𝑭𝒊𝒈𝒍𝒊𝒂 𝒅𝒊 𝑨𝒓𝒆𝒔
La One Shot partecipa all'iniziativa degli Ambassador "Divinamente Dante".
André è troppo malandato ormai. Mi è parso chiarissimo quando mi ha chiesto di incontrarci, nei giorni scorsi, per comunicarmi di voler combattere in prima linea, al mio fianco.
Sta perdendo del tutto la vista anche dall'occhio destro. Schiena alla madia, di fianco la porta, lui non mi vede! Ha creduto addirittura non ci fossi e stava per andarsene.
Che tu sia dannato. Sì, dannato. Testardo, faresti di tutto per proteggermi.
Ma sarò io a farlo, stavolta. Avrò cura del mio André, e di tutte le persone a cui tengo.
In questi lunghi anni ti ho dato a credere che non avessi notato il tuo continuo essere ombra, nella quale trovavo riparo. Io, l'egoista.
Ti ho lasciato intendere che il posto di subordinato lo mantenessi anche nel mio cuore.
Amico mio, fratello mio. Unico compagno di giochi di un'infanzia fatta di corse a perdifiato, intrecciando un fioretto. Come intersecate, indissolubilmente, sono le nostre esistenze.
L'ho capito tardi: da sempre la vita ci ha addestrato per il momento che ci apprestiamo ad affrontare in quest'arena di sangue, dove il mio - quello stesso che tinge di vermiglio il candore delle iniziali della mia casata, ricamate su candido filato - si mescerà in un tino d'ira. Sopravviverò al solo scopo di starti accanto, un altro respiro ancora, perché non posso perderti adesso che ti ho appena trovato.
Ora che i miei occhi ti vedono, davvero, e te lo lasciano sapere senza remora alcuna.
Ora che né più pudori, né rango possono interferire in ciò che sempre è stato un noi.
Con te, sento di vivere. Sento... di vivere.
Fosse solo un'altra miserabile ora, un altro giorno. Tornerò a sfiorare i grappoli d'uva nera tra i tuoi capelli, perdendomi nell'ossidiana delle tue pupille.
Innalzo una muta preghiera a un dio sordo, forse, studiando i miei avversari mentre ci accingiamo a impugnare l'arma che segnerà la nostra sorte: che le forze non m'abbandonino in questo delirio febbricitante che alle volte si fa più intenso e insopportabile, scuotendo di brividi e sudori freddi il mio corpo che va consumandosi dal di dentro, a causa del male incurabile che presto si prenderà tutto.
La flebile scintilla di vita che mi tiene al mondo s'offuscherà sotto l'impietosa, inappellabile sentenza che va corrodendomi dalle ossa, fino al trabordio della linfa vitale che fugge attraverso la gola riarsa da accessi simili a fiamme indomabili.
Ancora non sono pronta ad arrendermi. La Figlia di Ares trionferà.
La mano, ferma sull'elsa della fidatissima alleata in battaglia, freme. Essa non oserà tradirmi.
Non esiterò a intingerla dall'apice al codolo. Lo stillicidio dell'altrui vite sarà il suggello della mia vittoria.
Non temo la lugubre marcia delle truppe alleate. L'avversario spavaldo sogghigna al mio esile sembiante, ma esso inganna solo l'occhio inesperto. Il mio nemico ignora la lama che penetrerà, acuminata, a lacerare le carni robuste che ostenta a suo vanto. Sottovalutano, a mio favore, l'astuzia di movenze feline capaci di schivare gli attacchi grezzi di giganti tessuti di soli muscoli e arroganza.
Una rosa non sarà mai un lillà!
Delizia e rovina sono il suo potere. La sua difesa si barrica di rovi inespugnabili.
Non è più tempo di rimuginare; studio la mia preda, con precisione. Al minimo cenno si scatena l'inferno: frazioni di secondo nei quali l'adrenalina ha galvanizzato ogni muscolo e tendine. Scatto felina su un giovane. Mi punta da prima che entrassi pienamente nel suo campo visivo. La sua sfrontatezza è tipica dell'età; la forza fisica, però, non può sovrastare l'esperienza. Si scaglia contro di me al galoppo del suo destriero puntandomi la sua baionetta dalla lama micidiale, la quale scanso abilmente ai primi affondi. Mi colpisce su una spalla, di striscio.
Ma quella è la mia occasione.
Mi fletto sulle ginocchia e salto, compiendo una torsione di centottanta gradi; è nauseabondo il suono prodotto dalla mia fedelissima al conficcarsi nelle carni del ragazzo. La lama lo trapassa, da parte a parte. Cade riverso su di me. Gli occhi chiari, sgranati, sull'incarnato diafano, si spengono mentre un copioso rivolo di sangue scorre dalle sue labbra livide. Lo stesso che macchia i miei capelli, che mi affretto a ripulire, scrollandomi di dosso e la carcassa e il senso di colpa.
Niente di personale. Tutto di personale. Altroché se lo è, sopravvivere.
Ho campo libero, procedo ferendo un altro avversario al fianco, un soldato furbo e veloce. La sorte mi assiste: come in un presagio mi appiattisco al suolo in una capriola, mentre i proiettili destinatimi dai bastioni dei torrioni frontali si conficcano nel petto del giovane.
Davanti a me la Bastiglia.
Abbiamo corso attraverso i campi d'oro di Arras, scorso i palmi delle mani sulle spighe insanguinate dal passaggio degli scontri che ci hanno aperto il varco per giungere nella polveriera del mondo: una Parigi macilenta. Abbiamo schivato avversari, su avversari. Mia alleata è la velocità. Instancabile André al mio fianco.
Percepisco la febbre aumentare. Sento premere sulla fronte come una corona di spine conficcata nelle tempie, dalle quali stillano pesanti gocce simili a sangue.
Respiro arrancando. Fuoco risale la trachea come la lava di un vulcano.
Furiosi accessi di tosse mi scuotono come una canna nel vento, mentre avanzo tra sagome informi striate di vermiglio.
Cadaveri giacciono, al mio passaggio, come muti fantocci rivolti a un cielo inclemente che non li ha risparmiati - che non ho risparmiato - mentre i corvi, in festa, già si adunano in vista del succulento banchetto.
E io sono ancora viva.
Il respiro risale graffiante attraverso la gabbia toracica a guisa del flagello chiodato di un mazzafrusto.
Con movimenti rapidi, che ripeto a intervalli regolari, mentre seguito la mia corsa verso un po' di refrigerio, asciugo il sangue che sputo fuori a ogni colpo di tosse; la pistagna color oro del polsino della divisa è intrisa di un colore indefinito. L'odore ferrigno che emana mi dà il voltastomaco.
Sono quasi certa che se non berrò una goccia d'acqua, morirò prima che per qualunque attacco. Ci sono quasi, mentre un clangore metallico, alle mie spalle, sovrasta il tumulto della Rivoluzione.
Corri, Oscar! Vivi, Oscar!
Una presa possente mi strattona facendomi voltare, è un soldato austriaco. Mi afferra per la gola; la vista si annebbia, a quella stretta, l'ultima cosa che odo è il grido di battaglia, nella lingua del suo popolo, che mi giunge attraverso l'udito ovattato per lo stordimento.
Porto, rapida la mano sull'elsa! Non è ancora il mio momento.
Vivi Oscar!
L'acredine dell'aria intrisa di polvere, mista ai micidiali vapori sulfurei, in prossimità del Fiume dalle onde pallide, creano una spessa caligine che riarde la gola e corrode le cornee. La visuale è rarefatta, uno spettrale scenario di morte aleggia tutt'intorno tra la distesa delle acque e il vascello del Traghettatore d'Oltretomba.
Sull'Acheronte ci si accinge a festeggiare. Il Nocchiere apre vorace le fauci all'arrivo di noi, anime erranti. Un elemento in particolare desta la mia attenzione; non ne avrò per molto, devo bere. Il tramonto sanguigno che s'approssima tinge il cielo di un rosso cupo o forse è solo il sangue versato nella Senna che specchia il suo strazio fino tra i nembi densi sul fiume delle anime perdute.
Di un colore un poco più scuro è quella sostanza che tanto pare gradire Caronte, il beffardo dagli occhi di brace. Una giovane audace ne chiede perché pare sia fautore di visioni sulla dimensione alla quale noi imprigionati qui non possiamo accedere, oltre che lenire la perenne sete di chi vagherà ad aeternum in questo posto.
L'elisir delle Visioni. Ecco cosa mi servirà a tenere a bada la tosse, almeno temporaneamente.
Per averne parte il Nocchiere spiega il prezzo che dev'essere stato pagato: l'aver sparso sangue, per salvare altre vite. Chi più di me può dunque avere accesso al mistico Graal?
Fiera, avanzo tra spettri ondeggianti, fino a raggiungere il laterale dell'ammasso di legna putrescente, mi accingo alla fonte della mia sopravvivenza. Appiattisco la schiena contro la parete di pece, l'umidità penetra attraverso la stoffa della mia blusa; all'inferno ci sono finita con la mia camicia bianca e il fioretto, ironia della sorte. La seta mi s'incolla di più addosso, come pure i capelli, impastati alla polvere e al sudore. Devo prendere posto sulla barca, arginando il remo con il quale il sadico traghettatore percuote chi ancora voglia salire.
Non sono stata l'unica ad avere quest'idea. Accanto a me dei ragazzi molto giovani si acquattano silenziosi. Nei loro occhi la paura: non vogliono restare in questo limbo eterno sulla sponda del Fiume. Sono poco più che bambini; gli stessi che Parigi ha lasciato a morire di fame. Sono sfiniti, affamati. Hanno meritato eterna punizione per aver rubato alle fauci della miseria? Non avevano già visto tutto l'inferno, in vita?
Ne approfitto per sganciare qualche bottone della camicia e permettere all'aria di infiltrarvisi a lenire la calura asfissiante. Il vascello si muove, riparte. Senza essere vista m'introduco a bordo. Affronto il Nocchiere viso a viso, sfruttando l'elemento sorpresa: un balzo felino, da una balustra laterale dove mi sono arrampicata dal retro, mi porta al centro della scena, dinnanzi agli astanti esterrefatti.
"Sono Oscar Françoise de Jarjayes! Salute a voi, signori."
"Ci sfidi così apertamente? Con quale coraggio?" esclama Occhi di brace.
"Con quello di chi, dopo uno scontro che le ha tolto la vita, ha sete!"
"Hai del fegato, non lo si può negare," mormora il Traghettatore.
"E sia! Alla tua determinazione, Oscar," si complimenta porgendomi il Graal.
"Non sarà il Sauvignon dei vitigni bordolesi delle riserve di mio padre, il generale de Jarjayes, ma devo ammettere che è parecchio rinfrescante," esclamo soddisfatta.
Con un'occhiata rapida do il segnale ai ragazzi nascosti con me poc'anzi, sotto balaustra, e in men che non si dica piomba giù uno di loro con il quale incrocio la mia spada contro il suo serramanico. Intanto, nel diversivo ideato ad arte, altri ne approfittano per salire sul vascello e prendere quel che gli serve.
Più tardi, sotto un cielo diamante, sdraiati sulle assi di legno consunte e maleodoranti, io e i miei giovani aiutanti brindiamo alla tregua col pregiato bottino. Il vascello fantasma ci conduce attraverso la notte eterna. Le palpebre si fanno piombo. Sto venendo da te, André. Per l'ultima volta potrò vederti e sapere se stai bene.
Neanche l'oblio ci unirà. Né in vita né in morte.
L'aver sacrificato la vita per il tuo bene e per il bene della Libertà mi condanna comunque.
Non così è per te. Gioie eterne ti aspettano a sazietà, tu che hai vissuto fedelmente solo per me. Che mai versasti sangue. Addio, Andrè. Nella beatitudie che ti circonda, ti vedo per l'ultima volta e ti ricorderò così: con gli occhi vuoti e tristi che mi cercano e mai mi troveranno. Perdonami, Andrè per renderti infelice anche ora. Mia colpa è non aver riconosciuto il momento opportuno, in vita, per averti onorato. Allungo le dita di una mano per asciugare una stria argentea sulla tua guancia. Mi guardi, anche se non mi vedi. Addio, Andrè.
𝑭𝒊𝒏𝒆
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