𝑰'𝑳𝑳 𝑺𝑬𝑻𝑻𝑳𝑬 𝑭𝑶𝑹 𝑻𝑯𝑬 𝑮𝑯𝑶𝑺𝑻 𝑶𝑭 𝒀𝑶𝑼






PREMESSA:

-La voce che sentirete sul mio trailer (il cantante) sarà quella di Jimin in una determinata scena.
-Leggete le frasi dentro a ogni foto: saranno diverse e riadattate al contento.

Grazie e buona lettura❤️




















Fra le vie di un lungo bivio basterebbe spostare l'attenzione ai margini del cuore, per poter definitivamente scegliere il senso da dare alla nostra vita. A come una via di luce e una di buio possono essere sempre più definitive, per respirare senza rimorsi.

Forse quella mattina mi sarei dovuta alzare più lentamente, voltare il capo a destra verso la fioca luce del mattino — marchio di pura vita — invece di girarmi a sinistra, lungo l'ombra della porta di camera mia.

E scostai di poco i capelli e le lacrime dagli occhi, per la mia ultima scelta al ciglio del buio della mia penombra. Ed era sempre lì, non mi lasciava. Incominciai poco tempo dopo a dispiacermi per lei, la mia ombra, perché in qualche modo la stavo infettando con la ruggine della mia patetica vita.

Questo era semplicemente il dopo della morte di mia madre, ma anche il prima di un'altra strana e amara complicità.

E sarà il racconto di come, dopo tanto tempo, sono riuscita a trovarmi in mezzo a due vie parallele e discordanti. Di come ho conosciuto il dolore, il cuore spezzato e l'indegna morte, a come ho incontrato l'amore e la premura lungo un fiume azzurro.

Non seppi di preciso quale nome darmi per questa storia, ma qualcosa mi intimava di farlo a modo nostro e allora decisi: chiamatemi Blue.

Blu come gli occhi e il mare in tempesta. Blu come il colore delle vetrine specchiate del grattacielo alle appendici del fiume Han.

Ma specialmente, chiamatemi Blue.
Chiamatemi così, com'era il cielo insieme a lui.

A com'ero, Blue e basta.




«Sono ancora lì» dissi dal vetro della metro, «Le stesse vetrine di ogni giorno. Mi chiedo come facciano a rimanere così belle dopo ogni notte»
«Non so che cosa ci trovi di così interessante in quelle vetrine colorate. Sono dei pezzi di vetro» asserì a pochi metri da me la mia migliore amica.

La guardai un po' spaesata e sospirai non appena la metro ritornò nel sottosuolo con il fischio soffocato delle rotaie. «Sono particolari»
«Hai studiato per il test di matematica?» mi interruppe con lo sguardo intriso nei suoi appunti.
«Io... Mi sono dimenticata del test» mormorai con la mano stretta al palo di metallo. Masturi smise di leggere per squadrarmi di sbieco, «È la terza volta in un mese. Datti un regolata Bashira, abbiamo i test di ammissione il prossimo semestre e non stai aprendo libro»

«Lo so, sono stata occupata» mentii guardando le persone in fila davanti alle porte del mezzo, ma Matsuri emise un grugnito. «Certo come no» pensava che ero la solita a comportarmi in quel modo. Irresponsabile e immatura. Ma da un lato, volevo che la gente pensasse questo di me, che quella era la scelta migliore. Bisognava affondare da soli.

Diedi l'ultimo sguardo alla marmaglia di persone in giacca e cravatta, e con la tempia pungolata alla sbarra attesi l'ultima fermata prima di quella scolastica. Aprii gli occhi con estrema assenza e poi lo vidi.

Eri lì, in mezzo alla folla. Immobile, le mani dentro le tasche e con un sorriso stampato sul volto. Corrucciai le sopracciglia domandandomi che diavolo volesse quel tizio strano e piantato lì come una salma. Ma non smise di guardarmi nemmeno dopo averlo folgorato con lo sguardo.

«Matsuri lo vedi anche tu? C'è un maniaco la fuori!» borbottai alla mia amica. Il treno riprese a partire in concomitanza alla voce robotica e registrata dell'ordine di fermata, poi Matsuri alzò di nuovo il capo con la bocca schiusa. Ma fu troppo tardi perché lei mi desse ragione. «Bah, non c'è nessuno» dichiarò dopo l'ennesimo cambio di luce per la galleria. «Te lo giuro che era lì a fissarci! Non l'hai visto perché siamo ripartiti»

«Ho guardato cinque secondi prima che partisse ma non ho visto niente. Non so che dirti» disse guardandomi pacata. Non le importava e quindi ignorò le mie parole.

Ma ci ero abituata — a essere ignorata — dopotutto era così la mia vita. E quella mattina, come ogni mattina del mio flusso, avevo scelto ancora una volta il bivio sbagliato. Difatti, la mia ombra in quel momento non c'era più.







«Basta. Ti prego smettila»

Mi chiesi perché continuassi a sbagliare così tanto. Avevo fallito al compito: Matsuri me l'aveva detto e rimproverato più volte la mia disattenzione. Ma forse la sua non era più premura; sapevo che i suoi genitori voleva che frequentasse compagnie sane e pulite, che studiasse al meglio e che uscisse poco con i ragazzi per non deconcentrarsi.

Da un lato la capivo, perché io rimanevo l'esatto contrario e avevo dalla mia parte solamente un padre che gridava e sbatteva sulla porta quanto fossi fallita come persona. Ma specialmente come figlia.

«Hai anche il coraggio di presentarti con questi voti a casa tua!? Pensi che io mi diverta a lavorare nove ore al giorno in una fabbrica di merda per mantenere te e i tuoi sogni infantili!?» la mano sbatté ancora, tutto vibrava e la mia schiena ne era smussata dai colpi, «Le tue lacrime non servono a niente in questo momento. La delusione che provo per te e nella tua non devozione come figlia è infinita» diede l'ultimo colpo con il palmo e poi se ne andò via verso camera sua.

Non seppi distinguere in realtà che cosa mi fece più male in quel momento; se la schiena appiccata alla porta o la dura verità di quelle parole.

Ci rimuginai sopra. Lo feci anche con le lacrime agli occhi e le mani incollate alle tasche del piumino. Provai ad inviare un messaggio a Matsuri, chiedendole se avesse voglia di uscire come me anche solo un'ora nel pomeriggio. Aspettai per ben due ore la sua risposta in una delle panchine nel reticolato del fiume. Ma arrivò solo al calar del Sole; mi disse che doveva studiare e che dovevo sbrigarmi a farlo anche io.

Strinsi il cellulare nelle mani e lo ricacciai dentro la tasca con rabbia. Ma era solo rabbia verso me stessa.

«Freddo, eh?»

Cacciai un urlo e il suono risultò ancora più forte perché non vi era nessuno in zona. Girai la testa e vidi lo stesso inquietante ragazzo che mi fissava nella metro.

Era a pochi passi da me e tratteneva a stento un sorriso divertito. «Ma che? Stai lontano da me!» finii per alzarmi spaventata. Al mio scatto scoppiò a ridere ancora più forte, tant'è che dovette passarsi il braccio per asciugarsi le lacrime.

«Lo sai che quando ti arrabbi i tuoi occhi si gonfiano così tanto da sembrare una rana? Una di quelle in procinto di scoppiare»

Per niente divertita andai alla ricerca dello spray al peperoncino dentro il mio zaino. «Fai un solo passo e ti ritroverai con dei cetrioli sotto sale al posto degli occhi» dissi puntandolo contro di lui. Mi guardò più divertito che mai e per niente intimidito dalla mia minaccia.

«Quella che si ritroverà gli occhi rattrappiti sarai solo tu se non giri lo spray dall'altra parte» dichiarò con sarcasmo ed effettivamente vidi poco dopo il tondino d'uscita dritto verso la mia faccia. Deglutii e lo girai velocemente, per poi ripuntarglielo contro.
«Ti ho già visto in metro! Eri fermo come un maniaco a fissarmi, cosa ti dice la testa!? Chi sei? Cosa vuoi da me?»

Sembrò ignorare ogni mia domanda e camminò con tranquillità fino alla panchina, si sedette guardando con intensità il fiume d'inverno. «Capisco perché vieni sempre qui. Le onde non si sciolgono mai, non riesci a staccare l'attenzione e le segui. Continui a seguirle fino a farti girare la testa» finì ridacchiando. Abbassai lo spray. «Chi sei?»
«Jimin. Solo Jimin»
«Bene. Solo Jimin, perché mi stai seguendo?»
«Tu però non mi hai detto come ti chiami...» ribatté e lo vidi scorgermi con la coda dell'occhio.

A quel punto tentennai; era assurdo dire il proprio nome a un pazzo sconosciuto. Cercai di prendere tempo e guardai prima le acque fredde e placide e poi il cielo privo di nuvole alla fine del crepuscolo.

«Mi chiamo Blue»

Si morse il labbro mentre socchiuse gli occhi sorridendo. «Blue? E basta?»
Annuii. «Si. Blue e basta», sembrò soddisfatto e rilassò le spalle e le braccia ai suoi lati.
«Il fiume Han è meraviglioso alle luci del mattino, molti lo etichettano come sintomo di rigogliosità e vitalità. Ma se guardato alle soglie del buio e della notte, potrebbe parlarti e trascinarti con lui per le correnti placide» e sul suo viso, questa volta, non vi era più nessun sorriso.

Eccolo ancora una volta, il bivio.

«Penso che io debba andare ora. È tardi e mio padre sarà preoccupato» ennesima bugia. Jimin mi dedicò l'ennesima occhiata strana, ma annuì poco dopo ritornando a sogghignare. «Non avere paura di me, non voglio farti male»

Tacqui e iniziai a camminare all'indietro per allontanarmi, fino a quando non alzò la voce per chiedermi: «Domani alla solita ora?»

Mi girai per guardarlo e rispondergli in maniera negativa, ma sulla panchina ci fu solo il vuoto e l'ombra degli alberi notturni. Poi un vento freddo sfiorò il collo e il lobo con premura. Quella volta, fu la prima, in cui non ebbi paura di lui.






Non tornai più nel reticolato del fiume Han. Qualcosa mi urlava di farlo ma soppressi la voglia con i libri di storia e le formule di matematica appallottolate sotto la sedia del caffè.

Ero riuscita a convincere Matsuri a darmi una mano per i prossimi test, ma non tutto era sfociato secondo i miei piani. Perché Matsuri mi aveva dato il suo vecchio quaderno di matematica insieme alle formule, ma senza una misera spiegazione non potevo che accontentarmi di risultati mediocri e insoddisfacenti.

Capii che, nel mentre io provavo a recuperare ciò che era passato, Matsuri si immedesimava nel futuro. Perciò chiusi i quaderni, i libri e riposi le matite nella custodia. «Andiamo a prenderci un gelato?» domandai sforzandomi di sorridere. Lei mi guardò e diede un'occhiata alle mie cose già imbustate.

«Si può fare, però facciamo presto» si guardò il polso, «Fra un'ora devo tornare a casa e non voglio che diventi troppo buio»

Già, il buio non piaceva proprio a nessuno.

Qualcosa si stava rompendo e lo sentivo. Mentre Matsuri mangiava il suo gelato, guardò solamente la Home di Instagram. Non parlammo; o almeno io ci provai in qualche modo. Fissai il mio gelato ancora pieno e colorato, lo guardai dispiaciuta ma la fame non faceva più parte di me in quel momento.

Perciò mi avvicinai al cestino della spazzatura per gettarlo ma rividi improvvisamente Jimin dall'altra parte della strada. Oltre le strisce pedonali e sotto il semaforo dei pedoni.

Mi guardò come suo solito e sorrise. Afferrai la mano di Matsuri e indicai il punto. «Matsuri! Ecco il ragazzo di cui ti parlavo, è quello della metro!» e questa volta ero eccitata a mostrarglielo veramente.

Non mi avrebbe più scambiato per una pazza che inventava le cose o una bambina che viveva sulle nuvole. Perché Jimin continuava ancora a sorridermi oltre quella strada trafficata.

Matsuri alzò lo sguardo infastidita e guardò oltre il mio dito. Provò a guardare più volte, socchiuse gli occhi dietro gli occhiali e schioccò la lingua al palato.

«Io non vedo nessuno»

«È fermo lì! Sotto il semaforo, ha una giacca lunga e un jeans scuro. Ci sta guardando!» e scossi un po' troppo il suo braccio. Si infastidì, si aggrappò per scostarlo e allontanarsi.

«Ti ho già detto che non vedo nessuno Bashira! Quando la smetterai di vivere in un mondo che non esiste, con persone che non esistono e tutte quelle cazzate che ti inventi sempre!» scoppiò stancamente, «Guardati! Stai qui a indicare gente che non esiste mentre dovresti studiare o dare un senso alla tua vita. Mi sono stancata di te, tu... tu mi rallenti» si allontanò indietreggiando con altri passi e io, con il cuore ricoperto di crepe, provai ad allungare una mano verso di lei. «Matsuri ti prego... noi, noi siamo amiche-»

Distolse lo sguardo chiudendo le mani in due pugni lungo i suoi fianchi. Restò in silenzio mentre cercai con tutta me stessa di non piangere e urlare davanti a lei.

Ti prego...

«Non basta Bashira. Non mi basta più»

Tagliò di netto la corda che ci ancorava ancora insieme lungo il vuoto del crepaccio. Smise di guardarmi implorare, recidendo il nostro legame e io precipitai a piombo nel vuoto alle mie spalle, ma non smisi un secondo di guardarla.

Si allontanava sempre di più e di riflesso non potei che fare la medesima cosa.

Improvvisamente iniziò a piovere e Matsuri, quel giorno d'inverno, sparì tra la pioggia e i suoi ideali. Perché una persona che nuotava a fatica nel passato non poteva accollarsi a chi veleggiava nel futuro. E nonostante il male e le sue parole aspre di cattiveria, non potei fare a meno di capirla per l'ennesima volta.

Dopotutto, il buio non piace mai a nessuno. Non è vero, Matsuri?

Quando tornai a casa sentii il ronzio del notiziario delle otto affogare nel russare di mio padre. Il quale, seduto sulla poltrona di verde vecchio, riposava con la bocca mezza aperta e la testa rivolta sul soffitto. Meglio così, pensai, non ho le forze per un'altra conversazione.

Aprii la porta durante la commemorazione dei giovani e finii per non sentire altro — tranne qualcosa sull'argomento del fiume Han — perché chiusi la porta alle mie spalle, cadendo poi sul letto sfatto dal mattino. Sentivo i miei respiri, i battiti veloci del mio cuore e ripresi a piangere più forte di prima. Usai la coperta per soffocare i singhiozzi finendo per nascondermi sotto di essa.

«Eri molto bella oggi»

Smisi di piangere in modo fulmineo e sentii subito il peso sul letto raddoppiarsi.

«Forse dovresti sorridere un po' di più»

Scaraventai la coperta sul ventre, realizzai che quella tediante e calda voce non me l'ero immaginata o sognata. Era reale, così tanto da farmi uscire il cuore dalla gola. Com'era reale la folta chioma castana di Jimin, i suoi occhi neri e affilati, le labbra a cuore e la sua felpa e i suoi jeans appesi al suo corpo.

«C-Com'è possibile-»
«Ci siamo già presentati. Smettila di usare questo tono formale e distaccato, Blue» finse di non sentirmi e appoggiò il mento sulla mano, mentre alzò le gambe a farfalla sul piumone.

Piantai una mano sulla fronte e biascicai stanca: «Forse ho realmente qualche problema»
Jimin ridacchiò e scosse la testa. «Sei più intelligente di quello che pensi, stai benissimo»
Mi raggomitolai contro il muro, appoggiando la schiena su di esso, e nel mentre affondai il mento tra le ginocchia scoppiando a ridere in modo quasi isterico.

«C'è uno pazzo sconosciuto dentro la mia stanza, seduto sul mio letto, e continua a chiedermi di essere informale con lui quando parlo»
«Beh... se la metti su questo piano, potresti correggere la tua frase con un "c'è un ragazzo sexy dentro la mia stanza-»

«COME DIAVOLO HAI FATTO A ENTRARE QUA DENTRO!?» gli lanciai in faccia tre cuscini, uno dietro l'altro e provai ad alzare la voce per svegliare mio padre. Oh almeno ci sarei riuscita se solo non si fosse alzato di scatto per bloccarmi sul materasso, con un dito premuto fra le mie labbra e le sue.

«Non sono un cazzo di maniaco, se mi lasci spiegare-» si zittì non appena sentì i passi di mio padre avvicinarsi alla porta. Questo si grattò il capo e bussò svogliatamente su di essa. «È tutto apposto? Ho sentito urlare»

Jimin mi fece cenno di tacere, chiuse gli occhi sussurrando sul dito e sulle mie labbra un «Ti prego, fidati di me» tremante, deglutii e lo ascoltai.

«È tutto apposto papà, ho sbattuto il piede contro lo spigolo del letto»

Un classico, ci avrebbe creduto.

«Mmh, stai più attenta. Fra mezz'ora ceniamo perciò non mangiarti schifezze o cose simili» gracchiò ripetitivo per poi allontanarsi e lasciarci soli.

Ora che il pericolo era scampato e il silenzio ristabilito, riaprii gli occhi con lentezza, giusto il tempo di realizzare in che posizione ora ci trovassimo. Guardai quel ragazzo e lui, di rimando, fece la stessa cosa. Eravamo così vicini e intimi che potei sentire la sua fronte in contatto con la mia e per quanto quella situazione fosse irreale e pericolosa...

Non potei non trovare quel ragazzo bellissimo.

«Ti prego alzati» sussurrai stizzita e lui acconsentì, ma lentamente. Si rimise seduto e chinò il capo per ringraziarmi. «Non so come ringraziarti—»

«Che cosa vuoi?» uscì quasi come una minaccia. Jimin si fermò e questa volta sentì di non avere altra scelta se non parlare. «Io... Non so da dove iniziare. Ma vorrei prima chiederti una cosa»
«Che genere di cosa?»
«Un favore», esordì, «Risponderò a tutto quello che vuoi. Ma non potrai chiedermi chi sono e come sono entrato qui, il mio compromesso chiede solamente questo» allungò una mano in attesa di risposta. Rimasi a guardarla e tentennai. «Si può fare» mormorai stringendogliela e la sentii fredda come il ghiaccio.

Sorrise ancora e mi lasciò proseguire. Erano talmente tante le domande che non in quel momento non riuscii a formularne neanche una. Sbuffai frustrata, appigliandomi le mani ai capelli e gli chiesi che cosa volesse da me e perché continuava a seguirmi.

«In due mesi ti ho vista girovagare lungo il reticolato del fiume per ben ventitré volte. Cinque dove avevi oltrepassato la recinzione di sicurezza. E in una di queste volte...» smise di sorridere, «ti eri arrampicata sopra un pilone per guardare il vuoto sotto di te»

Regnava il silenzio intorno alla stanza mentre in me albergava solamente lo stupore. Smisi di guardarlo e mi torturai le dita delle mani corrose dal freddo.
«E con ciò? Vorresti insinuare qualcosa di puramente immorale?» domandai retorica. Jimin socchiuse gli occhi, divenuto più nervoso di prima.
«Non sto insinuando niente. Ti ho dicendo quello che ho visto e non sono idiota: le tue intenzioni, le tue espressioni, il tuo linguaggio e i tuoi occhi trasmettono tutto ciò che non ti è più in possesso»

Spalancai gli occhi. Come faceva a sapere tutto questo? «Io non ti conosco nemmeno e tu non conosci me. Cosa diavolo vuoi!? Non sono un'aspirante suicida, cazzo» mi alzai e camminai avanti e indietro nervosa.

Non aveva senso.

«Hai ragione, tu non conosci me. Ti darò il modo di conoscermi: domani presentati vicino al solito posto del reticolato»

No. Tu non conosci me.

Jimin scese dal letto e mi passò accanto per raggiungere la porta. I suoi passi furono leggeri come aria, i respiri inesistenti e la pelle diafana contro la luce della Luna. Aprì la porta e mi guardò prima di sparire.

«Ci vediamo al fiume Blue e ti prego, porta insieme a te un sorriso»






«Non ti vedo sorridere abbastanza»

Schioccai la lingua sul palato e infilai le mani nel cappotto grigio. Quel giorno a Seoul faceva molto freddo, le temperature erano scese di altri tre gradi e l'aria stava diventando sempre di più invivibile. Persino le acque blu torbide del fiume emisero ondate di gelo; gli uccelli abbandonarono la città, lasciando per chilometri solo lo stridio del traffico umano.

«È troppo freddo per sorridere, come riesci a farlo sempre?» gli chiesi sedendomi accanto a lui. Jimin lasciò che il vento muovesse i suoi capelli scuri e sospirò lungamente. «Non dirlo, magari un giorno potresti rimpiangere anche il tuo ultimo sorriso» Questa volta fui io a sorridere, ma in modo amaro. «Non sorrido da quando è morta mia madre due anni fa, rimpiango solamente lei e i miei silenzi di troppo» ammisi sfogandomi.

La sera prima feci un po' di ricerche sul conto di Jimin e in qualche modo, quest'ultimo, era scampato alla guardia di mio padre quella stessa notte. Anche se non sapevo il suo cognome o la sua età esatta provai a cercare su ogni social possibile. Ma era stato un buco nell'acqua com'era d'aspettarsi. Avevo provato di tutto, tranne YouTube.

«Ti manca?» domandò a bruciapelo senza guardarmi.

«Tantissimo. Ogni giorno. Venivamo in questo posto molto spesso io e lei» le gambe presero a dondolare imperterrite, come quelle di una bambina piccola, «E ogni volta mi annoiavo a morte»
Jimin sghignazzò. «Ah? Sei lunatica per caso?»

Ruotai gli occhi al cielo e poi riabbassai lo sguardo a terra sulle mie ginocchia. Gli angoli della bocca si alzarono all'insù. «È il rimpianto. Solo dopo la sua morte ho potuto vedere quello che vedeva lei ogni mattina nella metro Sud. Facevamo il tragitto assieme e lei si perdeva a guardare lo specchio cristallino del Sole sul fiume. Lo stesso riflesso delle vetrate azzurre» quelle magnifiche vetrate color blu cielo.

«Ho pensato a una cosa, Jimin»
«Sono tutto orecchie»
«Io non conosco te e tu non conosci me. So che sono irresponsabile perché tu potresti essere persino uno stalker serial killer però, ti prego. Viviamo questa breve conoscenza, questo frammento, come se la razionalità non esistesse. Come se ci conoscessimo da anni» guardai il cielo con gli occhi ormai umidi, «Credo di averne bisogno, quindi ci stai?»

«È questo che desideri realmente Blue?», mi guardò con un magico sorriso.

Sì, dissi in equilibrio sul bordo della catastrofe, facciamolo.

Era una cosa stupida e lo confermai tutt'ora, eppure non m'importava più. Perché quando camminammo per i viali di Itaewon, a parlare di quanta gente ci fosse intorno a noi o delle materie che odiavamo studiare in assoluto, non mi ritrovai più a pentirmene. Mantenemmo una degna distanza di sicurezza all'inizio e a fine giornata ci salutammo con un tiepido cenno di mano. Mi disse di rivederci il giorno dopo alla solita ora e al solito posto, ed io accettai senza pensare.

Passò un giorno. Poi un altro e un altro ancora. Era nata una insolita routine fatta di patatine fritte del chioschetto vicino al fiume e di parole profonde, lunghe e di spessore.

Non mi dispiaceva più la sua compagnia, ne era quasi divenuta un bisogno da quando Matsuri aveva iniziato a ignorarmi in classe.

Le altre compagne di classe bisbigliavano e si chiedevano perché la strana e la secchiona non stessero più insieme come il duo delle sfigate. E io, nella soglia dell'ultima finestra in fondo alla classe, con le braccia conserte e la spalla appoggiata al vetro, pensavo solamente a quando tutto questo sarebbe finalmente finito. A quando avrei smesso di studiare o rendere infelici gli altri con la mia presenza.

O semplicemente, rivedere Jimin sulla nostra panchina al fiume e stare bene per un paio di ore al giorno.

«Ti vedo pensierosa»

Aprii gli occhi e mi ritrovai le pupille nere di Jimin a pochi centimetri dal mio volto. Mi voltai imbarazzata dall'altra parte e borbottando. «Mi fai prendere i colpi!»

L'altro ammiccò mentre si torturò con una mano i capelli tirati all'indietro. «Certo Blue, certo. Pensavo che la mia presenza non ti imbarazzasse più» gracchiò avvicinandosi per darmi ancora più fastidio.

Ricominciai ad avvampare come una lampadina. «Smettila di prendermi in giro», continuò ad avvicinare il volto insieme al suo busto verso il mio. «Jimin!—» d'istinto appiattii le mani sul suo petto fermandolo.

Il nostro secondo contatto.

Boccheggiai. Jimin abbassò lo sguardo sui miei polsi e con lentezza, quasi con estrema meraviglia, ne tracciò il contorno con le sue. Le sue mani erano gelide, così come il suo petto privo di respiro e calore. Allargò le narici per trattenersi, si ritrasse con amaro dispiacere e mi lasciò libera.

«Mi dispiace» sussurrò, quasi più a se stesso. Vidi per la prima volta uno sguardo perso nel vuoto, come se non avesse mai avuto vita. Dello stesso vuoto di chi non aveva mai accarezzato i raggi del Sole in una bellissima e remota giornata di mare.

«Non... non ti preoccupare. Non mi ha dato fastidio» ammisi con difficoltà, anzi... perché era già finito?

«Hai voglia di fare qualcosa di diverso?» chiese e questa volta tornò a guardarmi. Annuii curiosa.
«Cos'hai in mente?»
Ridacchiò compiaciuto. «Lascia fare a me»

Quel pazzo di uno sconosciuto aveva insistito per portarmi in una sorta di club o discoteca dall'aria meno tossica di tutti gli altri scempi di Itaewon. A quest'ora dovevo già essere in camera mia per lavarmi i capelli e ficcarmi nel letto prima di andare a scuola. Invece ora stavo percorrendo le scale nere e lucide del club insieme al magnifico fondoschiena di Jimin, fasciato da un jeans nero e aderente.

«Assolutamente no»
«Eddai! Fidati di me, ti divertirai»
«Non mi piacciono queste genere di cose...»
«Dammi mezz'ora. Se dopo trenta minuti non ti avrò convinta allora ce ne andremo»

Sospirai nervosa ed infine acconsentii con un grugnito. «Va bene, ma sbrighiamoci» Jimin avanzò prima di me con un sorriso malizioso e lasciai che mi facesse da guida in quella giungla scalmanata.

Ho bisogno di aria.

«So che non sei mai stata in un club prima d'ora. Ma questo posto è speciale dagli altri, era il mio preferito» mi spiegò ad salta voce per surclassare la musica. Lo sguardai stranita e lo imitai per farmi sentire. «Perché era? Non ci vieni più?» lo vidi bloccarsi e tentennare. Si era scavato la fossa con le stesse parole, se solo io fossi stata più attenta a quelle piccole cose e se solo lui fosse stato più sincero nei miei confronti...

Forse non avremo sofferto così tanto.

«No!— Cioè si! Ultimamente ci vengo di rado» e cambiò discorso, «Ti porto nell'altra sala» e se in quella di prima la gente preferiva spingersi come sardine in una rete da pesca, nella nuova sala invece le persone sguazzavano nella musica senza toccarsi.
Ballavano e non stavano sul posto a pestare i piedi come una sottospecie di cattura alle blatte. Era una sala nata e creata unicamente per ballare.

Mi avvicinai alla spalla di Jimin; il quale guardò tutto quanto con vera e profonda nostalgia. Affondai un gomito sul suo addome richiamandolo: «Andiamo a ballare» dissi con il cuore in gola. Presi la manica della sua camicia e lo trascinai in mezzo alla pista come una pazza.

«Blue aspetta!» urlò stupito. «Devi stare attenta a dove cammini, siamo pur sempre in un —»
«Fammi ballare» lo interruppi con uno stupido ordine e imbarazzata gli lasciai il braccio. «Mi hai voluta portare qui, quindi balliamo»

Balla con me, Jimin.

«Facciamo questa pazzia insieme» mormorai avvicinandomi, Jimin guardò su in alto le luci soffuse e il suo pomo d'Adamo balzò come una molla. Fu un gesto veloce, tornò davanti a me soddisfatto. «Ne sarei onorato» allungò un braccio e mi afferrò per la vita.

Di nuovo quel freddo.

Mi lasciai trasportare verso il suo petto prorompente e non appena Jimin iniziò a muoversi divinamente, sotto la musica bagnata dai subwoofer di Itaewon, in me crebbe l'immensa voglia incollarmi a lui e non lasciarlo più. Non riuscivo più a respingerlo e quando la sua mano viaggiò sul fondo della mia schiena, per poi perdersi lungo il mio ventre in subbuglio, diede inizio alla nascita di mille farfalle dalle ali ingombranti. E queste presero il volo non appena il ragazzo avvicinò ancora di più il viso verso il mio.

Scoprii che Jimin non era solo un ottimo adulatore o un possibile accalappia donne. Ma era nato per ballare; Dio, se era così bravo quel ragazzo a ballare.
Mentre io sembravo essere nata per pestare le blatte nella doccia.

«La mezz'ora è finita. Che cosa vuoi fare?» tentò di dire Jimin ma per colpa di un cerchio di urla e spinte non sentii più nulla. «Che cosa?» gli chiesi avvicinandomi con l'orecchio teso.

«Ho detto che—»

«Jimin non riesco a sentirti—»

Tutto accadde troppo velocemente perché io e Jimin potessimo evitare il primo passo di quella che sarebbe stata la nostra fine. Un ubriaco del cerchio mi spinse per sbaglio in avanti con la sua schiena e Jimin mi afferrò in tempo prima che finissi a terra. Tremai quando vidi la sua bocca, il suo naso e i suoi occhi vivere al fianco dei miei, la musica cambiò e tutto si fece più lento.

Youngblood thinks there's always tomorrow
I miss your touch on nights when I'm hollow
I know you crossed a bridge that I can't follow

Lo sguardo di Jimin sembrò sfocare nel nulla. La punta dei nostri nasi combaciarono e io chiusi i miei occhi lasciandomi cullare dal suono di quella sinfonia triste e malinconica. Jimin mi circondò i fianchi con fare disperato e mi strinse, fronte contro fronte, quasi nella speranza che non scomparissi.

Forse conosceva già quella canzone.

Since the love that you left is all that I get
I want you to know that if I can't be close to you
I settle for the ghost of you
I miss you more than life (more than life)

Le nostre mani si raggiungessero; dai polsi, ai palmi e poi le punte delle dita. Toccarlo sembrava quasi irreale, quasi come nuvole. Eravamo vicini l'un l'altra con le mani in alto ai lati delle nostre teste. Jimin si godette ogni sensazione; la mia pelle e il mio respiro sul suo corpo. Era in estasi, aprì gli occhi tra i nostri domdolii.

«Chiedimi di non farlo», questa volta lo sentii bene.
«Jimin...» sussurrai con la voce rotta dall'emozione, «Siamo in due a fare questa pazzia. Siamo sempre stati in due» abbracciai il suo collo e prima che si lasciasse andare nel rimorso mi comportai da vera egoista. Pensai al mio volere, al desiderio immenso che provavo ogni volta che mi sorrideva quando pensavo al bivio di luce e ombra.

E quando toccai per la prima volta le sue labbra al sapore di nuvola e poggia pensai che nella vita bisognava essere più egoisti. Ma non seppi che pure Jimin scelse la via dell'egoismo e del peccato durante quel bacio. A quella colla di pelle calda, perché quel bacio fu tutto, fuorché freddo.

I need more time but time can't be borrowed

Schiuse le labbra e concesse alla sua lingua di incontrare la mia mia senza proibizioni, la trovò e iniziò a danzare tra rochi schiocchi passionali. Gemiti che si elevarono e mani che appigliavano capelli e vestiti come meglio riuscivamo. Così vicini da avvertire i nostri corpi scoppiare e ricercare la propria metà, vogliosi di congiungersi dopo secoli di storie infrante e finite nel peggiore dei modi; erano corpi che volevano solamente amarsi un briciolo di tempo in ogni vita che capitava sotto mano.

Fu un bacio sentito, così sentito che cominciai a sentirmi male all'improvviso. Jimin aprì gli occhi dopo averli tenuti chiusi per tutto il nostro bacio e delle piccole lacrime iniziarono a scivolare lungo le sue guance. E così anche nei miei.

Sussurrò e pregò qualcosa a bassa voce in modo che nessuno lo sentisse. Si staccò da me, la gola gli vibrò rauca e emise sospiri di dolore.

«Non doveva andare in questo modo»

Qualcosa si spezzò e fui io a provare dolore. E fu un dolore ben diverso dalla consapevolezza dell'indifferenza di Matsuri o dal disprezzo di mio padre.

Indietreggiò e lo vidi scomparire tra la folla ubriaca dalla notte stessa. Caracollai in avanti senza più un appoggio e allungai una mano con gli occhi lucidi.

«No, Jimin aspetta!» iniziai a correre e spintonare ogni persona nel mio cammino; cercai ovunque ma Jimin sembrava essere scomparso all'improvviso nel mare della calca. «Jimin!» urlai disperata una volta fuori dal club.

Ma non c'era nessuno, solo persone acquattate nei vicoli a fumare e a ridere, di una pazza vestita troppo semplice per un club di Itaewon e che piangeva senza motivo, chiamando il vuoto.

Mi appiattii al muro e strisciai fino a terra per raccogliere i pezzi della mia vita ormai in frantimi.















Mi accorsi dopo, nella via del ritorno, quanto fossi diventata dipendente da una persona che a malapena conoscevo.

«Forse è proprio questo il bello di noi: io non conoscevo te e tu non conoscevi me» ripetei davanti allo specchio del bagno. Anche davanti al vetro della metro il giorno dopo e quando mi ritrovai da sola nel reticolato del fiume Han, alla solita ora, al solito posto.

Sapevo che non saresti venuto, sei come tutti gli altri, parlai da sola e alzandomi dalla panchina.

Eppure udii un passo; mi girai e lo rividi immobile con due grosse occhiaie sotto gli occhi, il volto bianco e gli occhi senza vita.

Mi sussurrò di seguirlo e di non fare domande.

«Pensi che ti ascolterò dopo quello che hai fatto?» domandai ferita. «So che sei arrabbiata con me —»
«Sono distrutta Jimin» esordii senza più fiato e forze, «E non solo per il bacio. Per quello che ho sentito. Per cosa abbiamo provato»

Per tutto.

«Per questo voglio che mi segui in un posto. Ti prego Blue, non ti chiedo altro» mi supplicò.

Non dissi niente e sospirai già con le lacrime agli angoli degli occhi. Camminammo in silenzio fino al reticolato principale del fiume Han, insieme al grigio piombo di Seoul e all'ombra dei passeri ormai migrati. Prendemmo il ponte e proseguimmo lungo la recinzione imbrattata di scritte di vita e di morte del sangue di mille esseri umani.

Si fermò all'improvviso e si girò verso il fiume guardando l'orizzonte perduto dalla nebbia d'inverno. Mi aggrappai alla balaustra perché tutto divenne già troppo asfissiante per non crollare prima delle sue parole.

«Credo di amarti, Blue»

Il rumore, il rombo del motore umano e l'ingranaggio del vento smisero di esistere, il Sole e la Luna si incontrarono e le acque si colorarono di vero giallo.

«Per assurdo amo una persona che non può vivere al mio fianco» finalmente mi guardò, «E nemmeno io al suo»

Ancora, quella medesima sensazione.

«E sorrido perché nonostante tutti i miei sbagli, i miei errori e la mia noncuranza per i dettagli tu sei stata in grado di vedermi come una persona normale. Anche se all'inizio sono passato per un maniaco» l'ultima frase uscì strozzata perché si premette una mano sulla bocca per non singhiozzare davanti a me. Davanti a quel posto bastardo.

Risi con le guance rigate per le lacrime e annuii persa. «Eri davvero inquietante»

«Forse lo sono ancora tutt'ora» mormorò dolce e provò ad alzare un dito per toccarmi. Ma questa volta si fermò dal tediarmi la guancia con il suo amore egoista e sbagliato. Fece un lungo respiro, pronto per raccontare ciò che non fu mai stato detto.

«Tutto questo in realtà è sbagliato. Non ci si può innamorare di una persona che in realtà non si conosce e lo so. Lo so Blue... e anche tu lo sai bene» appoggiò la mano sulla balaustra, accanto alla mia.

Eravamo vicino ma al contempo distanti.

«Quindi è questo il vero problema Jimin? Il pentimento di un bacio e di un sentimento perché non mi conosci abbastanza per poterlo credere?»
Il suo viso cambiò, dedicandomi l'ombra di un sorriso appena accennato fra i singhiozzi silenziosi.

«È da molto tempo che ti osservo» disse malinconico, «Solo che tu non ti sei mai accorta di me ma io c'ero sempre Blue. In ogni momento. C'ero quando piangevi, quando ti perdevi lungo il reticolato del fiume Han già alle prime luci del mattino e persino quando ripetevi a memoria quegli stupidi nomi delle dinastie e i Regni per storia. Io ero sempre lì con te, Bashira»

Il petto iniziò a farmi male; il mio castello di carta, piano piano, prese a crollare. Lui sapeva il mio vero nome e forse l'aveva sempre saputo, come quei piccoli dettagli di me che nessuno realmente conosceva.

«Trovo che Blue sia un nome bellissimo e che ti rende giustizia» l'aria intorno si fece sempre più gelida, «Non poterti stare realmente accanto dilania ogni giorno e questa sensazione resterà eterna in me. Ma dopotutto me la sono cercata» asserì senza rimorsi, «Dovevo solamente starti accanto e farti scoprire quanto valevi in mezzo alla disperazione che gli altri continuavano a buttarti addosso, senza capire che in realtà non avevi bisogno di tutto questo, ma solo di fiducia»

Verso te stessa e nel tuo credo.
Che sia il blu delle vetrate azzurre vicino al fiume Han o il tuo vuoto cosmico lasciato dalla morte di tua madre.

Ma sei molto di più di un pugno sulla porta.

Sei molto di più di un test di matematica.

Sei molto di più di un semplice passato.

«Ecco perché ti amo. Perché sei semplicemente tu» dichiarò alla fine di tutto, lasciandomi con la gola completamente chiusa dai tremori. «Perciò...» le parole vennero a mancare perché quello fu la parte più dolorosa da affrontare per Jimin. La parte in cui doveva lasciarmi andare.

«Io continuerò a starti vicino anche quando penserai di essere completamente sola. Sei pronta per crescere e sarò lì a guardarti ad ogni tuo passo»

Chiusi entrambe le mani in un pugno e chinai la testa verso il basso. Mentre Jimin si staccò mettendosi le sue dentro le tasche del cappotto sbiadito. I suoi abiti iniziarono a cambiare; da prima asciutti e perfetti, ora bagnati e sgualciti. La cosa degenerò quando i capelli di Jimin si appiccicarono alla fronte troppo pallida per un essere umano. Le occhiaie divennero violacee e il collo completamente tumefatto.

E in tutto questo, Jimin, non perse mai il suo enorme e ineguagliabile sorriso.

«So che vivrai una vita meravigliosa e sono sicuro che lo farai anche per me» allungò un braccio verso il mio viso, lo vidi toccarmi ma io non sentii più il suo freddo tocco. «Per quella vita che mi è stata tolta e che io stesso non sono riuscito reggere»

Era il chiaro messaggio che qualcosa stava finendo, ma per quanto chiaro potesse sembrare ai miei occhi tutto risultava ultraterreno e lancinante.

«Non riesco a capirti Jimin, quello che dici, le parole che escono dalla tua bocca e i tuoi occhi senza anima, sono assurde. È troppo» la vista si offuscò ancora e provai ad afferrargli la mano, ma questa restò lì ferma al fianco del ragazzo dai vestiti bagnati.

«Non lasciarmi» supplicai solamente.

Supplichi ancora Bashira?

«Hai parlato solo tu. Solo e soltanto tu, dammi almeno il modo di esporti la mia tempesta. Come mi sono sentita quando ci siamo baciati o— Oh la prima volta che sei entrato in camera mia di nascosto!» la voce si acutizzò, «Mi hai fatto sentire una persona e non una stupida ragazzina problematica che vive sulle nuvole Jimin. Non come la strana che guarda uno stupido fiume dal vetro della metro ogni mattina. Mi sono sentita umana. Mi sono sentita Blue e non più come Baheok Bashira!»

Ma Jimin sapeva già tutto, per questo aveva scelto me fra milioni di casini sparsi per il mondo. Sapeva già tutto di me, per questo a modo suo si era scoperto ad amarmi. Proprio perché io sapevo del suo bello e la persona meravigliosa quale era che mi ero innamorata di una cosa inesistente.

Ero in ginocchio su un terreno sporco e umido, vivido di gomme di biciclette e scritte sbiadite dalla pioggia. Non riuscivo più a guardarlo, non volevo farlo sapendo che lui se ne sarebbe andato per sempre contro una logica a me incomprensibile.

E il cuore smise di battere quando da sotto l'accumulo di capelli accartocciati davanti agli occhi vidi le sue scarpe bagnate sparire come un vetro appannato. Però poi, una presenza fredda, mi rivestii le spalle e il cuore con la delicatezza di un fiore, lasciato scorrere lungo una corrente ignota e ingiusta.

Soffiò sul mio collo i rimasugli di un ultimo abbraccio fantasma, accoccolò le braccia sul mio ventre e sigillare le sue mani in una catena di pelli.
Sentii la guancia appoggiarsi sulla mia spalla e le lacrime— forse gocce di pioggia, pensai — bagnarmi i capelli in modo ritmico.

Il cuore prese a sanguinare in mezzo alle correnti calde e fredde e poi, dopo lunghi silenzi rammaricati dai singhiozzi, parlò. Delicato, come quel fiore sul letto della corrente arrivato ormai al capolinea della sua alta cascata.

In quel momento io fui la roccia che ancorò il fiore, per dargli l'ultima grazia e misericordia che permise al petalo dell'albero della vita di parlare. Di dire, quelle che furono, le sue ultime parole prima di giacere insieme ai fratelli caduti nell'inganno del mondo.

Sussurrò.

«Blu come le vetrate del fiume»

Sussultai prima dell'ultima fine e ripetei il suo eco.

«Blu, com'era il cielo sopra di noi», Jimin finì contro il mio orecchio, «Il cielo sarà sempre di colore blu e noi rimarremo tali. E ricordatelo perché niente e nessuno potrà affermare il contrario, il cielo, il blu, saranno le ultime cose che vedrò da questa forma prima di raggiungere la mia cascata» prima di guardarti dalle nuvole e lasciarti il mio fantasma.

Che strano scherzo del destino, alluse Jimin con i secondi contati in quella forma, addossato contro il mio corpo, guarderò te, per l'ultima volte te, prima di morire per la seconda volta. E non potevo scegliere...

Sorrise ancora con gli occhi chiusi.

Una fine migliore.







Per cinque giorni di fila non accesi mai la luce di camera mia, non andai a scuola, non presi la metro e non risposi al numero non salvato di Matsuri, la quale, dopo aver visto il banco vuoto in fondo alla classe si sentì leggermente in colpa.

Jimin mi disse che sarebbe sempre stato con me, nella mia ombra, insieme nella via di buio totale. Ma non percepii mai sulla mia pelle quell'unico brivido freddo. Stetti ore davanti alla finestra con il rischio di ammalarmi per sentirlo, ma il freddo d'inverno non era minimamente paragonabile al suo.

Mio padre si accorse del mio stato d'animo e all'inizio si arrabbiò scagliandosi contro la porta. E solo dopo che gli risposi: «Era meglio la mia morte, invece che quella della mamma» e si rabbuiò con la mano tediata sul cuore. Con gli artigli aggrappati alla camicia a scacchi sporca di chiazze del lavoro.

Si susseguii solo il silenzio, poi un pianto prima trattenuto, divenuto gutturale e infine il fruscio della camicia sporca premuta sulla porta con la schiena. Come se qualcuno si stesse accasciando su di essa pentito.

Non poteva essere mio padre.

«Mi dispiace», ammise rannicchiato, «Ho fallito, perdonami, ho fallito» e pianse ripentendo un dispiacere destinato a chi non c'era più. Ma che sicuramente ci stava guardando dal cielo con un groppo alla gola.

Dispiace anche a me, mamma.

Il sesto giorno accadde qualcosa che fece squarciare in due quell'assurda e degradante routine malata. Ricordai di come mi alzai per sedermi davanti alla scrivania per scrivere gli appunti di storia. Se Jimin fosse stato lì con me avrebbe riso mezz'ora davanti ai nomi inventanti delle mille dinastie, ma lui continuava a non esserci, non qui, quindi nessuno avrebbe riso dei miei scarabocchi sui quaderni.

E dopo che pensai a questo strizzai gli occhi per non arrabbiarmi o piangere dal nervoso per la millesima volta. La penna intorno alla mia mano venne stretta e raccattai il cellulare dalle tasche della tuta per accedere ad una playlist a caso di YouTube.

Fissavo la barra di ricerca con immenso vuoto e deglutii incerta. Il dito si fermò sopra lo schermo e prese a tremare prima di riuscire a scrivere in maniera inoperoso quel nome proibito.

La ricerca venne inviata e caricata, provai a far balzare lo sguardo ovunque nella stanza ma mai in quel microscopico specchio tecnologico.

«Non ci riesco» mormorai rotta. Non ci sarei mai riuscita, la delusione sarebbe stata troppo grossa da superare. Ma poi sbirciai i video riscontrati nella ricerca e trovai tantissimi video misti e diversi fra loro.

Andai giù, scorsi il display per quattro volte fino a fermarmi all'improvviso davanti alla sagoma di un tizio, seduto davanti alla telecamera, con una chitarra in mano. Aveva una zanzara castana e una felpa della nike semi sbiadita.

Sussultai. Non riuscivo a crederci.

«Jimin»

Lungo le spalle si depositò un brivido freddo e nostalgico, dall'odore d'acqua dolce e petali di fiori bagnati.

«Ti ho trovato» la frase uscì in un sospiro incredulo ed ebbi quasi paura che quello fosse solamente un dannato sogno trasformato in un incubo. Andai sul canale e spalancai gli occhi davanti a una quarantina di video caricati all'incirca un anno fa.

Video dove ballava, cantava e bighellonava con gli amici.

Cliccai il primo video e sentii subito la sua voce squillante salutare gli spettatori da davanti la telecamera del telefono. Stava camminando e il vento rattrappiva la sua voce un po' emozionata.

«Premessa. Ho sempre odiato fare video o foto di me stesso da... penso tutta la vita. Ma sto seguendo una strana e nuova terapia affibbiata dal mio psicologo», l'angolazione cambiò più volte e il disagio sul suo volto fu molto intuibile. «Lui dice che potrebbe farmi bene, iniziare a mostrare piccole parti di me, di ciò che so fare o non fare, ogni giorno. E che se vorrò, o sentirò, anche creare uno stupido canale su internet. Ma stare alle regole non fa decisamente per me» biascicò con un mezzo sorrisino.

Appoggiò il cellulare su un muretto e si riprese per intero, bello come il Sole stesso.

«Questo era solo un video di finta presentazione e nel prossimo vi mostrerò le mie scarse qualità di essere umano» ridacchiò amaro, alzò una mano e si inchinò leggermente.

«Ciao a tutti, mi chiamo Park Jimin e questa sarà la mia ultima sfida»

Quel che vidi dopo furono dei brevi video da cinque minuti ciascuno dove Jimin — anzi, Park Jimin — si mise alla prova contro se stesso. Facendo una lista nelle cose in cui riusciva meglio e mi innamorai di lui una seconda volta dopo che lo vidi immobile in mezzo ad un garage.

«Questo garage fa schifo o almeno per tutti quelli che sono entrati qui dentro. Ma a me piace. È l'unico posto dove posso ballare senza che nessuno possa fermarmi e impormi di svegliarmi dal mio sogno eterno» iniziò a sgranchirsi le gambe con una spaccata impeccabile, «Questo è il decimo video di questa stupida sfida e per festeggiare i miei primi trenta commenti vi mostrerò la sola e unica cosa che amo fare in questa vita» sospirò chiudendo gli occhi e andò ad accendere uno stereo del 2007.

Mi ritrovai a osservare quel cigno bianco, ma con le ali sporche di petrolio e il suo viso, dolce e etereo, coperto da un dolore immenso. Un dolore troppo grande per una persona fragile e pura come Park Jimin.

Mi sembra quasi di conoscerti, non amo più solo lo sconosciuto che eri, ma sto amando anche ciò che sei realmente.

Un casino, proprio come me.

Si fece sera quando arrivai agli ultimi video di quella sfida contro la vita. Jimin diventava sempre più spensierato, meno ironico e più socievole verso quelle duecento visualizzazioni. Aveva presentato persino due suoi amici in un video e questo ebbe un numero elevato di apprezzamento fra i commenti.

Se nel mentre lo guardai con gli occhi lucidi e il capo appoggiato sulle ginocchia davanti alla scrivania, non potei non chiedermi perché erano capitate tutte quelle cose fra me e lui. Fino a poche ore fa pensavo che fosse solo un brutto scherzo giocato dalla mente, creato dalla mia assurda tendenza ad alienarmi giornalmente per traumi passati. In sostanza un amico immaginario e una forte tendenza alla schizofrenia.

Ma solo ora scoprivo che Jimin era sempre appartenuto alla realtà.

Arrivai all'ultimo video della cartella e mi aspettai qualcosa di indimenticabile per l'inaugurazione del suo successo.

I giorni erano finiti e cantilenò la solita presentazione dell'inizio nella clip con un suono di chitarra. Ridacchiò e usò un treppiedi per impostare perfettamente la telecamera di fronte a lui e riconobbi immediatamente la location.

Il blu splendido delle vetrate era così accesso quella giornata. Non vi erano le fredde nuvole d'umidità che accarezzavano il fiume Han, ma c'era solo il Sole, le grida dei bambini addossati nei parchi e i mormorii dei passanti che si fermavano a guardarlo in attesa.

«Questo sarà il mio ultimo video dedicato alla terapia del professor Jun. Ammetto che è stato diverte impegnarmi seriamente per qualcosa che è distante dalla danza. Sono arrivato fino a questo traguardo e ieri il mio psicologo mi ha chiesto che cosa volessi fare», si fermò per passarsi la tracolla della chitarra dietro il collo. La gente lo ascoltava e piano piano si radunava davanti a quel reticolato maestoso dai toni blu acceso.

«Gli ho riposto: "di che parla?". E ammetto di essere veramente un idiota a volte» la gente iniziò a ridacchiare e io feci la stessa cosa, con la guancia sempre più fitta al ginocchio e le lacrime che bazzicavano lungo di esse.

«" Hai finalmente deciso che cosa fare?"» cambiò tono di voce, divenne morbida e severa al contempo, «In parole povere voleva sapere se avrei dato una chance a questa serie immonda di ore, pianeti, persone e quant'altro che chiamiamo vita. Sapere se qualcosa in me era finalmente cambiato qualcosa, o semplicemente scattato» e tutti in torno a lui attesero impazienti.

Jimin allora tacque e guardando dritto la telecamera fece segno di rimanere in silenzio con un dito premuto sulle labbra, proprio come fece quella volta a casa mia, e infine chiuse gli occhi per poi pizzicare le corde della vecchia chitarra acustica. Nacque una melodia lenta e quelle decine di persone cacciarono fuori i loro telefoni per riprenderlo.

«È la cover di una canzone americana e come avrete ben intuito la memoria non è il mio forte. Non ricordo mai i nomi degli artisti, ma le parole e le immagini delle loro opere non lasciano mai la mia testa, nemmeno dopo una bella sbronza» ammise sincero con la faccia di bronzo.

Ridevano, tutti quanti ridevano mentre io cominciai a piangere in modo disastroso quando riconobbi la stessa canzone del club.

La canzone che dedicammo unicamente a noi, al nostro bacio e alle mani ritrovate come terra e mare.
Continuava a cantare lungo il reticolato, le persone batterono le mani al tempo dello schianto della mano sulla chitarra ed io con la coda dell'occhio vidi sotto il video un commento lungo e corposo.
Senza stoppare il video incominciai a leggere il commento e poco dopo vidi che quella clip aveva sotto di sé più di mille commenti. Nessun messaggio di augurio, di prospera vita e felicità, nessuna esultanza o commenti imbarazzanti.

Solo condoglianze.

Lunghe condoglianze da recidere l'aria e l'anima in due. Lessi tutti i messaggi finendo a tarda notte mentre la voce di Jimin non si fermò mai.

Cantava di come non potesse stare accanto alla persona che amava. Dedicando a chi aveva attraversato ponti lontani un pensiero infinito, paragonando la loro eterna memoria all'estasi.

E c'era chi aveva bisogno di più tempo. E chi di questo tempo non ne aveva più, lasciando all'uomo, al terrestre orfano, solo il ricordo di un amore insuperabile. Spiegando infine chi era il vero sopravvissuto in questa tragedia.

Colui che accettava solamente il fantasma di ciò che era stato, senza richiederne la carne, la coscienza e un futuro.

Quel giorno ebbi ogni risposta alle mie domande; Jimin non fu più "lo sconosciuto" per me. Ma un miracolo. Lui stesso si sarebbe definito come un banalissimo fantasma di se stesso, ma era molto di più un'essenza impercettibile, era il mio miracolo.

Ci volle molto tempo per accettare l'assurdo o il paranormale di questo universo, però riuscii a farcela dopo che scoprii la sua storia.

Ad oggi mi sentivo diversa. Una donna cresciuta, e raccontavo la mia storia e la sua sopra fogli di pagine bianche e gialle arrotolate dall'umidità del fiume. Seduta ancora nella medesima panchina del reticolato, con le vetrine azzurre e il vociare dei bambini in sottofondo.

Jimin aveva vinto. Quel giorno, di un anno fa, dedicò la sua vittoria contro una radicata e traumatica depressione, esattamente in questo posto.

Era un ragazzo meraviglioso e aveva iniziato ad apprezzare le cose in cui riusciva meglio e quelle in cui riusciva meno. I suoi amici dissero che si era invaghito di una ragazza persa lungo un fiume grigio, che sedeva vicino al reticolato a guardare e a sperare un mondo migliore.

Ma Jimin non disse mai a loro quale fosse il fiume, né il nome di quella dolce e sperduta ragazza anonima. E sorrisi da quella tipica omissione del suo intimo che tanto lo contraddistingueva, come le sue strane richieste sul non fargli determinate domande.

Sulla carta scrissi della sua memoria. Con urla distrutte dal pianto scoprii che Jimin non aveva mai mollato, nemmeno sull'orlo del precipizio della cascata con la morte attanagliata alla gola.

Erano state le mani del suo patrigno a stroncare la sua vita lungo la ringhiera del fiume Han nella notte di un anno e mezzo fa. Quando trovarono il corpo vicino al canale pensarono che era stato un suicidio premeditato, ma le abrasioni violacee sul collo non bastarono a mascherare la rottura di un osso spezzato con l'impatto del fiume.

Trovarono tracce del DNA sotto le unghie del patrigno pochi giorni e la memoria di un ragazzo d'oro non venne mai più infangata con supposizioni superficiali e meschine. Venne arrestato per il bene della famiglia e io incontrai sua madre dopo un mese di ricerche approfondite, e contatti telefonici con i vecchi compagni di Jimin.

Mi parlò di lui e io feci altrettanto. Finsi per il povero cuore di quella donna spezzata di averlo conosciuto prima della sua morte e mi chiese, dopo un lungo monologo, solamente se fossi la famosa ragazza persa che viaggiava lungo gli argini del reticolato.

Risposi che non lo sapevo con certezza, ma che avrei voluto da una parte esserlo con tutto il cuore.

Mi guardò dalla porta, all'alba delle sue rughe di dolore, con un sorriso appena accennato. Identico a quello del figlio.

«Parlava di un viso con le ombre azzurre. Uno spicchio di Sole riflesso su delle vetrate. Mio figlio parlava poco delle sue emozioni, ma quando lo faceva..» la voce si incrinò, «Lo faceva con amore e guardarti mentre parli di lui, mi fa pensare che forse potresti essere tu. Potresti essere tu uno dei suoi ultimi ricordi»

Chiusi il quaderno, inspessito dall'inchiostro, sopra alle mie cosce e inspirai l'aria di una prossima primavera. Il tempo, le ore e i giorni erano volati; a tratti veloci, altri lenti. Ma quello che provavo verso me stessa e verso di noi non era mai mutato e non sarebbe mai successo.

Mi sarei accontentata del tuo fantasma.

Sorrisi con il Sole tra i capelli, con il naso all'insù e aspettai il tremolio gelido di lui. La fredda ebrezza ad accarezzarmi le spalle e baciarmi le labbra come solo lui era riuscito a fare.

Potei sentirlo affianco a me; sorrideva con le gambe stravaccate sulla panchina, intento a fissarmi sghembo e un palmo appoggiato sotto il mento. A guardarmi come se fossi la cosa più bella del mondo. O la sua seconda speranza di vita.

«Mi sei mancato. Ce ne hai messo di tempo, eh?»

«Diciamo che mi sono fatto desiderare» ammiccò con gli occhi emozionati, «Comunque, oggi c'è un magnifico cielo, non trovi?»

Sorrisi e accarezzai la copertina del nostro libro.

«Hai ragione. È blu» mormorai con il cuore sereno e gli occhi sempre più lucidi. Mi guardò e dopodiché mi disse: «Mi sei mancata anche tu, Blue»

Non ero più Bashira, ma Blue come gli occhi del mare in tempesta.

Blue come il fiume Han.

Blue come il cielo.



Ma specialmente, come dissi all'inizio della mia storia, chiamatemi Blue. Chiamatemi così, com'era il cielo insieme a lui.

A com'ero, Blue e basta.

















__________
È TARDISSIMO!!!

-Questa doveva essere la os dedicata per il compleanno di Jimin. Ma con il nuovo lavoro non sono riuscita a finire per il 13...

-Jimin in questa storia rappresenta tutte persone che non sono più accanto a noi. E non mi riferisco solo alle persone che non ci sono più, ma anche a quelle lontane e che magari a malapena possiamo sentire.

Questa era una dedica -un ringraziamento- verso colui che mi spinge a dare un senso alla mia mezza vita. Blue, cioè Bashira, sono tutte quelle persone che si sentono alienate e fuori posto da questo mondo. Siamo in molti ad essere Bashira ma sono sicura che un giorno riusciremo a diventare come Blue un giorno.

È una storia molto pesante ma volevo rappresentare ad impatto la potenza che ha come persona Jimin. All'inizio volevo depistarvi con un suicidio, ma Jimin era riuscito a cambiare piano piano e a tornare a vivere...ma la vita ci volta troppo spesso le spalle.

-L'idea è venuta non appena ho ascoltato Ghost di Justin Bieber e ragazzi...mi distrugge quella canzone, pensate a Blue e Jimin insieme ai loro sorrisi. Alle mani intrecciate e alla voglia di stare insieme nonostante l'universo e la biologia umana.

-Alla fine se notate faccio una sintesi delle frasi della canzone

-In sintesi Jimin era si un fantasma e aveva scelto uno scopo. Far capire che c'è altro e di non commettere i suoi stessi errori. All'inizio poteva essere percepito in modo lieve, per questo Blue percepisce ogni volta il freddo ma solo lei poteva vederlo. Matsuri non lo vede e il padre quella sera non l'ha mai visto. Ma dopo che bacia Blue e rompe un muro invalicabile capisce che il suo tempo è scaduto.

-Matsuri rappresenta una parte della mia vita che è andata via via appassendo. Un lato dell'amicizia che perisce lasciandoti da sola per i propri egoismi.

-Il padre rappresenta il mio. In modo fisico meno violento ma a parole ferisce più di mille spade.

-La morte della madre e il bivio di luce e ombra è sono stati gli ultimi mesi che ho passato. È morta una parte di me ed ero in un limbo fra scelte e decisioni, ma prima o poi...tutto si appiattisce alle nostre scelte.

-Spero che vi sia piaciuta e fatemi sapere che cosa ne pensate a riguardo.

Alla prossima❤️❤️

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