3; solo se guardi bene
La terza fase con un ragazzo era sempre stata la più complicata per me. Con Timothée c'era stato il primo impatto (l'incontro con Saoirse alla festa), il breve secondo momento tutto nostro, quella celere intimità in cui dimostrava le sue abilità di ventiquattrenne magnetico che ti lascia così (la chiacchierata al tavolo), ed ora era il momento della terza fase.
La più complessa in assoluto. Con Tom l'occasione del terzo incontro fu un vero disastro. Avevo comprato uno shampoo e una lozione e avevo deciso di usarli proprio quel giorno prima di uscire, ma mi fecero una reazione allergica che sfogò proprio al bar, mentre ero con Tom a cercare di bere il mio drink.
Questa volta non sarebbe andata così, ero decisa a fare in modo da sembrare una normale ragazza a un normale pranzo con sua sorella. Non avrei accettato nessuna reazione allergica o stranezza da parte mia, il fatto era che non trovavo uno straccio da mettere. Ero rimasta a fissare l'armadio col mio turbante in testa a tamponare i capelli bagnati per non so quanto tempo. Alla fine optai per i miei jeans preferiti. Scuri, strappati, sicuri, confortevoli, perfetti insomma. Li amavo perché mi facevano sentire a mio agio.
Mia sorella si stava lavando i denti mentre mi urlava che era pronta.
"Soro protta ettu?", gridò incomprensibilmente. Sì, sì, le dissi. Avevo appena messo gli scarponcini, ormai ero pronta anche io.
Quando uscimmo di casa pochi istanti dopo mi sbrigai ad entrare in macchina dalla parte del guidatore perché dovevamo passare a prendere Saoirse e non avevo la minima voglia di starmene lì dietro sola e in silenzio ad ascoltare le loro stupide conversazioni, almeno guidare mi avrebbe tenuto impegnata.
Saoirse uscì di casa al primo colpo di clacson.
"Potevi mandarle un messaggio", criticati Odeya per quel suo modo irruento di chiamarla, ma in un'alzata di spalle ammise che di solito faceva così, ma solo quando andava a prenderla di giorno.
Saoirse e Odeya avevano messo entrambe delle gonne svolazzanti, adatte alla temperatura mite, erano raggianti. La prima biondissima, i capelli lisci e una frangetta nuova sulla fronte che la dava un'aria fresca, con la pelle pallida, eterea e gli occhi illuminati dal cielo. La seconda con i miei stessi lineamenti, ma più belli, aveva la chioma leggermente ondulata, scura, ma più riflessata della mia, la pelle lattiginosa, gli occhi di un azzurro chiaro. Due ragazze sicure, bellissime, pensavo mentre scendevamo dalla macchina in direzione del porticato di Timothée. Io invece ero a mala pena un metro e sessanta, con ricci scurissimi e annodati che mi davano sempre un aspetto disordinato, la pelle olivastra e gli occhi marroni. A mia sorella erano capitate le qualità che avrei voluto io: l'altezza, i capelli lisci, gli occhi azzurri, la sicurezza. E Saoirse non era da meno, tutt'altro.
La casa di Timmy era grande, con un ampio giardino pieno di vasi di piante grasse e un bell'arredamento da esterno.
"Chi suona?", disse Saoirse una volta davanti al campanello.
Me ne occupai io senza esitare ciancicando un è soltanto uno stupido campanello. Ma dovetti ricredermi un istante dopo, quando lui ci venne ad aprire.
Baciato dal sole, rimasi a guardarlo per un attimo. Indossava una T-shirt bianca con una stampa scura, un pantalone della tuta viola e le caviglie coperte da calzini bordeaux. Scarpe da ginnastica con lacci arancio fluo che riprendevano l'improbabile banda laterale dei pantaloni della tuta e, ciliegina sulla torta, ciò che mi colpì non fu la particolarità dei colori scelti, o il suo incarnato ancor più delicato sotto i raggi del sole, ma furono i pantaloni all'interno dei calzini. Non solo reputavo che aprile non fosse un mese tanto freddo da ricorrere a questi metodi, ma non capii come fosse possibile che a una persona potesse donare una cosa del genere quando la ritenevo una sciatteria. Scoprii in seguito che quella dei calzini alti fin sopra i pantaloni era una sua cosa, una sua caratteristica speciale da cui rimasi immediatamente affascinata.
Timothée salutò tutte noi con un sorriso fugace, soffermandosi un istante di più su di me, molto probabilmente perché notò che lo avevo appena studiato, anche se discretamente.
Ci fece entrare, dicendoci di fare come se fossimo in casa nostra. Una normalissima villetta familiare, molto carina e ben arredata, probabilmente era casa dei suoi genitori.
Saoirse gli chiese come fosse andata la fine della serata all'incontro tra gli ex studenti, lui rispose: "Vai in giardino sul retro e scoprilo", rise arricciando il naso. Anche quella era una sua cosa.
"Perché? Sono tutti qui?", sgranò gli occhi mia sorella.
"No, non tutti, non potevo fare una cosa grande dall'oggi al domani. Troppo poco tempo per organizzare. Ho invitato voi tre e altri pochi ragazzi".
Non rimasi sorpresa del suo invito tanto esteso. "Noi abbiamo portato una bottiglia di rosso e una grappa. Vado a prenderle in macchina", dissi secca.
"Ti accompagno, Neva, ragazze voi accomodatevi fuori. Conoscete tutti di sicuro. Ci sono i gemelli, Zoe, Ansel e la ragazza, Asa, Joe, Charlie e Natalia e credo di non aver dimenticato - ah! C'è anche KJ, ma non ditegli che l'ho dimenticato".
"C'è anche tua sorella Natalia? Che bello, non la vedo da tantissimo", disse Saoirse. "E Pauline invece?"
Odeya non lasciò a Timmy il tempo di rispondere: "Ma dai, ci vado io a prendere le bottiglie in macchina con Neva. Anzi, a sapere che eravamo così tanti ne avremmo prese di più".
"Sì, infatti", disse Saoirse, dedicando un celere sguardo fulmineo a mia sorella, "magari mentre voi prendete le bottiglie noi andiamo a salutare e vediamo se serve una mano col barbecue".
Io ero ancora lì. Ferma e immobile, incapace di capire la reazione di Saoirse, tanto da dire che ce l'avrei fatta benissimo da sola.
"Due bottiglie posso ancora portarle, comunque", suggerii incredula, con le chiavi della macchina in mano, ma le ragazze dissentirono.
"Ma se sei così maldestra", disse Odeya, e Timmy rise, dirigendosi verso l'uscita di casa. Non protestai, seguendolo.
Arrivammo davanti la modus di mia madre, la aprii in automatico e mi avvicinai per aprire lo sportello, ma lo fece lui per me. Ancora silenzio, anche quando mi sporsi dentro per prendere il liquore e il vino non sentii fiatare, fino a: "Ce la fai?"
"Certo, tranquillo".
"Però le porto io", e quando finalmente uscii dalla macchina me le tolse dalle mani.
"Va bene, ma non sono così maldestra come dicono quelle due".
Non rispose. Non disse nient'altro. Non mi sorrise né cercò di farmi intendere che stava solo cercando di dimostrarmi cortesia, poco gli importava della mia capacità o non capacità di fare le cose. Zero, solo un sorriso freddo preimpostato e niente che mi ricordasse il Timmy affabile della sera prima.
Il cuore mi si congelò, e così rimase fino all'arrivo nel giardino sul retro, dove c'erano gli altri.
Mi presentai, con educazione e sorrisi a tutti. Poi mi nascosi al lato di mia sorella e non mi mossi più.
"Non vedevi l'ora, eh". La voce di Timothée mi richiamò dai miei pensieri facendomi scattare in un balzo. Quasi mi cadde la moca che avevo in mano.
"Mi hai fatto prendere un colpo!", gli risposi, posandomi una mano sul petto pensando di ristabilizzare il respiro in quel modo.
"Scusami, non volevo spaventarti".
Studiai i suoi movimenti per un istante, soppesando le parole da utilizzare o no, cosa domandargli e cosa pensare. Lui era, come ogni volta in cui lo avevo visto, sereno. Non aveva preoccupazioni. Un'espressione felice in volto, ma senza il bisogno di avere un sorriso perenne stampato in faccia. Era così di natura. Stava per voltarsi e dirigersi verso l'uscita della cucina, ma io lo bloccai.
"Non vedevo l'ora di cosa, Timothée?", chiesi.
"Puoi anche chiamarmi Timmy, come fanno tutti gli altri. Non devi temere di sbilanciarti troppo, per certe cazzate", quasi mi sgridò.
Quella era la seconda vera conversazione che avevo con lui, e come ogni volta sviava a ogni mia domanda con un'altra domanda.
Alzai ali occhi al cielo: "Okay, okay", e sbuffai. "Allora, Timmy? Non vedevo l'ora di cosa?" Rimarcai il suo nome per essere sicura che lo avesse notato, infatti lui sorrise sonoramente alla menzione del suo diminutivo.
"Di trovare una scusa per startene un po' da sola", disse. Avanzò di un passo verso di me. Poi un altro, un altro ancora. Eccolo, ora era vicino a me.
Io avevo tra le mani la moca, quella era stata la scusa con cui mi ero allontanata dagli altri. Ma lui mi aveva seguito poco dopo.
"Avevo solo voglia di caffè e anche gli altri", negai stupidamente.
"Certo, immagino l'urgenza di caffeina", ironizzò.
Si portò una ciocca di capelli dietro un orecchio perché erano abbastanza lunghi da permettergli di farlo e mi fissò negli occhi. Mi sentii smascherata.
"Cazzo, ma si vede così tanto?", cedetti, lui sorrise ancora una volta. Si avvicinò un po' di più.
"Solo se guardi bene, Nev", confessò in un flebile sussurro.
Ormai era davanti a me, con la mano destra sul ripiano a sostenere il suo peso, perché era sbilanciato su un lato coni piedi incrociati. Già dal suo portamento, con quella figura slanciata e sicura, si intuiva facilmente di quanto fosse consapevole dell'effetto che era in grado di avere su qualcuno, il problema era che da quella distanza, prima di quel momento, a me ancora non era capitato di osservarlo. Io gli arrivavo a mala pena al petto, e da quella prospettiva osservavo il collo magro, bianco, il pomo d'Adamo, i riccioli castano cioccolato accarezzargli la nuca e dondolargli selvaggi sulla fronte, la mascella tagliente, strutturata perfettamente in una forma geometrica e spigolosa, le labbra rosa serrate, piccole lentiggini a decorare zigomi e naso sporgenti e, infine, il suo sguardo languido, di un nocciola chiaro, quasi completamente verde scuro, fatta eccezione per le pagliuzze color caramello sul perimetro dell'iride nero.
Feci una foto mentale, e probabilmente fu in quel momento, proprio quando ammise di aver osservato bene oltre le apparenze che, col suo viso davanti, mi infatuai di lui.
"Devi rilassarti, Nev". Mi lasciò lì, da sola.
eccoci di nuovo,
grazie per la pazienza
e per aver letto. baci, eu
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