Capitolo 1
Una stanza buia, vuota, senza alcuna fonte di luce.
Quello, il luogo in cui sedeva, a piedi scalzi con un abbigliamento totalmente adatto all'espressione che aveva dipinta sul volto: spenta, vacua, del tutto priva di forza di volontà...Era una creatura che aveva rinunciato alla sua esistenza.
Gli occhi bianchi, testimonianza della sua cecità: meglio non vedere il mondo.
I capelli bianchi, dai riflessi argentati: meglio essere già vecchi per accogliere la morte.
I piedi, insanguinati, che ancora lasciavano fluire sul pavimento sterrato il loro liquido scarlatto.
Vestito con una maglia ed un paio di jeans stracciati.
Davanti a lui, posato con una spalla ad un vecchio pendolo ormai inutilizzabile, un altro ragazzo.
Alto, longilineo e dalla carnagione color pesca, lo fissava impassibile, le braccia incrociate, fasciate da un giubbotto di pelle nera, come gli stivali che gli arrivavano alle ginocchia.
Gli occhi nascosti dai suoi capelli erano cupi, profondi e penetranti, nello spostare lo sguardo da quella creatura seduta davanti a lui, alla clessidra argento che scandiva il tempo con la sua sabbia color petrolio.
Ma non erano soli, ai capelli candidi del giovane cieco, si univano quelli neri di una bambina con lo sguardo severo, pauroso, fisso sul giovane che si teneva a distanza dai due, stringeva tra le braccia esili il corpo gelido che aveva accanto, cercando d'infondergli un po' di calore e di appoggio. Voleva fargli capire che lei era lì, e con loro c'era anche Lui.
Lui, che li aveva trovati, salvati e obliati in quel luogo perso nel tempo e nello spazio. Buio, come erano buie le giornate che avevano affrontato, rimembrando il passato che li aveva distrutti. Crystal accarezzò la clessidra con fare lascivo, pensando a cosa fare da quel momento in poi: abbandonarli al loro destino proseguendo, così, il compito che gli era stato affidato pochi giorni prima oppure continuare a condurli verso la strada della distruzione, al suo fianco riscoprendo in lui la morte. L'ignoto.
Rigirò la clessidra in cui vi era inciso, con lettere dall'aspetto medievale, un antico proverbio latino: "Memento mori", che significa: "Ricorda, tu morirai".
In lui, da sempre, conviveva una battaglia fra ciò che riteneva giusto e ciò che sapeva di desiderare con tutto sé stesso.
Inclinò la testa di lato.
« Sbaglierò ancora una volta» si disse prima di staccarsi, con un movimento fluido, dal pendolo che lo sorreggeva completamente.
Sivade cercava di dimenticare il passato, rassicurando la piccola San, sfiorandole leggermente il braccio che gli cingeva il collo.
Ma dimenticare era contro la sua natura, abituato com'era a memorizzare informazioni e dati di ogni genere. Una grandissima capacità aveva sempre un lato negativo. Era la legge della natura. E lui non poteva sfuggirle in eterno.
Strinse i pugni, raccogliendo con le mani la terra brulla di quel luogo che li aveva protetti per ore, forse giorni o forse settimane.
Intanto, la mano di Sivade toccò leggermente l'unico orecchino che portava, uguale a quello della sorellina: una targhetta d'argento, dov'era inciso un'unica parola "Amestris".
Le sue origini, il suo passato. La causa d'ogni suo male.
Il moro si avvicinò, piegandosi appena verso i due.
La mano libera, ornata solamente da un grande anello d'argento che riproduceva fedelmente una croce latina, sì protese verso la bambina senza dir nulla.
Ma prima ancora che lei potesse muoversi, le fece un cenno con il capo, invitandola a scostarsi da Sivade.
San alzò lo sguardo, per incontrare quello di lui, una nuova preghiera negli occhi. La preghiera di non abbandonarli, di non permettere che il fratello si facesse del male. Non voleva perdere anche lui. Era l'unico legame che le era rimasto al mondo. E si scostò, lasciando un po' incuriosito Sivade, che ancora non aveva capito di avere Crystal a un passo di distanza.
Il ragazzo prese fra le sue braccia Sivade, stando ben attento a non mollare la clessidra, l'unica loro salvezza. Non faceva fatica, non sentiva stanchezza, non percepiva null'altro se non sé stesso. Fece rigirare la clessidra prima di farla scomparire con uno semplice sguardo. Un varco dimensionale si aprì davanti a loro.
Sospirò. « Sono uno stramaledetto sentimentale».
Scompigliò i capelli di San prima di invitarla ad entrare per prima.
La ragazzina lo guardò per un attimo, stupita, per poi camminare incontro a quel vortice di luci e colori. Finalmente.
Sorrise, una sensazione simile all'acqua che sfiorava il corpo l'avvolse, e sparì da quel luogo dimenticato dal mondo.
Sivade corrucciò lo sguardo, appena sentì di essere sollevato. Non gli piaceva dipendere da Lui, lo metteva a disagio. Tutti potevano fargli il cavolo che volevano, ma con Crystal era tutto diverso. Troppo diverso.
In un sospiro, si aggrappò alle braccia che lo stavano sorreggendo. Era un messaggio implicito: « Bene, altro debito con te. Evviva.»
Il moro non si scompose, seguendo i passi di San. Aveva solo una meta in mente: Glaciern, e lì giunsero.
Alzò lo sguardo al cielo, osservando la neve scendere ed in un istante lo abbassò, osservando le strade ghiacciate.
« Credo sia meglio per te lasciarti tenere in braccio» disse sul vago, muovendo un passo avanti.
Il giovane dai capelli bianchi brontolò leggermente. Aveva la pelle d'oca, con quell'abbigliamento inadatto al clima. Ma non lo avrebbe mai ammesso, come non avrebbe mai ammesso quanto gli facesse piacere la presenza di Crystal lì, con loro, ad aiutarli. Perché, dopotutto, cos'avevano da spartire in comune?
Nulla, se non un breve istante, quello che li aveva fatti incontrare.
Al momento giusto. Al momento del bisogno. Con una puntualità terrificante.
« Credo sia un sì» aggiunse Crystal inoltrandosi in quel bosco che era stato lo scenario di molte sue battaglie passate che lo avevano visto vincitore...Come sempre.
Nessuno poteva sfuggire alla Morte.
Nessuno.
« Presumi troppo, talvolta.» sbottò Sivade con leggera aria di sfida. Non sapeva farne a meno. Avrebbe voluto tentare d'essere più gentile nei confronti del loro salvatore, come faceva la piccola San, ma non ne era capace perché dimostrarsi gentile avrebbe significato aprirsi a Crystal e al solo pensarci ricordava milioni di ferite, che sembravano grondare sangue quanto i suoi piedi.
Si sentiva perduto, tra quelle braccia.
Debole, infinitamente grato...Forse più di sua sorella.
« Certamente.» commentò ironicamente Crystal, senza smettere di camminare con andatura agile ed elegante verso le porte di quella piccola città.
Due guardie all'entrata.
Dietro di loro un immenso portone d'argento, raffigurante un immagine esoterica di sua conoscenza. Alchimia inesorabilmente marchiata dagli Hades.
Fece un breve inchino, stando ben attento a Sivade:
« Siamo venuti in pace» disse trattenendo una risata sadica «Ho bisogno di parlare con il sovrintendente.»
« Non è presente in città» rispose una delle due guardie. Quella apparentemente più sveglia.
« Sapremo attendere» rispose il moro con altrettanta durezza.
« Abbiamo l'ordine di non far entrare nessuno...Tanto meno un membro degli Hades».
Crystal sorrise, l'inferno era alle loro porte.
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