mia amica di sventure!»

«Jimin, quanto hai bevuto?», chiese lei, sentendo il fetore alcolico del fiato dell'amico.

«Quanto basta per festeggiareeee!», rispose l'altro, facendo l'ennesima giravolta su sé stesso.

«Festeggiare cosa?», gli chiese Jisoo, confusa nel vederlo in quello stato.

«La libertà!»

Jisoo cominciò a guardarsi intorno alla ricerca del telecomando del lettore mp3. Lo trovò e premette "Off". Finalmente nella stanza calò il silenzio.

Si girò verso l'amico con un sopracciglio alzato in attesa di risposte: «Dove è Yoongi?»

«Via. Sparito. Scomparso. Volatilizzato. Perduto!», rispose Jimin, innalzando il calice di vino bianco in aria.

«Che stai dicendo?», chiese Jisoo, immaginando già la risposta: Jimin sapeva.

Era ormai scientificamente provato che quando una parte della propria esistenza sembra andare incontro a miglioramenti, l'altra tenda a peggiorare in un baleno.
Una giornata apparentemente positiva si stava tramutando di nuovo in un dramma.

«Sai perché non si è mai interessato ai preparativi del matrimonio?
Perché non gli è mai importato un fico secco di sposarmi!
E sai perché la sera tornava a casa sempre tardi con la scusa del lavoro? Perché si vedeva con un altro, o con più di uno, chissà!»

Jisoo rimase senza parole. Non sapeva come simulare incredulità e aveva paura che la verità sulla sua consapevolezza le si leggesse in faccia.

«Come hai fatto a scoprirlo?
Voglio dire, ne sei sicuro?», gli chiese.

«Più che sicuro, visto che me lo ha confessato lui stesso!
Ero stanco della sua presenza assente, e così stasera l'ho affrontato, abbiamo iniziato a discutere e quell'essere senza palle ha finalmente sputato fuori la verità!», le spiegò l'amico, con gli occhi lucidi per l'agitazione, o forse, per l'amara delusione che ancora faceva fatica a digerire.

«Jimin... mi dispiace così tanto», gli disse sinceramente Jisoo.

«Ti prego abbracciami, ne ho bisogno ora più che mai», la implorò lui.

Jisoo non se lo fece ripetere due volte e lo strinse forte, tentando di alleggerire il senso di colpa che la stava invadendo.
Se fosse stata sincera con lui, se fosse stata lei a raccontargli la verità, forse sarebbe riuscita ad indorargli la pillola e in qualche a proteggerlo, anzi che fargli affrontare tutto da solo.
Jisoo lo sentì affondare il viso sulla sua spalla e lasciarsi abbandonare ai singhiozzi.
Non sopportava vederlo in quello stato, lui così puro e così pieno di amore e affetto per chiunque lo circondasse.

«Grazie... », disse dopo un po' Jimin, staccandosi da lei ancora con gli occhi lucidi.

«Di niente»

«Non voglio che sia un mortorio. Voglio che questa sera segni la mia rinascita...anzi, LA NOSTRA!
Due single sexy e affascinanti, pronti a conquistare l'intera Seoul!
Alla faccia di quella merda che chiamano amore!», esclamò Jimin, tornando ad essere euforico.

«Che vuoi fare?», gli chiese Jisoo, sorridendo.

«Balla con me!», la esortò lui, afferrandole le mani dopo aver poggiato sul tavolo il calice ormai vuoto.

«Lo sai che sono una frana!», commentò lei ridendo.

«Io non ti giudico. Daiiii!», insistette, preso dai fumi dell'alcol.

Poi afferrò il telecomando del lettore mp3 e lo azionò.
Lentamente le note di una canzone si sprigionarono in quella stanza in disordine.

[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per scoprirlo.]

"We were good, we were gold
Kinda dream that can't be sold
We were right 'til we weren't
Built a home and watched it burn..."

La voce di Miley Cyrus era calda e accogliente e Jimin cominciò a dondolare su sé stesso, con gli occhi chiusi, trasportato da quelle note.
Jisoo, iniziò a fare lo stesso, tentando di non pensare a quanto potesse apparire ridicola.

"Mm, I didn't wanna leave you
I didn't wanna lie
Started to cry but then remembered I
I can buy myself flowers
Write my name in the sand
Talk to myself for hours
Say things you don't understand
I can take myself dancing
And I can hold my own hand
Yeah, I can love me better than you can
Can love me better
I can love me better, baby
Can love me better
I can love me better, baby"

Jimin le si avvicinò, prendendola per i fianchi e improvvisando un passo a due, mentre con le labbra mimava il testo della canzone.
Jisoo gli sorrise e si lasciò trasportare senza opporre alcuna resistenza.

"Paint my nails, cherry red
Match the roses that you left
No remorse, no regret
I forgive every word you said
Ooh, I didn't wanna wanna leave you, baby
I didn't wanna fight
Started to cry but then remembered I"

Erano insieme, eppure tremendamente soli: forse quella che entrambi stavano vivendo non era la vita che avevano sempre desiderato e immaginato.
Eppure ciò che Jisoo sentiva in quel momento non era il solito senso di vuoto, ma un'estrema vicinanza per l'amico.
Si ritrovò a stringerlo più forte, poggiando la guancia sulla sua spalla e abbandonandosi al movimento del suo corpo.
Voleva trasmettergli tutto il suo affetto, regalargli un po' di quella che era la sua stessa solitudine per farlo sentire meno solo.

"I can buy myself flowers
Write my name in the sand
Talk to myself for hours, yeah
Say things you don't understand
I can take myself dancing, yeah
I can hold my own hand
Yeah, I can love me better than you can
Can love me better
I can love me better, baby
Can love me better
I can love me better, baby
Can love me better
I can love me better, baby
Can love me better
Oh, I
I didn't wanna wanna leave you
I didn't wanna fight
Started to cry but then remembered I
I can buy myself flowers (oh)
Write my name in the sand (mmh)
Talk to myself for hours (yeah)
Say things you don't understand (never will)
I can take myself dancing, yeah
I can hold my own hand
Yeah, I can love me better than
Yeah, I can love me better than you can
Can love me better
I can love me better, baby (oh)
Can love me better
I can love me better (than you can), baby
Can love me better
I can love me better, baby
Can love me better
I"

Continuarono così a dondolare tra sorrisi e lacrime per il resto della canzone.
Non sarebbe stato facile, ma alla fine, come diceva Miley, sarebbero riusciti comunque ad andare avanti e un giorno ad amarsi meglio di quanto riuscisse a fare chiunque altro.

Lasciatevi trasportare da Flowers e se avete voglia fatemi sapere cosa ne pensate!

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