Vanilla

Note preliminari:
Allora, questa è una OS Ryden che mi è venuta in mente un po' a casaccio ascoltando tutta la discografia dei Panic anzichè fare greco, quest'estate, tipo verso metà agosto o prima. Viva me. 
E' una OS molto particolare, soprattutto perchè mi sono ritrovata con qualcosa come 16000 parole e non avevo ancora finito di sistemarla (tanto che le parole sono diventate più di 18000 yay). Tuttavia non ho voluto dividerla in capitoli perchè alla fine è un racconto che si svolge in poche ore, e non volevo interrompere il filo della narrazione in modo brusco.
Allora, oltre che a riferimenti chiari (soprattutto nel finale) alla teoria moon-sun, ci saranno anche degli asterischi (mi pare due), che sono spiegati in fondo alla storia. Vi avverto anche del fatto che ho dovuto adattare gli avvenimenti, le persone, i luoghi e il tempo reali alla storia, quindi non tutte le informazioni presenti nella fanfiction sono in ordine perfettamente cronologico, e magari alcune (tipo il fatto che Ryan viva a Chicago) sono puramente inventate, o comunque modificate da me. 
E niente, se anche voi vi struggete per la Ryden enjoyate questa cosa. 









Seduto su uno di quegli sgabelli alti di legno scuro, scomodo e solido che caratterizzano il Dodger's insieme all'alcol decente a poco prezzo e un giro di prostituzione infallibile fuori dall'uscita sul retro, bevo il mio succo di frutta alla pesca come un perfetto liceale sfigatello qualunque di Chicago venuto a passare il sabato sera tra la gente per dimenticarsi di essere completamente solo e adescare qualche ragazza con la quale passare la notte. L'unica differenza è che io non sono un liceale non voglio affatto adescare qualche ragazza con la quale passare la notte: desidero solo stare con me stesso; ed è per questo che ogni volta, al sabato sera, vengo qui, mi siedo davanti al bancone e appoggio i gomiti sul tavolo lucido e lunghissimo, chiedo un succo di frutta a Roger, il cameriere che mi ha preso in simpatia, poi mi calco il cappello sul capo per essere sicuro che nessuno pensi che la mia faccia abbia qualcosa di simpatico che gli farebbe venire voglia di parlarmi e, a testa bassa, guardo i neon scintillanti che illuminano la sala di rosso e verde e passano al fucsia accecante dopo poco più di trentasei secondi, e viceversa, assaporando il gusto terribile e dolce in modo nauseante della pesca da un dollaro e cinquanta. Ogni volta Roger mi chiede se non voglio qualcosa di alcolico, e ogni volta scuoto la testa debolmente, stringendomi nelle spalle. Non sono mai stato un ubriacone totale. E neanche un drogato di quelli bisognosi di essere disintossicati. Certo, capitava, quando ero giovane, di fumare erba qualche volta o di ubriacarmi leggermente, ma lo facevo solo, non ero uno di quei tipi festaioli che fanno tutto questo per puro divertimento - come se poi sia questo gran passatempo... Io lo trovo squallido e triste, mi fa rendere solo conto di quanta solitudine c'è in realtà attorno a me, rende ogni sensazione (anche la più dolorosa) amplificata di cento volte e crea dipendenza, rende schiavi e miserabili, prigionieri delle tenebre di sè stessi. Questo proprio non riesco a sopportarlo: se c'è un punto sul quale sono particolarmente fissato, è avere il pieno controllo del più minimo particolare, sentire che, anche se tutto va male, posso raddrizzare qualcosa e forse ogni cosa tornerà come prima, o quasi. Non sono mai diventato più felice usando sostanze stupefacenti o alcol, così ho deciso di smettere definitivamente e l'ho fatto, fedele a me stesso come al solito. In genere sono pieno di buoni propositi, ma a differenza delle altre persone so avverarli. Anche contro la mia volontà. Anche se fa male. Basta dirmi che "è per il mio bene" e, per quanto possa essere una bugia, lo farò: sono schiavo di me, del mio dovere e della mia volontà, di "quello che è meglio". Ho sempre una giustificazione valida per quello che faccio, più che altro perchè ne ho bisogno per difendermi dai pregiudizi degli altri. Ho sempre avuto bisogno di crearmi una maschera, o comunque di essere protetto da un'argomentazione valida per essere me stesso, per fare quello che faccio.
Solo una volta nella vita mi è capitato di non averla.
E alla fine è andata comunque come volevo. Come volevo, esatto, e mi ha fatto soffrire, questo. 
Forse sarebbe meglio essere dipendenti dall'alcol che dal proprio istinto di sopravvivenza.
Forse sarebbe meglio che per una volta ci provassi davvero, a sistemare le cose, e come vorrei io.
Forse.
O forse no.

Fatto sta che stasera, come tutte le altre sere in cui vengo qui, non ho alcun interesse ad annebbiarmi il cervello e a toccare una ragazza che non conosco per poi portarla nel mio letto mentre mia moglie non c'è - ho sempre considerato la casa come un posto privato e sicuro, protetto, riservato a me e a poche persone che mi amano, forse anche solo una: mi infastidisce persino invitarci le persone che conosco, figurarsi una perfetta sconosciuta in intimo provocante che tra l'altro dovrò pagare una fortuna. Quando ero con i Panic in genere le feste si facevano da Brendon o da qualcuno degli altri, che erano molto più estroversi e vivaci di me e non perdevano occasione di passare una notte con qualcuno, io non sono abituato più ad avere una donna che non conosco tra le mani da quando ho deciso di sposarmi con Elizabeth per cercare di sistemare almeno la mia coscienza; non penso riuscirei nemmeno a eccitarmi, o a farmi piacere a forza una cosa come il sesso, che ormai, da quando c'è stato il mio matrimonio, ha smesso di attirarmi così tanto come quando ero più giovane.
Inoltre, come ho appena detto, non sopporto il fatto di non avere il pieno controllo delle cose, e soprattutto di me stesso, da quando, per una sola volta, le scelte che erano "per il mio bene" mi hanno fatto tanto male, da quando mi sono ribellato alla mia volontà e mi sono trovato accecato dalla paura di una vita rovinata, da quando ho cominciato a fingere, da quando...
Da quando.
Punto. Non so nemmeno io cosa sia successo, in realtà. Ed è per questo che è finita. Nessuno sapeva cosa stesse accadendo e io ho mi sono ritirato come un codardo, perchè per la prima volta perdere il mio potere su ogni cosa e soprattutto su me stesso mi piaceva, mi piaceva da morire, e avevo una paura folle di questa cosa.
Nel frattempo mio padre era morto, era arrivata Sarah, ho lasciato due ragazze in un anno solo e gli altri componenti non hanno aiutato per niente a mantenere intatta la nostra unità iniziale, poi abbiamo cominciato a litigare persino per il genere di musica del nuovo album e la tensione è diventata insopportabile.
So benissimo che se potessi ritornare a quel punto prenderei la stessa identica decisione, quindi non servirebbe a niente parlare o altro, come andare dallo psicologo e raccontare tutto o dire ogni segreto della mia vita a mia moglie e dichiarare, con voce massiccia, che "ormai lei sa tutto di me", come molti altri hanno fatto. Perché non è vero, ormai ne ho preso atto. Non sarei mai libero di parlare delle cose che ho vissuto, finirei comunque per censurare qualcosa, io sono fatto così. Forse è stato questo che mi ha sempre impedito di avere un vero amico, o comunque qualcuno che mi amasse incondizionatamente. C'era una sola persona con la quale non volevo, non riuscivo ad avere sospesi o ombre, e quella persona se ne è andata per sempre. 
Ormai è andata così. Non cambierei nulla. 
Fisso il mio succo, con un po' di dubbio, immerso nei miei pensieri come al solito.
No, forse se potessi invertire tutto deciderei di rimanere.
Forse non avrei così paura come allora, sapendo dove sarei finito andandomene, sapendo che quel "ci sentiamo, okay?" sarebbe stato solo una falsa promessa, e no, non ci saremmo nemmeno più visti. Forse direi a Jon "se tu vuoi andartene è okay, ma io non mi muovo", e lui mi guarderebbe stringendo i pugni e digrignando i denti come ha fatto con gli altri quando siamo usciti per sempre dallo studio, quel giorno. Forse l'invito al matrimonio lo avrei avuto, forse il matrimonio non ci sarebbe nemmeno stato, forse il matrimonio sarebbe stato con una persona diversa. Forse non avrei pianto così tanto.
Bevo un sorso dal bicchiere, improvvisamente perso nella mia testa, mentre una strana angoscia mi corrode l'anima, come ogni volta che penso al mio passato, a ogni singola scelta che desidererei cancellare. E' orribile ammettere di aver fatto le scelte sbagliate. Ed è orribile quando ti accorgi di ritenere che sono fottutamente sbagliate e che nonostante questo non vuoi o non puoi cambiarle. Dio sa solo se ogni giorno non guardo il telefonino e penso che forse con quel dannato coso potrei fare per una buona qualcosa di utile: basterebbe inviare quel dannato messaggio. Eppure lo fisso, ogni singola lettera e parola, fino a che non lo vedo sfocato e privo di significato, per poi bloccare lo schermo come al solito, andare in cucina a prendere un sorso di birra per cercare di distrarmi e dare un bacio a Elizabeth, illudendo me stesso con una maestria che non avrei mai pensato di avere, e che non so nemmeno come faccia a essere sopportata dalla mia testa, dai miei ricordi. Dopo un po', puntualmente, penso che chiamarlo sarebbe meglio. Ma alla fine, la realtà è che mi dico sempre che non ne vale la pena. Con il novanta percento della probabilità ha cambiato numero, e al cento percento non vuole parlare con me, e se vuole parlare con me, allora io non voglio sentire la sua voce, non voglio sentirmi mentre mi dico qualche grande stupidaggine e parliamo di argomenti di cui in realtà non ci interessa, non voglio sentire la sua risata, non voglio sentirlo mentre mi chiede come va e non voglio rispondere con una bugia, non voglio sentirci mentre ci mentiamo a vicenda. Non voglio percepire il desiderio di dirgli qualcosa che non posso avere, non voglio che inviti me e mia moglie a pranzo a casa sua, non voglio che mi chieda se ho qualcosa in programma e mi dia qualche biglietto gratis per i suoi concerti. 
Sospiro, solo, nell'aria viziata e pesante che si respira nel locale.
Dopo tutto questo tempo, ho perso di vista persino Jon, quello che mi era rimasto fedelmente accanto per tutti quegli anni, dopo che gli Young Veins si erano messi in pausa, probabilmente perchè tutti avevano capito che io e lui - o almeno io - lo facevamo - o lo facevo - solamente per rivincita, per un bisogno disperato di sfogo, che pure nessuna delle persone che ci circondavano in quel momento poteva soddisfare. Era solo un ammasso di rabbia e dolore, un conglomerato di malinconia e voglia di essere indipendente da qualcosa che ormai era la nostra pelle, un suicidio disperato e quasi riuscito, ma mai portato a termine, per fortuna, o forse per sfortuna, dipende da come la vedete. A volte mi capitava di cominciare a gridare le parole delle canzoni che io stesso scrivevo per avere un ritmo più pacato senza nemmeno accorgermene, sgolandomi sul microfono fino a che qualcuno non mi diceva che stavo piangendo, e Andy mi urlava di piantarla, di piantarla, cazzo, mollando il basso e prendendomi per le spalle, spingendomi contro il muro e chiedendomi cosa minchia c'era che non andava.

A quel ricordo, provo un brivido istantaneo, e mi stringo nella giacca, nonostante l'aria qua dentro sia quasi irrespirabile, tanto è satura di sudore e respiri pieni di alcolici, poi finisco il succo, cercando di non pensare troppo. Ne ordino un altro appena ingoio l'ultimo sorso del primo: sento le labbra asciutte, ho bisogno di qualcosa con cui occupare le mani per non vedere che tremano, per non accettare la realtà, ovvero che sono un fallito e che ho perso tutto. Persino l'unica cosa che potevo considerare mia e mia soltanto.
Guardo il bancone lucido, sotto le mie braccia. È vuoto, perché tutti sono sulla pista da ballo, a parte me e un uomo sulla sessantina completamente solo che fuma una sigaretta esattamente dal lato opposto del lungo tavolo: il genere di persona che evita il contatto umano come la peste. Non che mi dispiaccia, anzi. Non sono mai stato un tipo molto propenso a farmi amici né ad attirare abbastanza attenzione per averli senza la minima fatica. Non sono bello e sicuro di me, ho bisogno di nascondermi dietro uno strato di matita o eyeliner per sentirmi al riparo dagli sguardi, non sono brillante, tanto che ho scelto la carriera del musicista e adesso non ho niente da fare se non spendere i soldi che ho guadagnato negli anni della mia fortuna, non sono divertente e aperto, ho giusto quel lieve velo di sarcasmo per difendermi dalla gente indesiderata (o più, in generale, da qualsiasi essere vivente) che il più delle volte, piuttosto che divertire, allontana ancora di più le persone da me. Solo quando le cose con i Panic si sono fatte serie ho cominciato ad avere una schiera di ragazzine adoranti dietro, e quello è un tipo di attenzione che non mi piace affatto. Non sono fatto per le groupies, o per un pubblico vasto, per essere il frontman sexy o cose del genere. La riservatezza è una delle cose che mi caratterizza di più, per quanto abbia cercato di nasconderlo, negli anni.
Finisco il secondo succo troppo in fretta rispetto al solito, fissando il colore scuro del pavimento per non rimanere accecato dalla moltitudine di neon che illuminano coppie sudate e ubriache attorcigliate tra loro in danze folli e seducenti. Rimango incantato, per un attimo, a osservare quella magia scintillante e passionale che ormai la mia vita ha perso, ma quasi subito distolgo lo sguardo, ferito e amareggiato.
Osservo il bicchiere vuoto, davanti a me, fino a che non provo il desiderio di andarmene a casa, solo. Ma non posso farlo. Non posso farlo perché so che se solo uscissi da qui comincerei a piangere e non mi fermerei fino a domattina, e non voglio ascoltare il rumore silenzioso delle lacrime che mi bruciano le guance, come una dannata tortura. Quindi eccomi qui, chiuso nella mia prigione del sabato sera, invidiando gli amori giovani e felici davanti a me e sorseggiando succo scadente, mentre cerco di non annegare nei miei stessi pensieri.

- Ross - Roger schiocca due dita esattamente davanti al mio naso dopo avermi chiamato sottovoce, facendomi sussultare per lo spavento. Lui conosce solo il mio cognome: non dico mai il mio nome in giro, soprattutto nei locali, dove la cosa che più serve è della clientela fissa. Penso che lui sia una brava persona, ma non è nella mia natura fidarmi così facilmente delle persone, anche se le vedo abitualmente e magari smozzico anche qualche parola sommessa in loro presenza. Non voglio ritrovarmi un'orda di adolescenti che aspettano che racconti loro una cosa come la mia intera vita e mi fanno le domande più odiose, o peggio, non voglio che Elizabeth scopra che non sto affatto lavorando a un nuovo progetto come solista come le dico ogni volta che sento il bisogno disperato di uscire da solo, ma perdo i sabati sera annegando nei miei pensieri completamente solo. Quando penso di dire a Roger "Puoi chiamarmi Ryan" vedo già l'annuncio su ogni giornale americano: "Ryan Ross, ex-membro della band di Las Vegas Panic! at the Disco e del gruppo per ora in pausa The Young Veins, ogni sabato sera si reca al Dodger's, locale nella periferia di Chicago..." e questo basta per zittirmi immediatamente.
Il cameriere schiocca le dita un'altra volta, a questo punto, e io mi riscuoto del tutto, concentrandomi sui suoi occhi verdastri per non perdermi di nuovo nei suoi pensieri. Immediatamente, vedo che ha sbattuto davanti a me un drink scarlatto, con tanto di ghiaccio, come mi piace solitamente quando decido di bere qualcosa che contenga alcol. Guardo l'inserviente alto e allampanato di soppiatto, inarcando un sopracciglio:

- Non l'ho ordinato io - dico, scuotendo la testa e facendo per spingerlo indietro. Non voglio bere alcolici, non voglio andare a casa ubriaco e piangere e vedere cose che non esistono e fantasmi di persone che ormai mi hanno abbandonato, non voglio tirare fuori le vecchie foto e spargerle sul pavimento per gettarci sopra le mie lacrime, no, no. Mi basta già l'inferno di quando sono sobrio, stordirmi peggiorerebbe ulteriormente le cose, e lo so. La frase "bere fa dimenticare" è la più grande stronzata del mondo, anzi: quando lo fai troppo finisci per soffocare nel passato e nei ricordi, in quella calca di memorie che ti opprimono il petto fino a non lasciarti più respiro. Ed è terribile. L'ho imparato a mie spese.
Ma lui scuote la testa, poi si sporge verso di me e sussurra, in tono confidenziale, come se fosse un segreto:

- Te lo hanno offerto.

Quel suo sorriso inquisitore e eloquente, come se sapesse già tutto di me e al tempo stesso volesse che gli dicessi tutto quello che so sul mio misterioso offerente, mi basta per diventare nervoso, soprattutto perchè in realtà non ho la più pallida idea di chi possa avermi pagato un alcolico rosso sangue e si sia anche concesso il lusso di aggiungere un dollaro per il ghiaccio solamente per me.
Diciamocelo, è praticamente impossibile che qualcuno mi abbia offerto un drink, dato che, prima cosa, qui non conosco nessuno (ed è esattamente per questo motivo che vengo qui, altrimenti mi sarei rifugiato in qualche baracchino di pancakes allo sciroppo d'acero in Canada), e, a meno che un fan con la vista da aquila non abbia deciso di giocare a Indovina Chi per incuriosirmi e attirare l'attenzione del suo artista musicale preferito, allora qualche ragazza che non mi ha mai sentito nominare in vita sua mi avrà trovato interessante e carino, cosa che non capita mai.
Facendo le statistiche adeguate, quindi, la cosa più probabile è che un fan mi abbia riconosciuto, e già questo è altamente improbabile; in sintesi, penso proprio che Roger si sia sbagliato o che mi abbiano scambiato per un'altra persona.

- Ha lasciato un nome? - domando, inarcando un sopracciglio e muovendo la mano per prendere in mano il bicchiere. Mister x vuole giocare? E va bene. In due minuti risolverò questa faccenda e non mi darà più fastidio. Se poi si è trattato di uno stupido errore, la preoccupazione sparirà in pochi secondi.

- No - risponde, mormorando, mentre il suo sguardo si fa sempre più curioso - Ma ti posso dire dov'è, se vuoi. Ti sta guardando proprio adesso.

Così è un uomo. Roger ha chiaramente detto "te lo mostro".
Mando giù il groppo in gola, improvvisamente più agitato di quanto già non fossi prima. La mia sessualità è sempre stato un argomento delicato e doloroso per me, ho dovuto pensarci molto nel corso della mia vita, e spesso sono arrivato a una conclusione che mi sembrava quella definitiva e poi questa si è rivelata completamente errata; ma comunque adesso sono sposato con una donna, e ora come ora non sono interessato al sesso gay come a quello etero, all'infuori dei rapporti che ho con la persona che ho scelto di avere nella mia vita.
Mi sistemo nervosamente il cappello. Se andassi a letto con un uomo, mi sentirei molto più colpevole, e non per Elizabeth, diamine, e il fatto di sentirmi in colpa ma non per mia moglie mi farebbe annegare in una paralisi mentale che so durerebbe ore, giorni, anche settimane, e mi farebbe ricordare ogni cosa più in fretta del solito, e poi comincerei a pensarci di nuovo e oggi non è affatto giornata.
Sospiro, fissando il drink e rimuginando sul da farsi.
Non alzo nemmeno la testa per cercare di vederlo. So che sarebbe da stupidi sperare di riconoscerlo tra la moltitudine di gente, dato che molto probabilmente non lo conosco affatto, e comunque sembrerebbe che io sia ansioso di sapere chi sia il misterioso offerente, cosa che non voglio nel modo più assoluto. A maggior ragione se è un uomo di cui non so nulla.

- È qui al bancone - continua Roger dopo qualche secondo, sussurrando appena per non farsi sentire dal resto della clientela, anche se la musica copre ogni minimo rumore - Esattamente a cinque o sei sgabelli da te, sulla destra.

Annuisco, cercando di mantenere la calma e non pensare al fatto che sia un uomo, un uomo che probabilmente ha intenzione di attaccare bottone con me, dato che mi ha offerto un drink come se fossi una bella ragazza con un vestito molto corto. Bisbiglio, tutto d'un fiato:

- Cosa ti ha detto, esattamente?

A quel punto ridacchia, e mi sento in trappola, come un animale braccato, pedina di un gioco che non dipende dalla mia volontà.
Mi prende il panico, le mie dita cominciano a muoversi e a stringere spasmodicamente il bicchiere, ancora intoccato, della bevanda rossastra e fredda. Vi sembrerà stupido, visto che sono un uomo adulto, ma ho paura. Sento un lieve senso di pesantezza che mi attanaglia lo stomaco, come se fossi in pericolo.

- Cito testuali parole... "dia un drink uguale al mio a quel bel ragazzo sulla sinistra" e qui ti ha indicato "Metta il ghiaccio, a lui piace molto. Pago io" - Roger sorride, trionfante, dato che probabilmente si è accorto che ne sa molto più di me, poi va a servire una ragazza bruna, lasciandomi solo alle prese con il rossore che è comparso sulle mie guance.
Bel ragazzo? E come fa a sapere che nei superalcolici ho bisogno del ghiaccio?

Rimango cristallizzato al mio posto, indeciso sul da farsi. Fisso il drink, senza avere il coraggio di berlo, ma nemmeno di abbandonarlo e infilare la porta per andarmene.
Mi mordo la guancia, prendo un bel respiro e mi giro, lentamente. Conto gli sgabelli, lentamente, guardando più il pavimento che i posti a sedere, terrorizzato, e poi il mio sguardo si posa su di lui.
Il mio cuore si ferma e sento le mie guance ardere in una fiammata più intensa e bruciante, improvvisamente bollenti, come ogni volta che lo vedevo, quando eravamo più giovani ed ero solo un ragazzino inesperto che dava ascolto al primo battito troppo veloce del suo cuore. Ma subito dopo mi affretto ad abbassare la testa, istintivamente, quasi dovessi difendermi da quegli occhi, che mi trapassano da parte a parte come una lama dolcissima. Solo pochi secondi più tardi mi accorgo che deve essere stato un gesto veramente stupido, perché Brendon mi conosce alla perfezione, anche se non ci vediamo da anni, e non serve a niente nascondermi quando mi sono appena rivelato a lui. Lo fisso, di sottecchi: adesso mi sta guardando da capo a piedi, sorridendo con lo sguardo ebete tipico di quando ha bevuto tanto. Finisce il suo cocktail, con calma, poi si lecca le labbra sotto il mio sguardo, intrappolato per la prima volta dopo troppo tempo nelle sue iridi, cosciente di essere irresistibile, e infine si alza per venire verso di me, sistemandosi la giacca elegante con la sua solita aria vanitosa e dannatamente attraente.
Dopo che un'imprecazione mormorata mi sfugge dalla bocca, in un soffio, mi volto verso il bicchiere, sudando freddo e pregando che crolli addormentato o qualcosa del genere prima di raggiungermi, o che Roger si sia sbagliato e lui non stia cercando me, che mi passi davanti senza notarmi minimamente e vada da qualche bella ragazza che ha visto. O forse è solo un modo per convincere me stesso che non voglio vederlo, non voglio parlargli, non voglio che mi sfiori più.
Ma quando lo sento accomodarsi accanto a me, non posso fare a meno di guardarlo ancora. È bello, con la camicia elegante nera, la giacca scura e i pantaloni dello stesso colore, le scarpe ben lucide come piace a lui. E' cambiato tanto, dall'ultima volta che ci siamo visti, eppure al tempo stesso mi sembra di riconoscere ogni cosa di lui.

- Cosa ci fa un bel ragazzo come te da solo, senza alcolici e donne, seduto al bancone mentre guarda il vuoto e beve un succo di frutta in un locale dove ti vendono bicchieri di tequila da mezzo litro a meno di un due dollari? - biascica, appoggiando una mano sulla mia coscia e cominciando ad accarezzarla con gesti lenti e affettati, senza mostrare la minima traccia di vergogna o goffaggine.
Mi pietrifico, accorgendomi immediatamente che non mi ha nemmeno riconosciuto, tanto deve aver bevuto. Dio. Come faccio a ingannarlo in questo modo? Dovrei dirgli che sono io, che sono Ryan? E se appena gli svelassi il mio nome se ne andasse?
Mi lecco le labbra, rimanendo in silenzio, mentre dentro di me è in corso un conflitto, lo stesso che ogni giorno si combatte all'interno del mio cuore. Riguarda sempre lui. E non ha mai un esito decisivo. 
Respiro, piano, guardando le sue dita che indugiano sul tessuto dei miei pantaloni.
Voglio che mi lasci solo? Oppure voglio solo fare finta, per una sera, di poter condividere il resto della mia vita con lui, come avrei voluto, e come non ho avuto il coraggio di fare?
Non so nemmeno se è ancora arrabbiato con me, se mi ama, se mi odia, se gli dispiace, se mi vuole, se gli manco. Non ci siamo più sentiti. Giusto per un po' di documentazione e qualche scartoffia per uscire definitivamente dai Panic, e tutto quello che ho sentito da parte sua è stata una freddezza insolita che ha solamente aumentato la spaccatura che ormai ci divideva in modo irreparabile.

- Non saprei... ehm... - decido di fingere. Fingere di non conoscerlo, che io non sia sposato e nemmeno lui. Fingere che questo sia il suo primo flirt con me, come se fossimo ancora dei ragazzini delle scuole superiori che decidono di formare una band insieme, fingere che questa scena - io, timido e impacciato, che lo guardo con piccoli risolini insicuri già completamente perso, e lui, sicuro, dolce, irrimediabilmente sexy, che cerca, per qualche motivo del quale non sono a conoscenza, di attirare la mia attenzione e di conquistarmi, con qualsiasi espediente possibile, però senza mai sembrare ridicolo - non sia mai successa.
So che farà male, poi.
Ma non posso farne a meno.
Mi sta sorridendo, e questo sorriso non lo ricordavo nemmeno più. Non ricordavo quanto fosse dolce, anche quando è ubriaco fradicio, quanto fosse caldo e rassicurante, quanto mi facesse sentire a casa, apprezzato, accettato. Io riesco solo a mettere le mie dita sulle sue, nel disperato tentativo di allontanarle dalla mia gamba, vergognandomi di quello che gli sto permettendo di fare. Non dovrei permettere una cosa del genere, non dopo tutto quello che è successo tra noi, non mentre non sa nemmeno chi sono. 
Sfioro appena le sue dita, intimidito dalla sua stessa presenza, e poi cerco di mandarle via, senza nemmeno infondere forza nel mio tocco: sembra più che io gli stia accarezzando la mano, e non voglio questo. Scuoto la testa, guardandolo, inerme, mentre una parte di me mi sta gridando di correre via e l'altra vuole solo passare del tempo con lui, mi spinge ad essere più sciolto, a mentire, mentire e tradirlo di nuovo. 
Mi ribello immediatamente a quest'ultima sensazione, anche se so che è quella che vorrei ascoltare: con tutta la forza di cui sono capace in questo momento, do una leggera spinta alle sue dita, con l'intenzione di fargli capire che sta facendo qualcosa che non deve. Ma lui non ritrae affatto la mano, anzi, sporge in fuori il labbro inferiore e modula la sua solita voce profonda, quella che fa quando ha in mente qualcosa di ben preciso:

- Dai... bevi - con un cenno della testa, mi indica il drink - Ti ho fatto mettere anche il ghiaccio.

Sembra che anche se non mi ha riconosciuto e non è nemmeno totalmente cosciente di quello che sta facendo, una parte del suo cervello, sorprendentemente, mi abbia identificato, e abbia cominciato ad associare a me, a Ryan Ross, tutte le cose che solamente lui può sapere. Come quella del ghiaccio in ogni fottuto cocktail, non importa se fa cagare o cosa, io devo avere il ghiaccio dentro.
Sorrido, a mio malgrado:

- Va bene, però tu togli la mano da lì, ti prego - pigolo, a bassa voce, imbarazzato come non mai, anche se di nuovo una parte di me mi grida di lasciarlo fare, che è quello che voglio, l'unica cosa che mi importa adesso e mi potrebbe mai importare nella vita.
Ma non posso concedermi così facilmente, non adesso, no. Sono sposato, ormai, e ho delle responsabilità verso l'unica persona che è la mia famiglia. E' stata una mia scelta, io e Brendon non ci vediamo da anni, e probabilmente non ci vedremo mai più, a meno che, cosa molto improbabile data tutta la quantità di alcol che ha ingerito, lui ricordi di avermi visto qui e muoia dal desiderio di chiamarmi, tra qualche giorno. Abbiamo litigato anni fa senza riappacificarci, e adesso non mi ha nemmeno riconosciuto. Sarebbe disonesto, meschino.
Non voglio che pensi che io abbia bisogno di lui.

- Sei timido... e dolce - mi sorride, mentre bevo, prima con goffa insicurezza, poi sempre più accaldato e deciso. Non ho idea di quanto alcol ci sia dentro questa roba, probabilmente è un miscuglio indefinibile di superalcolici, quelli che con tre dollari ti danno la sbronza che avresti se bevessi una bottiglia e mezza di bourbon da solo.
Senza che me ne accorga, mentre ancora sto sbattendo gli occhi nel tentativo di scacciare via la bruciatura che il drink ha lasciato nella mia gola, facendomi quasi lacrimare involontariamente, Brendon ordina due Martini, che arrivano meno di cinque secondi dopo.
Sbatto gli occhi, tossicchiando, e cerco di non dare a vedere che tutto quell'alcol mi dia fastidio dopo così tanto tempo che non bevo seriamente qualcosa che non sia un bicchiere di vino ai pasti, ma lui, che, senza rendersene davvero conto, mi conosce troppo bene, mi prende una mano, intanto che beve i primi sorsi del cocktail, servito in un old fashioned* doppio:

- E' da tanto che non mandi giù qualcosa di serio, vero? - domanda, ridacchiando, per poi agitare il suo bicchiere in aria e scolarsi almeno metà  del liquido rimanente. Scuoto la testa, ardendo per la vergogna, poi guardo insospettito il mio Martini e decido che non può essere così male, che dopo questo dirò "basta, grazie, devo andare a casa, c'è mia moglie che mi aspetta" e tutto finirà lì, anche se so benissimo che non sarà così. Lo scolo in pochi sorsi, brevi e decisi, forse i più difficili della mia vita. La temperatura nel locale aumenta in una manciata di secondi, e mi accorgo che Brendon ha il viso sempre più vicino al mio: mi sta osservando, come se stesse cercando di capire chi sono, chi gli ricordo.

- Bloody Mary - biascica senza staccare il volto dal mio, rivolto al cameriere, facendo segno di portarne due con le dita e sbattendo le palpebre, confuso da tutto quello che mandato giù negli ultimi dieci minuti.
Io lo vedo sfocato a tratti, il suo corpo si smarrisce nella profondità della stanza, e il suono della sua voce diventa bassissimo, mentre poi, dopo nemmeno un secondo, Brendon sta gridando dentro le mie orecchie. Spezzoni dei ricordi di noi mi ritornano alla mente, mi sembra che mi stia accarezzando e mi ritraggo, poi lo guardo bene e noto che mi sta solo guardando, come prima, mordendosi appena le labbra.
Cosa dovrei dire? Che devo andare a casa?
All'improvviso intreccia la mano con la mia, in un gesto che, per quanto deciso, è tenero, innocente. Lo faceva quando piangevo. Forse una lacrima mi sta scivolando dall'angolo dell'occhio, persino ora? Dopo tanto tempo?
Appena il cocktail arriva, insieme a due bicchieri di carta giganteschi in omaggio stracolmi di mojito, cominciamo a tracannarlo senza più freni. So perchè lo sto facendo, la mia mente è perfettamente conscia del fine al quale voglio arrivare, e per questo mi sto odiando, mi sto odiando, perchè quella a cui sto prendendo parte volontariamente è autodistruzione di me stesso e della perfetta casa delle bambole di plastica che è la mia vita, autodistruzione di ogni cosa che per tutta la vita ho difeso, tutte le bugie cristalline che ondeggiano nella mia testa e durante il giorno mi tengono lontano dalle ombre di quello che ho vissuto, dall'amore che ho provato, dalle lacrime che ho pianto, dalla rabbia che non ho mai sfogato, dai rimorsi che dominerebbero la mia testa se mi ritrovassi senza niente da fare. Sto già ricominciando a bruciare per lui, lo sento, e questa volta non è uno stupido ricordo opaco, non è un messaggio mai inviato che continuo a tenere salvato nel telefono in attesa che io abbia il coraggio di essere qualcuno che non sono, ma è reale, una persona in carne ed ossa che mi guarda sorridendo, che mi dice che sono bello e che vuole stare con me.
Le sue dita sulle mie sono esattamente come erano anni fa: calde e sicure, rassicuranti, dita che mi porterebbero ovunque e per me farebbero qualsiasi cosa.
Solo per stasera, prometto, mentre ogni cosa ondeggia, in una bolla ovattata di rumori lontani.
Quando prendo anche il mojito, sono completamente ubriaco. Prima ero più resistente all'alcol, quando ero nei Panic una sera sì e una sera no organizzavano una festa, e Brendon puntualmente mi ci trascinava: non mi stordivo così in fretta, anche se non per questo bevevo in modo esagerato. Adesso, invece, appena bevo un drink mi sento girare la testa, vedo doppio.
La mano mi trema, ma ingoio comunque, e sento qualche goccia fredda di cocktail cadere pigramente sulla mia camicia. Brendon ride, si passa una mano nei capelli e poi mi sussurra, direttamente nell'orecchio:

- Ti va di ballare un po', splendore?

Inarca una sopracciglio, per poi ammiccare verso di me, accarezzandomi le dita con il suo pollice, e io arrossisco all'istante, abbassando la testa verso il pavimento e cercando una scusa plausibile per non mettere piede sulla pista. Sa perfettamente che sono un pessimo ballerino, o almeno, che Ryan Ross è un pessimo ballerino. Non voglio fare una figuraccia davanti a tutti, in più è da un bel pezzo che Roger ci sta fissando e penso sia arrivato il momento di andarsene prima che possa cominciare a farsi qualche domanda.

- Oh, no... io... devo andare, davvero... è tardi... - biascico, cercando disperatamente di leggere le lancette dell'orologio, che formano intrichi complessi. I numeri si mischiano, scambiandosi di posto, come per prendermi in giro. Non avrei dovuto bere così tanto, so benissimo anche questo. La mia casa è a due passi da qui, non vengo mai in macchina, ma quasi non riesco a stare in piedi, come posso sperare di arrivarci? Ammesso e concesso che mi ricordi ancora la strada: già adesso i nomi stanno cominciando a confondersi nella mia testa, rendendomi vittima dello scherzo crudele dell'alcol.

- Devi andare o pensi di non essere bravo a ballare? - chiede, con un sorrisino, finendo il suo mojito e giocherellando con la cannuccia, mentre io non mi azzardo nemmeno a prendere in mano il mio bicchiere, pieno per metà.
Sospiro, mentre le tempie mi pulsano di un dolore delicato, quasi sensuale, da un certo punto di vista. Sento il suo pollice accarezzarmi, la musica è alta, fa caldo e adesso ho solo voglia di sentire se le sue labbra sono rimaste le stesse, quelle che ricordo ancora adesso, oppure se il fatto che siano state possedute una donna le abbia cambiate, rese sgradevoli.
Cerco inutilmente di controllarmi, ma davanti alla sua espressione da flirt riesco solamente ad essere in un imbarazzo velato da un sottile strato di desiderio folle.

- No... okay... - comincio a ridere, piano, senza sapere cosa sto dicendo scatenando anche le sue risate - Non... non sono bravo a ballare, ecco... il punto.

Indugio sull'ultima parola, ma ormai lui mi sta tirando per un braccio, pregandomi con gli occhi. Io riesco solo a ridacchiare, piano, e a scuotere la testa, controvoglia, chiedendomi cosa diavolo stiamo combinando. Siamo sposati con due donne. Quella era solo una storia tra due ragazzini persi e confusi, una relazione un po' sdolcinata... qualcosa che entrambi avremmo desiderato ardentemente trasformare in realtà, ma che sapevamo benissimo era destinata ad essere frantumata dalle miliardi di cose che ci sarebbero piombate addosso quando avremmo cominciato a fare sul serio.
O forse non è così?
Forse è stata la cosa più vera della mia vita, e adesso sto solo cercando di sminuirla?
Non lo so. 
Non lo so.

- Dai, ti insegno io - mi implora, inginocchiandosi davanti a me e prendendomi entrambe le mani come se dovesse propormi di sposarlo. A questo pensiero, devo ricacciare indietro le lacrime di dolore, concentrandomi solo sul suo sorriso gioioso.

- N... no - ripeto, farfugliando qualcos'altro che nemmeno io capisco. Scuoto la testa, di nuovo, e ogni cosa prende a fare un girotondo crudele.
E se un secondo prima sto ridendo con lui per una qualche battuta stupida su un ballerino incapace allo scopo di convincermi a ballare con lui, un attimo dopo lo vedo davanti a me, che tiene per mano Sarah e le infila un anello al dito, e devo sconfiggere la tristezza concentrandomi sulle luci a neon, il suono soffocante della musica e le sue mani che mi accarezzano le ginocchia.

- Dopo ti do un bacio se vieni - dice ad un certo punto, riprendendo le mie mani e portandosele al collo. Le ritraggo, di scatto, un po' per la paura e un po' per l'emozione che mi pervade insieme a uno strano senso di elettricità.

- Perchè un tuo bacio dovrebbe convincermi a ballare? - chiedo, ridacchiando, chiudendo le dita tra le mie cosce, al sicuro dalla sua stretta dolce, tenera, velenosa e corrosiva, per il mio cuore e la mia pelle, per la mia mente e il mio corpo.
E intanto so benissimo che per un bacio dei suoi, per quelli che mi dava quando consumavamo il nostro amore nei camerini del backstage, gli concederei quanti balli vuole.

- Mi stai chiedendo di dartene due? - sorride, annuendo, come per invogliarmi ad accettare la sua offerta, mentre il suo ciuffo di capelli castani ondeggia di qua e di là, dolcemente, invitandomi ad accarezzarlo.

- Naaa - allungo la a quasi involontariamente, poi mi tappo la bocca accorgendomi di quel suono sguaiato e scoppio a ridere di nuovo, insieme a lui, anche se sento una lacrima strappata a forza dalla morsa feroce della mia anima che scivola lungo una delle mie guance, timida e impercettibile.
Cerco di non darci peso, ma intanto ho smesso improvvisamente di sorridere, anche se lui, ubriaco fradicio, non se n'è nemmeno accorto. Anche la sua risata è cessata, e adesso mi guarda come se stesse per spogliarmi esattamente dove sono:

- Allora vuoi qualcosa di più serio, dolcezza... sai, non ti facevo così furbo - sul suo viso si forma un sorriso provocante e malizioso, poi, come se niente fosse, si slaccia il primo bottone della camicia nera, facendomi mozzare il respiro alla minuscola vista del suo petto.

- Vuoi un pompino? - la domanda suona più suadente e ipnotica di quanto veramente vorrei, e per un attimo sono tentato di cadere tra le sue braccia, che mi circondano senza lasciarmi una via di fuga. O forse sono solo io che non voglio andarmene, in realtà, forse sono solo io che cerco scuse inaccettabili per giustificare tutta l'attrazione che ancora provo nei suoi confronti.
Si è alzato da terra, nel frattempo, posizionandosi esattamente davanti a me; le sue labbra sono all'improvviso troppo vicine al mio collo, è bello, eccitante, dannatamente terribile e intriso della disperazione di due persone che sanno che non si vedranno più e pure decidono di amarsi da morire, per una sola notte. Mi fa venire la nausea, per il concentrato di rabbia e dolore che è, e allo stesso tempo girare la testa per il solo pensiero di quella bocca sulla mia. Ho paura, ho paura di quella notte di vita, ho paura della voragine che ci sarà dopo, quel vuoto inconcepibile al mio fianco, quella presenza che mancherà per sempre.

- Io non voglio niente del genere - all'improvviso la mia voce risuona risoluta e sicura, persino nell'ebbrezza dell'alcol.
Non posso, non posso. Dio, non posso.
Vorrei tanto, amore mio, ma non posso.

- Nemmeno... una vita intera? - ubriaco e sensuale, avvolge le mani attorno ai miei fianchi, facendomi abbassare lo sguardo prima allo sgabello sul quale sono seduto e subito dopo, accorgendomi che praticamente sto fissando il suo cavallo dei pantaloni, di nuovo al suo viso, il naso che quasi sfiora il mio.

- In che senso? - senza fiato, appoggio una mano sul suo zigomo con l'intenzione di spingerlo via da me e allontanare quella sensazione così calda e piacevole per ripiombare nella mia vita senza ferirmi a morte, ma troppo tardi percepisco che gli sto solo facendo una carezza lenta, di quelle che ho sempre adorato, per sentire il calore della sua pelle e lasciare che il profumo del dopobarba impregnasse le mie mani.
Sento un dolore fuori da ogni limite di sopportabilità scoppiarmi nel petto tutto d'un colpo, e all'improvviso vorrei solo piangere e fuggire via da quello che mi sembra un incubo erotico e terribilmente dolce.

- Una vita intera insieme... mh, ogni notte, con me, nel letto - biascica, ridacchiando e mordendosi il labbro inferiore, mentre io tolgo velocemente la mano dalla sua guancia.
Dio.
Mi sta offrendo un ballo in cambio di tutto ciò che non ho mai avuto e che ho sempre desiderato, ed è troppo, è troppo. Vorrei dirgli basta, mi stai facendo male, eppure l'unica cosa che riesco a fare veramente è aiutarlo a demolirmi pezzo dopo pezzo.

- Stai scherzando. Stai fottutamente scherzando - sussurro, staccando la mano dal suo viso bollente e guardandolo negli occhi offeso. Dopo un attimo di splendida illusione, ho finalmente realizzato che è troppo ubriaco per sapere anche solo una sillaba di quello che sta dicendo.
Scuote la testa, e le sue dita sono ancora lì, che mi stringono il bacino:

- Oh, no, principessa - si lecca i denti - Un ballo in cambio di una bellezza del genere per sempre? Merda, sarebbe magnifico.

Rido, amaramente, e poi scuoto la testa:

- Non sono bello - indico la matita che metto ancora per sentirmi più sicuro, quello strato nero che mi nasconde agli occhi di ognuno, persino di mia moglie, che si sbava appena piango, smascherandomi irreparabilmente, e che in questo modo mi obbliga a distrarmi e a non riflettere su di lui, su di me, e su ciò che abbiamo fatto e avremmo potuto fare.
I sentimenti che si agitano nel mio cuore continuano a ruotare, come tutto ciò che ho intorno. Ho paura, sono sicuro di me, ho voglia di lui, devo spingerlo via, voglio attirare la sua attenzione, non avrei dovuto bere, me ne vado, ti amo, ti odio, sono ancora arrabbiato, dammi ancora un drink, voglio stordirmi per te, dimmi che sono bello, ti prego, no, dimmi che sono brutto e vattene, amami, gettami via. Le parole si rincorrono come in una giostra infernale, ed è troppo tardi, ho già pagato il biglietto.

- Se mi concedessi un ballo, potrei elencarti almeno mille cose che adoro di te - sussurra, spostando rapidamente le mani sul mio corpo, dai fianchi ai polsi, per poi raggiungere le dita e intrecciarle con le sue.

- Va bene - sussurro, prima di poter scuotere di nuovo la testa e lasciare che il buonsenso abbia il sopravvento. È solo ballare. Non è niente di male. E poi forse ne ho bisogno.

- Non voglio niente in cambio. Né baci né altro - aggiungo un secondo dopo, vedendo il suo sorrisino malizioso mentre ci dirigiamo verso la pista da ballo, illuminata di rosso.
Per un attimo ancora la mia mente cerca di opporsi, e mi chiedo cosa diavolo io stia facendo, poi lui mi prende tutte e due le mani e mi sorride, facendo sciogliere qualsiasi mio dubbio in una pozza di felicità indefinita.
Adesso siamo in mezzo alla gente e alla luce, le luci illuminano il suo viso in due metà, una arancione e l'altra verde-azzurro. Sento il calore dei corpi dondolanti su di me, mi opprime, ma le sue mani mi danno il respiro, mi fanno sentire vivo.
Mi attira a sé dolcemente e mette una mano sul mio fianco senza nessun genere di imbarazzo, mentre con l'altra mi sta ancora stringendo le dita. A un ritmo abbastanza veloce, ondeggiamo, facendoci spazio a malapena tra gli altri clienti: sono costretto ad appiccicarmi a Brendon, per avere almeno aria da respirare, e la cosa provoca immediatamente una scossa di piacere e orrore che pervade tutta la mia schiena con un movimento schioccante. Non sento nemmeno la musica, riesco solo a percepire la mia testa che gira e la presenza di tante persone attorno a me, cosa che odio, subito dopo il caldo soffocante e il lieve strato di sudore che si è depositato sul mio corpo, e infine l'odore forte e inebriante del profumo da uomo di Brendon. Incredibilmente, mi accorgo che usa esattamente quello che comprava quando eravamo nella stessa band. Annuso ancora, senza riuscire a trattenermi, ricordando quanto mi piaceva immergere il viso sul colletto della sua camicia: inspiravo la fragranza, e intanto la mia bocca si posava sul principio del petto per baciare delicatamente la sua pelle. Mi viene naturale farlo anche ora, senza nemmeno rendermene conto: piano piano, volto la testa verso il suo viso, in modo che le nostre labbra si trovino quasi a combaciare, poi la abbasso per raggiungere il suo collo e scivolare verso il primo bottone, ma per fortuna a quel punto decide che dobbiamo cominciare a muoverci sul serio, e, togliendomi le dita calde dal fianco, mi riporta bruscamente alla realtà. 
Stringendomi ancora l'altra mano, si allontana da me, facendomi cenno di fare lo stesso, poi mi invita a piroettare con un gesto del dito, e io, timidamente, scuoto la testa, vergognandomi più che mai.

- Andiamo, principessa - mi grida, per sovrastare la melodia che ancora non riesco a sentire. 
Ho l'impressione di rimanere immobile, eppure dopo due secondi in cui mi sento pietrificato, mi ritrovo a girare su me stesso, mentre Brendon mi sta avvolgendo, mano a mano, in un abbraccio bollente e profumato.

- Sei bravissimo - sussurra al mio orecchio, prendendo entrambe le mie mani fin troppo velocemente e spingendomi all'indietro subito dopo, con un movimento deciso. Improvvisamente, da saldo che ero, mi sento cadere. Muovo le mani nel tentativo di reggermi a lui, ma adesso sono vuote. Chiudo gli occhi, preparandomi a cadere proprio davanti ai suoi occhi e a sentire le risate generali di tutti, ma mi fermo a poco più di mezzo metro dal pavimento: appena sbatto le palpebre, Brendon è sopra di me, con un braccio avvolto dietro la mia schiena e l'altro che mi accarezza lo zigomo.

- N-no - balbetto, arrossendo, tirandomi in piedi bruscamente e cercando una via d'uscita da quel turbinio di gente, luci e alcol. 
La testa mi gira troppo per vedere la porta, riesco solo a distinguere la figura di Roger che mi fissa con attenzione e poi di nuovo Brendon, che mi si para davanti con un sorriso piccolo, con gli occhi di chi si vuole far perdonare:

- Scusa... non volevo spaventarti - mormora, mentre in sottofondo sento un battere di mani ritmico e compatto. Mi prende per le costole, e mi riavvicina a lui, fissandomi le pupille, rapito. Le sue sono lucide, brillano come due diamanti, forse perchè ha bevuto.

- Non è niente... solo, non farlo, okay? - biascico, abbassando lo sguardo, imbarazzato, pregando che mi prenda il viso e infranga il mio divieto, sperando che mi lasci stare, che mi porti a casa sua, che esca e non si faccia vedere mai più, che mi implori di scappare con lui, via, lontano. 

- Va bene. Però... tu puoi guardarmi? Ti prego. Ho... ho davvero bisogno che mi guardi, stasera. Dico sul serio - sussurra, mentre, involontariamente, siamo finiti vicino al centro della pista da ballo. 
Sollevo lo sguardo, e lo pianto nelle sue pupille. Devo mordermi la guancia per non lacrimare. Tutte le canzoni del suo nuovo album, quello appena uscito, mi rimbombano nella testa, forse perchè in questi giorni le ho ascoltate troppo, forse perchè sono state il sottofondo delle mie lacrime e delle mie risate. Forse semplicemente perchè sono cantate dalla sua voce.

- Grazie - dice, dopo un po' di silenzio, sorridendomi in quel suo modo ubriaco e dolce. 

- Di niente - sento delle lingue che scottano come fuoco salire per l'ennesima volta lungo le mie guance, mentre riprendiamo a ballare. 
Finalmente la dimensione ovattata in cui sono chiuse le mie orecchie sembra bucherellarsi, e comincio a sentire della musica: sembrano i Green Day anni novanta o qualcosa del genere. Brendon balla benissimo, nessuna delle sue mosse sembra banale o scontata, rigida, anzi: è sinuoso e quasi fluido, snodato. Mentre mi fa fare una giravolta, di nuovo, lo vedo muordersi le labbra, come se si stesse veramente scatenando. Fa sempre così: per lui ballare è come cantare, ci deve mettere tutta la voce, tutto il corpo, altrimenti non è contento. Se c'è una persona che non sopporta di produrre solamente silenzio, quello è lui.

- Sei bravo - dice, sorridendo, mentre giriamo insieme. Il pavimento si alza e si abbassa ai miei occhi, tutto è illuminato di un fucsia che mi brucia gli occhi. Eppure trovo ancora la forza di ridere, mentre lui si agita facendo vibrare il ciuffo di capelli castani e invitandomi a muovermi e insegnandomi piano piano le basi - anche se so benissimo che tutto il divertimento che sto provando è solamente effetto dell'alcol, sentirmi così leggero per un po' mi fa bene. 

- Lo dici per compassione? - ridacchio, mentre lui fa un paio di passi inimitabili, da solo, e io lo guardo incantato. E' rimasto sempre lo stesso: esuberante, sicuro, divertente. E' rimasto la persona che amavo. 
Che amo.

- Nooo - trascina un po' troppo la o, e scuote la testa, poi mi invita ad avvicinarsi di nuovo a lui arricciando un dito. 
Senza rendermi conto veramente che siamo entrambi ubriachi fradici e forse dovrei andarmene, nel pieno del momento in cui la malinconia iniziale dei cocktail si trasforma in elettrica euforia, ridacchiando, avanzo, urtando un uomo con un bicchiere di champagne pieno a metà. Per non inciampare, mi aggrappo al colletto della camicia scura di Brendon, i nostri visi finiscono troppo vicini.

- Ops - non riesco a trattenere un risolino nervoso, ma non mi allontano, non ancora. Quando capisco di essere rimasto troppo tempo a guardarlo, rapito, lentamente lascio che le mie dita scorrano sulla sua giacca e poi ricadano ai miei fianchi.

- Ti va qualche shot? - domanda, a bassa voce, guardandomi con un desiderio nuovo. Il suo volto si sfoca, ma le sue labbra sono belle e vicine, l'unica cosa che vedo chiaramente: rosse e non troppo grandi, appena bagnate di saliva. Probabilmente, visto il mio gesto di pochi secondi fa e le mie risatine, sta pensando che, se mi farà ubriacare abbastanza, mi concederò a lui più facilmente: sono abbastanza sobrio per decifrare il suo sguardo, ricordo il significato di ogni sua minima espressione. E l'ultima che ho visto dipinta sul suo viso, anni fa, era terribilmente fredda, velata di una malinconia che solo io potevo capire, la tristezza unica e speciale di due persone che si amano e vedono il loro sogno spezzarsi.
Non voglio che mi lasci ancora così, di nuovo, dopo una nottata nella quale non sarei nemmeno sobrio abbastanza per fare quello che veramente voglio. 
Così scuoto la testa:

- Devo... adesso devo proprio andare - chiudo gli occhi e mi concentro di più sulle mie parole, mandando giù il groppo in gola.
E' ancora vicino a me, così vicino che sento il suo respiro mischiarsi con il mio, vedo una minuscola gocciolina di sudore che parte dall'incavo della clavicola per scendere lungo il suo petto. Mi perdo nella sua pelle, quei minuscoli dettagli che qualche anno fa davo per scontato fosse mio e mio soltanto: i nei, le pieghe e le ossa che spuntano, i muscoli che prima non aveva. In un attimo, mi chiedo se anche Sarah li ha notati, se li ama tanto quanto me, se glieli accarezza come facevo io, ogni sera, quando vanno a dormire. 

- Dai. Solo uno... - mi implora, prendendomi per entrambe le mani. La gente attorno a noi continua a ballare come se niente fosse, mentre io sento il mondo crollarmi addosso.

- Ma è tardi... non hai qualcuno che ti aspetta, a casa? - domando, anche se so benissimo che lui non abita affatto qui. Non so nemmeno perchè sia a Chicago, sinceramente, o se ci sia anche Sarah con lui. E se fosse in questa sala, se lo stesse aspettando e lui se ne fosse scordato, tanto è ubriaco? Mi guardo attorno, terrorizzato, ma subito dopo sento la mano di Brendon prendermi la guancia, per farmi voltare di nuovo verso di lui, e dimentico ogni buon proposito:

- Non sono di qui - sorride, mordendosi il labbro - Hai presente i Panic! at the Disco

Annuisco, anche se vorrei gridargli in faccia che certo, ce li ho presente, perchè io sono Ryan, si ricorda, si ricorda, di me? La prima persona alla quale ha promesso un amore per l'eternità, quel ragazzino timido e impacciato che lui teneva sempre per mano alle feste, quello con cui si addormentava in tour, quando riusciva a convincere il manager a darci la stanza insieme. 
Dio, mi sta venendo da piangere.
Vorrei urlargli tutte le cose che abbiamo fatto, tutto quello che ci siamo detti, vorrei fargli sentire di nuovo ogni singola carezza, ogni singolo bacio, vorrei chiedegli se anche lui a volte mi pensa, se le cose sono cambiate, tra noi, oppure se sono rimaste uguali, e se sono rimaste uguali e non abbiamo smesso di amarci perchè stiamo lontani, vorrei dire che mi fa male, ogni secondo in sua assenza è una lama che mi trapassa da capo a piedi, e che Jon era solo un amico, Jon mi ha lasciato, e che quando mio padre è morto ho avuto quello di cui avevo più bisogno, perchè lui mi è stato vicino più di qualsiasi altra cosa, che mi manca, che di notte lo cerco ancora e ogni mattina è una delusione. Improvvisamente l'euforia passa di nuovo, e sento le lacrime salirmi agli occhi in un moto pericoloso e senza freno. Sbatto le palpebre, ma continuo a rivederlo mentre mi stringe, mi guarda, mi ama, mi odia. 

- Ecco, diciamo che sono in tour - sta valutando la mia reazione, sbircia di sottecchi ogni mia mossa. 
Ma tutto quello che faccio è rimanere immobile, a reprimere le lacrime.

- Wow. Be'... - ho la gola secca, pulsa per il pianto che ho trattenuto - Fico.

Non c'è un minimo di entusiasmo nella mia voce. Solo dolore. Puro, tanto che potrebbe quasi essere confuso con odio.
Ma lui non se ne accorge, oppure finge di non farlo. Rimaniamo in silenzio. Se c'è una cosa peggiore che dirsi addio, è farlo due volte. Io gli volterò le spalle. Gli dirò ciao. Non sorriderò. Mi metterò le mani in tasca e uscirò dalla stanza in cui siamo. E so che non lo rivedrò mai più. Per la seconda volta.

- Allora, non lo vuoi proprio, lo shot? - sorride, cercando di convincermi e di scacciare quel lieve strato di freddezza che si è depositato su di noi tutto d'un colpo.
Mi viene da piangere.
Sento già le lacrime che rigano il mio viso, e non voglio, ma devo.

- No, non posso... non posso... - lo ripeto continuamente, eppure non mi muovo, so che deve dire ancora qualcosa. Qualcosa che forse potrebbe farmi rimanere qui ancora un po'.

- Dai. Uno... - mi prende per entrambe le mani, trattenendomi, con l'ennesimo sorriso irresistibilmente sbronzo, poi comincia a trascinarmi verso il bancone, ridacchia e ordina non due, ma quattro shot.
So che la situazione mi sta sfuggendo di mano.
Ma, forse perchè sono ubriaco, forse perchè sono innamorato, detesto e adoro fare resistenza e poi lasciarmi persuadere da lui, detesto e adoro che mi implori di rimanere ancora un po', di ballare, che faccia quel sorriso tra il flirt e l'implorare. Detesto che mi faccia del male in questo modo, adoro che sia lui a farmelo, adoro sentire questa sofferenza nel cuore, perchè è l'unica cosa che mi dice che lo amo ancora.
Lo odio, mi sta venendo da piangere e dovrei andare a casa, dovrei andare a casa adesso.
Lo amo, ho voglia di ridere con lui e passare la notte tra le sue braccia.

Gli shot arrivano dopo qualche secondo, insieme a Roger, sfocato, che mi guarda con un sorrisino enigmatico al quale non faccio nemmeno caso. Brendon butta giù il primo tutto d'un fiato, senza esitare, poi mi fissa con un sopracciglio inarcato:

- Serviti, dolcezza. Tutto d'un fiato, mi raccomando - mi passa il bicchierino, appoggiando un gomito al tavolo e stringendo una delle mie mani, in un gesto tenero che viene annebbiato dal sapore forte del rum. 
Tossicchio, dopo aver bevuto il primo quasi in un solo sorso, poi sento la sua risata e comincio a ridacchiare anche io, completamente ubriaco. Non ricordavo più come fosse l'alcol. Quel misto inspiegabile di pianto irrefrenabile e risata sguaiata, di angoscia e divertimento, terrore ed eccitazione estrema. 
La testa mi gira sempre di più, le persone si muovono prima troppo velocemente, poi a rallentatore, inebriandomi di un senso di piacere strano e nuovo. Le risate, i vestiti corti, le ragazze in intimo, le figure che si muovono sinuosamente sui tavoli... quando bevi, tutto questo è semplicemente irresistibile.
Scolo il secondo di filata, insieme a Brendon, ridiamo per niente e siamo vicini, lui mi accarezza la mano e poi la coscia, io, ridacchiando, gliela tiro via e gli tiro uno schiaffo che lo lascia senza fiato, poi ridiamo ancora, perchè non pensavo di averglielo dato così forte e adesso mi sto scusando con una carezza, stupito:

- Nooo, scusa - continuo a ripetere, ridendo e cercando di non fare caso al rossore sul suo zigomo, mentre il suo viso si contrae per il dolore e le risate sghignazzanti.
Dopo poco sono io, per la prima volta in tutta la serata, a ordinare ancora: due tres ronesSorprendentemente, i sei bicchieri** arrivano con capacità doppia, al posto di quelli più piccoli che avevo chiesto, ma Brendon comincia a bere, e io lo imito. 

- Sei carino, quando ridi - dice, dopo un po', a metà del secondo shot, quello al rum dorato, per poi finirlo con un gesto teatrale. 
Arrossisco, anzichè ridere, e riesco solo a balbettare un confuso:

- Oh... grazie... 

Confuso, sento il mio braccio allungarsi per toccargli la giacca.
Cosa sto facendo?

- Anche la tua giacca è bella - biascico, con un sorriso ebete, accarezzandola piano.
Riprende a ridere, e anche io, e beviamo ancora. Con l'ultimo bicchiere, Brendon si bagna la camicia, dato che ha bevuto troppo per riuscire a capire anche solo dov'è la sua bocca.

- Cazzo - impreca, strabuzzando gli occhi.

- Peccato... era bella... - commento, finendo di bere il mio terzo shot.
Ridacchia:

- Secondo te c'è una lavanderia aperta? - chiede.

Mi guardo intorno, ma non trovo l'orologio, o forse è una macchia sfocata come il resto delle cose. 

- No, è tardi... 

Nel momento stesso in cui lo dico so che adesso è ora di andare a casa. Per davvero. Ma non voglio, voglio stare qui, con lui, a bere finchè non ci addormentiamo. Forse se sono abbastanza incosciente posso passare una notte con lui.
Rabbrividisco, cercando di riprendere autonomia, e scacciare il velo di nebbia che l'alcol ha messo sul mio cervello. Questo non è Ryan, e lo so, ma averlo per qualche ora adesso mi sembra così allettante...

- Posso... posso smacchiarla a casa tua? Abiti lontano? - domanda, sorridendomi innocentemente.
Inarco un sopracciglio, dubbioso. So benissimo che è un pretesto. O forse lo sta dicendo perchè è completamente ubriaco. Decido immediatamente di credere a quest'ultima ipotesi, senza che il mio cervello possa pensarci su: Brendon è l'unica cosa al mondo sulla quale non ho mai dovuto esitare, sulla quale non ho mai riflettuto veramente, mentre lo avevo tra le mani. Ed è fottutamente terrorizzante, eppure mi libera da un peso enorme, quello di essere obbligato a valutare ogni possibilità. 

- Non lo so...

- Hai una moglie? Una ragazza? - chiede, aggrottando un sopracciglio - Giuro che non farò niente. Le dici che sono un tuo amico...

- No, non è quello, in casa adesso non c'è nessuno...

- Adesso? - mi interrompe, dubbioso.

Prendo un bel respiro:

- Sono sposato - spiego, mentre un altro ricordo si sovrappone alla realtà.
Gli inviti con la scritta "come mio migliore amico, sono felice di invitarti al mio matrimonio...", quelli che ho buttato dieci volte nel cestino, e dieci volte li ho tirati tutti fuori, uno ad uno. Alcuni sembravano più una lettera che un invito, altri erano di poche righe. Tutti per lui.

- Oh. Anche io - biascica.

Lo so.

- Ah.

Silenzio, quello di quando gli ubriachi hanno finito le battute divertenti e le risate e fingono di non sapere che dopo ci sarà solo pianto.

- Quindi qual'è il problema? - domanda, atono.

- E'... è tardi, e poi... ci siamo conosciuti stasera, forse... forse faresti meglio a tornare dal tuo manager... - farfuglio, ma intanto il suo viso si è avvicinato ancora al mio.
Rimango immobile, senza respiro.

- Ti prego... sono cinque minuti. E se il mio manager vede che ho sporcato quello che dovrei indossare domani sera al concerto mi fa il culo. Devo solo smacchiarla...

- Per smacchiare ci vuole tempo.

- Poco. 

- Io...

- Dai... e poi non puoi andare da casa da solo, non stai nemmeno in piedi - si alza, deciso, invitandomi a fare lo stesso.
Sbuffo, scendo dallo sgabello e all'improvviso il pavimento gira vorticosamente. Lo guardo, con le mani irrigidite per lo spavento, e in pochi secondi mi ritrovo tra le sue braccia. Sorride, trionfante:

- Non voglio che ti faccia male. 

- Sono capace... posso camminare... - balbetto, mentre le mie ginocchia mi reggono a stento. Le tempie cominciano a pulsarmi: devo andarmene, devo andarmene ma le sue braccia sono qui per me, e, Dio, quanto vorrei che fosse per sempre.

- E invece no, non ci riesci, da solo - ribatte, sorreggendomi.
All'improvviso ho paura. Forse di quello che potremmo fare, che potremmo essere. Ho paura, questa notte, di accorgermi che la scelta che ho fatto è insopportabile. Fino ad adesso ho pianto, ha fatto male, ma non ho mai considerato la vita con Elizabeth qualcosa di terribile. Lei mi vuole bene, tutto sommato, e anche io gliene voglio. Ma stare con lui, anche solo per qualche altra ora, potrebbe cambiare ogni cosa.

- Non ho... non mi serve aiuto - il labbro inferiore mi trema. 

- Perchè hai paura di ammettere di avere bisogno di qualcuno? - sussurra, accarezzandomi piano, al principio del collo.

- Perchè so cosa vuoi, e non sono una di loro - indico le ragazze in intimo che ballano sui tavoli. 

- Non sono uno stupratore, merda! - esclama, ridendo - Sei carino, e mi piaci davvero tanto, zuccherino, ma non ti farei mai del male. 

Sospiro, spazientito. Ha capito perfettamente qual'è il problema, ma vuole farmelo dire. Vuole farmi ammettere che non potrei resistergli nemmeno se lo volessi con tutte le mie forze, se solo mi toccasse di nuovo, se solo mi stringesse a sè e mi appoggiasse sul letto. Perchè lo amo. 
Non mi riconosce.
Eppure allo stesso tempo sta associando a me delle cose riguardanti Ryan Ross, il Ryan Ross che non sa nemmeno di avere davanti. 

- Dai, la smacchio e me ne vado. Giuro.

- Non puoi giurare.

- E invece sì. 

- No - ridacchio, a mio malgrado, davanti alla sua ostinazione inutile.

- Va bene. Allora facciamo così. Non farò niente contro la tua volontà. 

Respiro.
Non dovrò nemmeno guardarlo in faccia, quando lo manderò via.
Non gli dirò il mio nome.
Non farò niente che non sia una stretta di mano. 
Niente. 
Dopo griderò il suo nome per sempre, chiamandolo dall'inferno della mia stanza, e ogni mattina, quando andrò in bagno, penserò che anche lui è stato nella mia casa, una notte, quando abbiamo bevuto insieme e non mi ha riconosciuto. 

- Okay - sussurro.

- Davvero? - chiede, con un sorriso sincero.

Annuisco:

- Sì... ma devi aiutarmi a stare sul marciapiede... - barcollo, lui, da dietro, mi prende le mani e all'improvviso sento tutto il caldo del locale, afoso e appiccicoso, trasformarsi nel suo profumo e in un imbarazzato tepore che mi pervade da capo a piedi:

- Grazie - mormoro.

- Di niente, principessa - sorride, poi mi conduce verso l'entrata, la spalanca con un gesto teatrale che mi fa ridere di nuovo per l'imbarazzo e poi mi prende la mano, mentre usciamo sull'asfalto bagnato. 

Piove a dirotto, e nessuno dei due ha un ombrello. Mi sistemo il cappello, come per rassicurarmi, rimanendo con lui sotto il tettuccio oltre il quale l'asfalto dismesso è pieno di pozzanghere.

- Ti fidi di me? - chiede, facendomi l'occhiolino.

- Dipende - sorrido, mentre mi mordicchio compulsivamente il labbro - Mi dovrei fidare riguardo a cosa?

- Riguardo a fare qualche piccola, divertente, cazzata - annuisce, soddisfattto.
Mi ricorda tanto quando stavamo insieme. Incredibilmente, è rimasto la stessa identica persona. Ed è orribile, perchè pensavo - anzi, ero convinto, che è decisamente peggio - che nella vita c'è solo un amore vero (quello che puoi definire come primo, anche se non lo è quasi mai), e che per amare una persona diversa da quella che vorresti davvero, devi per forza cambiare in modo irrimediabile. Io sono cambiato. Per stare con Elizabeth, ho dovuto eliminare alcune parti di me, tirarne fuori altre che in realtà non ho mai avuto. Con Brendon, ad esempio, ero io quello bisognoso di protezione, ero io che trovavo riparo, e quello mi piaceva: in quel personaggio più timido e riservato, più debole, mi sentivo a mio agio, quando era lui a baciarmi e non il contrario, o quando io arrossivo e lui, sicuro di sè, faceva qualche riferimento assurdo alla nostra relazione nelle interviste, che chiunque avrebbe potuto capire. Con una donna è diverso. Devo essere io l'uomo. Devo essere io ad abbracciarla, a baciarla, a farla sentire bella, a sussurrarle i complimenti, a chiederle se vuole fare l'amore. E' un ruolo che semplicemente non mi riesce. Non posso essere forte, perchè non è nella mia natura, e ho bisogno di qualcuno che lo sia per me, qualcuno che riesca a sostenermi. 
Forse è per questo che Brendon invece non è cambiato affatto: è sempre stato lui quello deciso, quello che mi provocava, che mi stringeva e che mi consolava. Quello che, mentre ero sdraiato nel letto in un mutismo ostinato a disperarmi per la morte di quel padre che mai mi aveva accettato, rimaneva lì accanto ad accarezzarmi e mi costringeva a mangiare, che mi faceva addormentare con la sua voce, che mi asciugava le lacrime con il pollice. 

- Non so - storto il naso, ritornando improvvisamente alla realtà. 
Mi gira la testa, e voglio solo andare a casa, adesso. Pioggia o meno. 

- Lo prendo per un sì, allora - improvvisamente, con la mano stretta nella mia, scatta in avanti, correndo sotto la pioggia, e mi costringe a seguirlo, incespicando, attaccato a lui. Strillo, mentre una quintalata di acqua ghiacciata improvvisamente mi bagna da capo a piedi, ma lui, per tutta risposta, aumenta la velocità, obbligandomi a seguirlo, stringendo le mie dita ancora più forte per non lasciarmi andare.

- Siamo ubriachi! - grido, mentre l'asfalto continua a girare sotto di me, in giri vorticosi e confusi, irregolari - Siamo ubriachi e stiamo correndo in mezzo strada! Hai idea di quanto cazzo sia...

- Pericoloso? - ride, guardandomi negli occhi - Forse. 
Lui è questo.
E' il coraggio che non ho mai avuto. Era quella sola cosa che mi obbligava a divertirmi, di tanto in tanto. Non sono mai stata una persona molto sciolta. Prima di fare una cosa, penso sempre a cosa ne direbbero gli altri, e questo la maggior parte delle volte mi blocca. Lui è esattamente l'opposto. Se ne frega di tutto e di tutti, non gli importa cosa dirà il pubblico o il suo migliore amico, lui lo farà. E ci rifletterà solo dopo un po'. E' impulsivo, testardo. 
Io riuscivo a frenarlo quando andava incontro alla rovina, lui riusciva a convincermi a ballare, o a fare qualche pazzia come quella che stiamo facendo adesso, e mi faceva sentire bello, libero, mi faceva respirare dal mio cervello per un po'. 
Era lui che mi spingeva a truccarmi come volevo, per andare in scena: io avrei desiderato molto farlo, ma avevo una paura folle del giudizio delle persone, dei miei amici, dei miei genitori. A volte, persino di Jon e Spencer. Passava dal mio camerino ogni mattina, prima di un concerto, e mi obbligava a fargli vedere cosa avrei voluto fare sulla mia faccia quel giorno, poi, una volta che mi ero messo il trucco di prova, mi dava un bacio sulle labbra, mi diceva che ero bellissimo. La sera passava ancora dalla mia stanza e mi sussurrava nell'orecchio qualche incoraggiamento; le prime volte era lui stesso a mettermi la matita in mano e a convincermi che dovevo farlo, per essere me. 

Ad un tratto rido, insieme a lui, ricordando quel senso di gioia che mi dava in ogni suo gesto, sorriso, quando mi faceva sentire amato, protetto.
Brendon mi tiene la mano, mi guarda, felice, e la nostra risata si sparge per tutta la strada. Lo conduco fino a casa, dove arriviamo fradici e ansimanti, instabili sulle nostre stesse gambe, mentre le nostre ginocchia ballano e ci teniamo in piedi a vicenda barcollando vistosamente. Apro il cancello, attraversiamo il giardino indugiando l'uno sulle dita dell'altro e infine entriamo in casa, lasciando impronte bagnate sul parquet chiaro. Accendo le luci del salotto e gli faccio cenno lasciare la giacca sul divano, mentre anche io tolgo la mia e la appoggio accanto alla sua, assieme al mio cappello.
Sorrido, a mio malgrado, mentre faccio tutto questo e lo vedo guardarsi intorno, in quella che potrebbe essere la nostra casa. 

- Ti sei divertito, ammettilo - mi dà una pacca sulla spalla, mentre lo guido verso la lavanderia, una stanza chiara che profuma di bucato, minuscola e essenziale.

Prendo lo smacchiatore, guardando attentamente i diversi flaconi. In genere è Elizabeth a pensare a queste cose, ma queste due settimane ha alcune conferenze economiche importanti per il suo lavoro in banca a San Francisco, e io sono rimasto a casa con la scusa del nuovo (e del tutto inesistente) progetto da solista.

- Forse - sorrido appena, poi mi volto, aspettandomi di trovare la camicia pronta davanti a me, ma mi accorgo che per darmela dovrebbe toglierla. Arrossisco, lui mi guarda aspettando che glielo chieda, mordicchiandosi distrattamente l'unghia dell'indice in quel modo innocente che so essere del tutto simulato.

- Ehm... potresti... toglierti la camicia? - domando, tutto d'un fiato, balbettando appena. 
Vorrei sprofondare nel pavimento appena finisco di formulare la richiesta, ma lui non mi aiuta affatto:

- Cosa? Non ho capito - arriccia il naso, storta la testa verso destra e unisce le labbra per formare un cuore appena visibile. 

- Non è divertente! - sbotto, rosso e accaldato, incrociando le braccia al petto.
Mi accorgo che i sensi, da che erano completamente inebetiti dall'alcol, si sono acuiti più del normale. Sento il suo sguardo sulla mia pelle in una maniera che mi è quasi nauseante, noto ogni piega delle sue labbra, percepisco il calore di noi due, vicini.

- E invece lo è, eccome - sorride, ma alla fine comincia a slacciarsi la camicia, bottone per bottone, con una lentezza esasperante. Le sue dita sono precise, anche se ha bevuto così tanto, e non tremano affatto per la vergogna come farebbero le mie in una situazione come questa. Dopotutto, non mi ha nemmeno riconosciuto, dovrei essere un perfetto sconosciuto, per lui. 
Rimane a petto nudo dopo quelle che mi sembrano ore: il suo torace è abbastanza muscoloso, ma rimane sempre asciutto e snello come una volta, perfettamente proporzionato. Ogni spazio, sul suo corpo, sembra ordinato con una precisione sovrumana: i capezzoli sono a equivalente distanza dallo sterno, le costole sporgono ma non troppo, i pantaloni lasciano intravedere l'inizio del suo inguine, due righe ben delineate, e l'ombelico è piccolo, esattamente al centro della pancia. 
Solo quando mi sventola la camicia a due millimetri dalla faccia mi accorgo che lo sto fissando da un bel po', così la prendo, di scatto, e mi giro prima che possa vedere che di nuovo sto andando a fuoco. Sento le palpebre bruciarmi fastidiosamente, ma cerco di non farci caso e comincio a concentrarmi fin troppo sul metodo per smacchiare l'indumento il più presto possibile. Spruzzo un po' di schiuma bianca smacchiante, poi stendo la camicia sopra la lavatrice e biascico, piano:

- Dovremo aspettare almeno mezz'ora, anche se non so se la macchia verrà via molto facilmente... - guardo ancora la camicia, senza voltarmi nemmeno per un secondo, stirando le maniche per prendere tempo e cercando di raffreddarmi un po' prima di girarmi ancora verso di lui. Sta cominciando a fare troppo caldo. 
Prendendo un bel respiro mi giro, dato che ormai ho esaurito il tempo a disposizione per cercare di calmarmi. All'improvviso è dannatamente vicino a me, il suo viso è a meno di dieci centimetri dal mio. Mi aggrappo con entrambe le mani alla lavatrice, dietro di me, seguendo il mio istinto naturale, mente il mio petto quasi sfiora il suo. Non c'è più aria, tra noi.

- Ti metto in imbarazzo? - domanda, piano, guardandomi con un sorriso a metà tra il divertito e il sensuale.

- N-no - deglutisco, abbassando gli occhi. Sento le guance accendersi in meno di mezzo millisecondo. 
Ma non è solo imbarazzo, è anche tristezza.
Deglutisco, confuso da tutte le sensazioni che mi ha trasmesso stasera. Passa dal farmi paura al farmi divertire, e poi al farmi diventare triste al farmi sorridere, e ancora al farmi arrabbiare al farmi venire voglia di andarmene con lui, il tutto con una facilità che mi disarma e mi lascia di fronte all'unica conclusione che potrei fare: lo amo. 
Ancora adesso.
Ancora, dopo tutti questi anni.
Ancora, dopo tutta la tristezza e la rabbia del mondo.
Ancora, dopo l'odio, dopo la vita, dopo l'amore, dopo la morte, dopo il tempo di tutti questi anni, dopo il matrimonio, dopo la freddezza e la finta amicizia, dopo il distacco, dopo il dolore, dopo la malinconia, dopo tutto c'è ancora l'infinità di noi due. 

- Dici queste bugie anche a tua moglie? - ridacchia, avvicinandosi un po' di più.
Scuoto la testa, ma non per rispondere alla sua domanda:

- Fermati - sussurro, mentre ancora sto muovendo il viso a destra e a sinistra, terrorizzato.

- Non voglio - sorride, come se non potesse farci niente.
E quel sorriso è la cosa più pura che potrei avere ora.
Non trovo niente da dire. Il nodo che ho in gola si serra sempre di più. 
Sento il bisogno di piangere accanto a qualcuno, accanto a lui, ora.

- Non puoi farlo... non possiamo farlo - mormoro, guardandolo appena negli occhi, senza respirare.

Non sono più sicuro di niente. Non sono più sicuro di ciò che voglio, del fatto che mi abbia o meno riconosciuto, di chi amo, di ciò che è giusto e sbagliato, di lui, di me, del mondo intero, non sono più sicuro di volerlo allontanare, e nemmeno di farlo rimanere. 

- Questo è quello che ti sta dicendo la gente, il mondo, la giustizia, la società - mi risponde, sottovoce - Tu cosa vuoi? Ho detto che non farò niente contro la tua volontà, e manterrò la promessa. Dimmi cosa vuoi che io faccia. E lo farò.

Non rispondo, con il cuore che batte a mille. E' chiaro cosa voglio.
Due lacrime scendono contemporaneamente dai miei occhi, lui ne asciuga una.
Dopo qualche secondo, prende il controllo, fa quello che entrambi vorremmo ma che io, per l'ennesima volta, non ho l'ardore di iniziare. Non mi abbraccia nemmeno. Si limita a fare quello che deve: spinge le labbra contro le mie, forte, senza alcun tipo di delicatezza, quasi con violenza, l'acidità della lontananza sprigionata da quel contatto è fatale. È come un'esplosione catastrofica, di quelle che vedi nei film: senza alcun suono, eppure così violentemente sonora, nella tua testa, con tutto quel fumo denso, grigio scuro e spettacolare, che ti strappa un brivido di terrore e di stupore insieme. Mi lascia senza respiro, atterrito; non riesco a capire nemmeno come facciano le mie gambe a sopportare ancora il peso di tutta quell'emozione, poi mi accorgo che sono le sue mani che reggono i miei avambracci, tremando per lo sforzo.
Recupero il controllo delle mie ginocchia velocemente, barcollo, ma almeno riesco a restare saldo. Tiro su con il naso, mentre la sua bocca si separa dalla mia per qualche secondo. Lui singhiozza, piano, guardandomi con gli occhi che scintillano, nel buio della notte, poi, finalmente, spalanca le braccia e mi stringe forte. Non scappo come vorrei. Mi rannicchio sul suo petto, aggrappandomi con tutta la forza che ho al suo collo, ancora bagnato per la pioggia. 

- Oh mio Dio - è l'unica cosa che riesco a dire, con tono quasi disgustato, rotto, mentre piango in silenzio addosso a Brendon. Non dovrei essere qui con lui. 
C'è un vuoto rassicurante, adesso, fatto solo del rumore dell'acqua, fuori, e dei nostri corpi caldi e fradici a contatto. Vorrei rimanere in questa dimensione per sempre. E' tranquilla. 

- Ryan - dopo qualche secondo di silenzio mormora il mio nome, sistemandomi un ciuffo di capelli e accarezzando le mie guance rigate di nero, per il trucco che sta mi sta colando sul viso a causa del pianto.

- Come hai fatto a riconoscermi? - domando, con gli occhi lucidi, sfiorando la sua bocca con la mia.

- Vaniglia. Solo le tue labbra profumano di vaniglia in questo modo - mi bacia ancora, senza che io opponga resistenza, più a lungo di prima, facendo tremare il mio stomaco. 
Ogni contatto è una pugnalata, un pezzo della maschera del nuovo Ryan Ross che si sgretola, solo per questa notte. 

- Mi ricordo... - comincia, mordendosi le labbra, perchè è orgoglioso e non vorrebbe piangere, vorrebbe essere forte e coraggioso come è di solito - Mi ricordo che quando andavamo in tour e alle quattro del mattino lo staff ci portava qualcosa da mangiare, tu prendevi sempre il budino alla vaniglia. 

Tira su col naso, e alza la testa verso il soffitto:

- Dio. Sei tu, vero? - domanda, mentre le sue lacrime scivolano sui suoi zigomi e poi corrono sul suo collo, lente.

Annuisco, con un singhiozzo sordo. Sento gli occhi pizzicarmi, le mie lacrime annacquano ogni cosa tranne che lui, il suo viso, la sua pelle. 

- Al Dodger's stasera ho incontrato un ragazzo bellissimo, lo sai, Ryan? - finalmente mi stringe a sè, di getto, senza preamboli o passaggi intermedi, senza che io possa fare niente. Appoggio la testa al suo petto scoperto, ascolto il battito del suo cuore, caldo, rassicurante. 

- Gli ho offerto un drink - tira su col naso, asciugandosi il fretta gli occhi.
So che sta parlando di me.
Ma lo chiedo comunque, come un bambino, la voce sbriciolata dalla tensione:

- E cos'è successo, dopo?

Voglio che mi racconti la nostra storia, la nostra serata. Voglio sentire la mia voce che mi sussurra nell'orecchio fino a farmi addormentare di nuovo. Voglio sentire le sue mani che mi prendono gli zigomi e il suo sorriso su di me, le sue lacrime che si mischiano con le mie.

- Abbiamo bevuto e abbiamo ballato. Ed è stato bellissimo - singhiozza ancora, piano, ma le sue labbra si stanno increspando lievemente, nel modo triste di chi sa che ha perso qualcosa e non può recuperarlo. 

- E poi? 

- Il suo viso era vicino al mio. 

- Dopo?

- Abbiamo bevuto, ancora. Tanto. Ma non troppo. Troppo mai, non si riesce a fare, con lui. Ti contiene ancora prima che tu possa metterti nei cazzi. 

Sorrido anche io, tra le lacrime, anche se dentro sto urlando di dolore.

- Dopo ancora?

Pietà. Pietà per il nostro amore.
Chiedo solo questo, nel buio, piangendo, ridendo, ricordando.
Amando.
Odiando.

- Mi sono rovesciato addosso del rum apposta, per andare a casa sua con il pretesto di smacchiare la camicia - una pausa, si lecca le labbra perchè sono secche. 

La mia voce raspa contro la mia gola:

- E poi? Come... come è finita la storia? 

Prende un bel respiro, sento il tuo torace espandersi sotto di me:

- Il ragazzo... era il ragazzo che amavo, che amo. E che non vedevo più da tanti, troppi, anni. Ho avuto la mia seconda occasione, penso.

Silenzio.
Di nuovo, ci inabissiamo in una dimensione di ghiaccio e silenzio, acqua nera.

Vorrei tanto che le sue parole fossero vere. Lo vorrei con tutto il cuore.
Ma questa non è la nostra seconda occasione. Questo è semplicemente altro male che vogliamo farci. Un altro modo per amarci e poi distruggerci ancora, dicendoci addio. Posso sopportarne due, lo so per certo. Fanno male. Stasera, uscire, ha fatto male. Ma sarei andato a casa. Avrei pianto, è vero, ma sarei rimasto lì e avrei aspettato Elizabeth, avrei vissuto la mia vita insieme a lei e a lei sola. Avrei sopportato ogni singolo giorno. Ogni ora. Ogni secondo, passato senza di lui. 
Un terzo non potrei.
Mai.
Eppure eccomi qui.
Tra le sue braccia.

- Brendon, noi non... - comincio, ma poi mi fermo, perchè sto scoppiando in lacrime di nuovo. Voglio andarmene, voglio scappare. 
Forse insieme a lui. 
O forse rifugiarmi nella mia nuova vita, quella che ho adesso, con una moglie che mi vuole bene e niente da fare. So di non poter disintegrare tutto questo. 
E' semplicemente fuori dalla mia portata.

- No.

- Brendon.

- Questa notte non ti lascio andare, Ryan - tira su con il naso, poi lo sento piangere ancora, e stringermi più forte.

- Ma devi - insisto, senza riuscire a muovermi.
Mi sento come se dovessi lasciarmi morire di nuovo, come se dovessi lasciar morire questo Ryan. Il Ryan che ama, odia, Brendon Urie. Il Ryan che ne ha paura di giorno, però lo cerca disperatamente di notte, fino a che non fa così male che morde il cuscino e grida, grida, ma nessuno lo sente, perchè lui non vuole.

- Domattina - sussurra, accarezzandomi la testa, piano.

- Sarà troppo tardi.

- Forse.

- Brendon - per la seconda volta, dico il suo nome, disperato. 
Non voglio stare male.

- Solo una notte...

All'improvviso una rabbia insana si impossessa di me, voglio urlare, urlare e rompere una volta per tutte questo vetro, quel poco della vita che mi sono fatto dopo di lui, per fargli vedere il nero orrore che ho vissuto per poterla costruire:

- Ti odio, ti odio, cazzo, mi fai stare male! Sei un fottuto egoista! - picchio un pugno contro il suo stomaco, gridando, ma è debole e molle, non gli fa assolutamente niente - Pensi solo a te, e a quanto ti farà stare bene stare insieme, e non ti preoccupi nemmeno di lasciarmi in lacrime per giorni! 

Piango.
Di nuovo.
Non riesco più a fermarmi. 
Non può distruggerla, non può distruggere la mia nuova vita, non in una sola notte. 
Non dovrei permetterglielo.
Non dovrei permettergli di sbriciolare mia moglie, la mia casa, Chicago, gli Young Veins. 
Ma non riesco a oppormi.
Forse voglio solo che lo faccia.

- Ti amo, ti amo più di ogni altra cosa. Perchè pensi che io non sia stato triste, quando ci siamo lasciati? 

- Tu non capisci, io... Dio, non riuscivo nemmeno a mangiare. Gridavo e piangevo tutto il tempo, arrivavo in studio con i capelli scarmigliati e gli occhi rossi, nella nuova band. Urlavo nel microfono tutta la mattina e poi scappavo a casa per andare a letto dopo aver vomitato il pranzo che avevamo ordinato, non hai idea di tutto quello che ho passato, cazzo, per colpa tua, tua! - sento la gola che mi fa male, sto parlando troppo, senza quasi respirare.
Percepisco, in lontananza, la pioggia di fuori entrare, in un'illusione che può essere data solo dall'alcol, per poi confondersi con le mie lacrime, il brivido di quest'acqua che si unisce alla sua stretta, che non diminuisce affatto, anche se io continuo a dargli dei colpi debolissimi, sulle costole e sui fianchi, sfiorandolo appena.

- Cosa pensi che abbia fatto di tanto diverso, io? - chiede, senza rabbia, senza amarezza, senza acidità.
Io invece sono più odioso che mai:

- Sei andato avanti. Gli Young hanno chiuso, tu invece no. Guardati, sei in tour, hai una moglie e da quello che ho capito nelle interviste avete una vita molto felice, piena di nuovi amici. A rimediarti qualche uomo non hai problemi, mi sembra che con Dallon tu abbia già una certa affinità. Ma tanto è solo scena, non è così? Riesci a tenerteli entrambi, fare un nuovo disco, flirtare anche con il batterista dei Twenty One Pilots e sostenere un tour mondiale. Complimenti. 

C'è silenzio.

- Hai ascoltato il nuovo album? - chiede, piano.

Annuisco, anche se vorrei non averlo fatto.
Death of a Bachelor
Ho ascoltato ogni canzone, ogni parola, ogni rima. Ho ballato, ho pianto, ho gridato, l'ho buttato, l'ho recuperato all'ultimo minuto, l'ho spaccato tre volte e l'ho ricomprato altrettante. Ho cantato insieme a lui. Ho imparato le basi musicali come se da un momento all'altro Brendon avrebbe potuto chiamarmi e avere bisogno di me.

- Allora non hai capito le parole.

Lo dice lentamente, senza alcuna durezza, ma con la decisione e la spavalderia che bastano a lasciarmi vacillare.

- Invece sì - non mi arrendo, non ancora.
Sono troppo orgoglioso.
Forse è questo che ha mandato tutto a puttane. Il nostro fottuto orgoglio, quello che hanno tutti e che si affila mano a mano che ci addentriamo in qualcosa di serio.
Amare, avere una relazione che comprenda altro oltre al sesso... non è per le persone orgogliose.

- E invece no, visto che non ti sei nemmeno accorto che sono per te. Ogni cosa. Da quelle brutte, a quelle belle. A quelle arrabbiate, a quelle tristi. Tutto. Gli insulti, i complimenti, le parole di malinconia, quelle di addio, quelle di arrivederci, quelle che servono per conoscersi la prima volta, quelle che dici quando sei felice, quelle che usi quando fai sesso, quelle che usi quando fai l'amore, quelle che gridi quando sei incazzato, quelle che accompagnano il pianto, quelle delle ninnananne, quelle per le carezze. Persino i silenzi, erano i tuoi e i miei, i nostri. Ryan... tu hai ogni cosa di me. Ti amo abbastanza da poterti odiare. Ti odio abbastanza da poterti amare. Io... io... - gli si serra la gola, non riesce più a parlare e dalle sue guance scendono ancora alcune lacrime, che presto si moltiplicano fino a diventare milioni.

Adesso i miei occhi sono spalancati per lo stupore.
No. 
Ha ragione. Non ho mai ascoltato le parole. Non volevo, non potevo, non dovevo. 

- E' tutto sbagliato - riesco a mormorare solo questo.

- Cioè? 

- Siamo sposati con due donne.

Tira su col naso, poi sorride, annuendo:

- Infatti.

Silenzio, c'è la pioggia, la pioggia e le sue lacrime, che si mischiano di nuovo alle mie.

- Non capisco.

- Hai detto siamo sposati. Non che amiamo le persone con le quali stiamo. 

- Brendon...

- Non amo Sarah. Le voglio bene. E' carina. Ma lei non la odio. Non posso odiarla, ed è questo il punto, capisci? Non mi ha tutto. Solo la parte migliore.

- Quindi io ho ancora la parte peggiore? - a mio malgrado, rido, lasciando che le sue mani scivolino verso la mia vita.

- Tutta tua, Ross - sorride anche lui, adesso. 

- Allora forse ti amo anche io - mi mordo la lingua, per sentire ancora un vago sapore dell'alcol,
So che non dovrei dirlo.
Eppure è vero.
Lo sento appena le sillabe escono dalla mia bocca, sono la cosa più sincera che io abbia mai sussurrato in tutta la mia vita. 

Ricomincia a baciarmi, piano. Eppure c'è qualcosa di diverso. Questo bacio ha voglia
E' pericoloso, più sicuro di sè e dell'effetto che mi fa, eccitante. La sua lingua scivola nella mia bocca quasi senza che io la senta, e avvolge la mia, calda e sensuale.  
Scuoto la testa, terorizzato, ma non riesco a staccarmi:

- No... no... - mormoro, mentre sento il mio labbro inferiore tra i suoi denti e le nostre guance bagnate di lacrime che si sfiorano con dolcezza.

- Una notte. Solo una - mi prega, biascicando, stringendo il mio bacino con più ardore, mantenendo comunque la sua tenera delicatezza nel toccarmi.
"Sembra quasi che tu non voglia sfiorarmi" mi ricordo benissimo cosa gli avevo detto una delle prime volte che eravamo rimasti svegli tutta la notte, nel letto della nostra stanza, in tour; le sere passate a trattenere i gemiti e ad affondare i denti l'uno nella pelle dell'altro per non fare rumore. Ero rimasto meravigliato dal calore soffuso di quel tocco, ma soprattutto dalla sua cura per me, dalla grande importanza che avevo per lui.
"Non voglio romperti... sei piccolo, fragile" aveva sussurrato, baciandomi sullo zigomo. 
"Guarda che sono più alto di te" avevo ribattuto dopo qualche secondo. 
Aveva sorriso, di un sorriso caldo e bellissimo: "Sì, ma ho come l'impressione che se solamente con te osassi fare qualcosa di più che sfiorarti, con le mie dita, ti ridurresti in briciole".
Eppure lo aveva fatto.
Guardandolo in quel modo, allo studio. Era stato il pugno più violento che avessi mai ricevuto nella mia vita. Mi aveva mandato a pezzi.
E adesso vuole sgretolare anche tutto quello che ho dovuto guadagnarmi per cercare di dimenticarlo, pur sapendo che non sarei mai riuscito a farlo e che il rimorso, l'angoscia, il pianto e la rabbia avrebbero sempre dominato ogni cosa. 

- Abbiamo bevuto troppo - sentenzio, asciutto. Ma per la millesima volta mi rendo conto che non riesco ad andarmene, che non voglio andarmene. Ed è solamente colpa sua, perchè Brendon è la fottuta cosa che mi fa letteralmente sbarellare, mi terrorizza questo suo mandarmi completamente fuori di testa. Eppure è una delle poche sicurezze della mia vita, una delle poche cose che - almeno qualche hanno fa - ero sicuro avrei trovato la mattina, accanto a me. E anche se non l'avessi trovato, mi sarei detto "tornerà", e se non sarebbe tornato, sarei stato sicuro, dannatamente sicuro, che sarebbe stato vivo, là fuori, nel mondo, e avrebbe pensato a me, a me solo. 
Ecco, è questo, più che altro, che mi ha fatto così male.
Non tanto il distacco - perchè averlo lontano, ma con la certezza che mi amava, sarebbe stato diverso - quanto il pensiero che non mi avrebbe più voluto bene. Che nella sua mente, nel suo letto, accanto a lui, lo spazio di Ryan Ross sarebbe stato occupato da un grazioso e felice surrogato. E che quel surrogato avrebbe preso il suo cognome. E avrebbe dormito con lui ogni notte. E che avrebbero fatto l'amore, come lo aveva fatto con me. Nella stessa identica maniera. E lui le avrebbe sorriso, e si sarebbe fatto la barba alla mattina per lei, avrebbe cucinato per lei, avrebbe preso l'anello di matrimonio per lei, avrebbe cantato e composto per lei, l'avrebbe fatta ridere, ballare, forse anche piangere per la felicità - esattamente come aveva fatto con me. Era come se, all'improvviso, tutta la certezza che là fuori, nel mondo, qualcuno che volesse bene solo e soltanto a me, fosse stata spazzata via da un'unica ondata. 
Cruento, crudele, meschino, orripilante. 
Tutto quello che aveva sempre promesso che mai sarebbe avvenuto era improvvisamente diventato realtà, e la sua espressione fredda e distaccata, di fronte a questo, mi aveva fatto talmente arrabbiare che avevo temuto che avrei pianto davanti a tutti, e lo avrei baciato, poi gli avrei dato uno schiaffo. 
L'immagine che ho avuto di noi, per mesi, è stata quella di due persone che fanno l'amore prendendosi a pugni.
Poi semplicemente ho cominciato a disprezzarlo, il periodo in cui ho sposato Elizabeth è stato orribile. Poi a guardarlo da lontano, lui e la sua vita perfetta, Sarah, il matrimonio. Una certa malinconia a quel punto si era impossessata di me, e a quel punto avevo già capito che lo amavo ancora, incapace di credere che, dietro a tutto quel dolore, dietro a tutta quella sofferenza che mi aveva fatto così male, potesse ancora crescere qualcosa di così bello, candido e immacolato come amore.

- Abbiamo bevuto troppo - ripeto, di nuovo, sottovoce.
Ma è solo una scusa.
La verità è che ho paura. 
Ho paura che mi faccia male, poi, quando dovrà andarsene.
Ho paura che poi avrò un'insaziabile voglia di lui, e di lui soltanto. 
Ho paura che me ne pentirò, e ho paura che invece non lo farò affatto.

- Troppo per cosa? Per pensare che questo sia qualcosa di serio? Non ho bisogno di essere sobrio per dirti che ti amo, cazzo. C'è un'unica cosa che vedo chiara quando tutto diventa sfocato e ondeggia, c'è un'unica cosa ferma in mezzo al casino... e sei tu, Ryan Ross - mi accarezza lo zigomo - Ti prego. 

Le sue mani spaziano sui miei fianchi, coperti appena da una camicia bianca. Tra le lacrime, non riesco a fare altro che annuire. 
Mi sono arreso. 
Riprende a baciarmi, la miseria del nostro amore ci lancia granate mortali che non possiamo evitare. Ho il mio cuore in mano, e sono pronto a lanciare anche quello, quando servirà, dopo che tutto sarà finito. Una notte di splendida illusione non sarà niente in confronto agli anni che mi rimangono da vivere, quelli che dovrò pur trascorrere, senza di lui.
Lentamente, torniamo in salotto, mentre le sue mani stanno cercando di spogliare il mio torace magro, indugiando sul colletto, e subito dopo su ogni bottone, calme e allo stesso tempo impazienti di avermi, dopo questa lunga astinenza. Bacia ogni centimetro della pelle che scopre, mentre io, sopraffatto dall'emozione e dai guizzi sinuosi del suo corpo contro il mio, gli prendo il collo con entrambe le mani e lo spingo verso di me ancora e ancora, guidandolo verso la stanza matrimoniale che dovrei dividere con Elizabeth. 
I suoi occhi mi guardano come quelli di un cervo spaventato dalle luci troppo forti di una macchina, sulla strada. 
Sono tristi.
Ma è questo quello che rimane del nostro amore. 

- Brendon... - sussurro il suo nome, poi più niente, perchè il suo viso è salito ancora al mio e mi sta baciando di nuovo, contro lo stipite della porta della mia camera da letto.
Forse avrei dovuto portarlo nella stanza degli ospiti, non mi piace violare quell'intimità che, anche se fredda e inconsistente, svogliata, banale e patetica, si è creata tra me e mia moglie.
Abbasso gli occhi, accorgendomi che devo avere il trucco nero completamente colato e appiccicato sulle guance assieme alle lacrime secche e a quelle che ancora devono scorrere, i capelli fradici per la pioggia e quell'espressione malinconica che mi fa sembrare completamente perso. Sposto le mani sul mio viso, cercando di sistemarmi almeno qualche ciuffo umido di capelli, ma lui mi ferma, sorridendo:

- Fermo - mi lecca le labbra, delicato, poi riporta le mie dita sul suo petto, come erano prima, rilassandosi appena toccano la sua pelle. 

Sorrido:

- Perchè? - domando, imbarazzato da quel comando così dolce. 

- Perchè non sei perfetto, ma va bene così. Puoi essere tutto quello che vuoi, Ryan, e a gli altri, soprattutto a me, non dovrebbe importare. Non lo hai ancora imparato, questo? - solleva un angolo della bocca, beffardo, come a voler proclamare che lui mi conosce ancora.
Smarrito dal fatto che sappia così tanto di me, dopo tutti questi anni, mi rendo conto che la maschera del Ryan sposato e con una carriera sempre più calante si è spezzata, così respiro, per qualche attimo, allontanandolo da me quel tanto che basta per prendere aria.
Mi lascia fare, poi, dopo pochi secondi, avvicina ancora il suo viso al mio e riprende a cercare la mia bocca con una foga che mi è sconosciuta da anni. Con Elizabeth non c'è mai stata una vera e propria passione, è un modo di fare sesso talmente distaccato e svogliato - da parte mia - che a volte mi è quasi nauseante.
Improvvisamente sento la sua mano sul cavallo dei miei pantaloni, e, insieme a un fremito dovuto all'eccitazione, nella mia mente appaiono tutte le immagini che ho visto di lui e Dallon, sul palco, tutte le interviste, i baci, le battutine, i video e le foto sui social, di quanto tempo ho passato a fissarle mentre la sua musica cominciava a riempire tutta la casa, le mie orecchie, e mi faceva piangere. La reazione a tutto questo è troppo impulsiva: prima che possa anche solo riflettere con più calma su queste cose, scatto all'indietro, finendo contro l'armadio, mentre le lacrime, che in realtà non hanno mai smesso di inumidirmi gli occhi per tutta la sera, riprendono a scorrere sul mio viso. 
Mi raggiunge, stringendo le mie mani con decisione, eppure con dolcezza:

- Ryan - pronuncia il mio nome, ed è qui davanti a me, allora perchè sembra così lontano?
Tremo, scuoto la testa mentre non riesco nemmeno a respirare, tra le lacrime. Il buio esercita una pressione troppo forte sul mio petto, sento le mie costole incrinarsi.

- Ryan, cosa c'è? - domanda, insistendo, per poi avvicinare il suo viso al mio e baciarmi. 
Le sue labbra mi ridanno il respiro, e mi aggrappo a lui: in un unico movimento, getto le braccia al suo collo, le intreccio sulle vertebre sporgenti e nascondo il mio viso tra i nostri corpi, ansimando.

- Dallon... - sussurro a malapena, congelato in un vago senso di nausea.

Sospira:

- C'è stato un periodo in cui ti ho odiato... - comincia, insicuro delle sue stesse parole.
Una rabbia mi monta nel cuore, sento che devo lasciarla andare e quindi lo faccio, sputo su di noi ancora una volta:

- Che si è protratto da quando me ne sono andato al concerto che hai fatto la settimana scorsa? - domando, amaramente, mentre le sue mani sul mio addome bruciano, facendomi perdere la testa.

- Che si è protratto per tutto il tempo nel quale ti ho amato, e probabilmente si protrarrà ancora, ancora, e ancora - mormora - Con Dallon è diverso.

- Perchè mi sembra un copione? Un copione che ripeteresti esattamente anche per Sarah, Josh e Pete, per tutti quelli con cui ti sei divertito durante tutti questi anni?

- Non mi credi? - chiede, con gli occhi che luccicano, scuotendo appena la testa, con incredulità. 
I suoi occhi trasudano una sofferenza delicata.
Ed è questo il punto.
Il suo dolore è soffice, come un velo che può sempre decidere di togliere.
La mia invece è acuminata come una lama, affonda nella carne e una volta tolta lascia comunque una piaga. E la piaga ha bisogno di bende. E disinfettante. E qualcuno che la curi. E io non so come si fa.
Mi mordo il labbro, cercando inutilmente di non piangere di nuovo:

- Io ti amo, Brendon! - grido, prendendomi la testa tra le mani - Io ti amo, cazzo, ti amo, ti amo da morire, e proprio per questo non posso crederci! 

Ho ricominciato a piangere, c'è un urlo costante, nella mia testa. Acuto.
Mi sta facendo impazzire.
Provo troppe cose insieme.

- Vuoi che ti dica tutto? - chiede, posizionandosi davanti a me come se dovessi inquadrarlo.
Annuisco. 

- Va bene - non ha nemmeno bisogno di prendere un respiro - Ho scopato con Dallon.

La mia mano si muove prima che io possa decidere se è giusto o sbagliato.
Lo schiaffo colpisce la sua guancia con un rumore secco e sonoro, che solo dopo pochi secondi comincia a rimbombare nella mia testa. 

- Ho... ho scopato con Dallon - ripete, versando una lacrima.

Un altro schiaffo.
Mi fanno male le dita. 
Voglio fermarmi. 
Voglio fermarmi, ma ho bisogno di colpire qualcosa, qualsiasi cosa, per lenire il male che ho dentro, il male che mi fa, che mi faccio, che ci facciamo insieme, adesso, ieri, domani, per sempre. 

- E ho scopato anche con Josh, è vero - dice, ad alta voce. 

Sento il sangue ronzarmi nella testa. 
Tutto gira.
Sono ancora ubriaco?
Perchè l'ebbrezza è svanita?
Tutta quella stupida felicità è già passata per lasciare spazio al dolore?

- E anche con altre persone... miei amici - sussurra, dopo qualche secondo, singhiozzando. 

Questa volta non ce la faccio.
Non ce la faccio a colpirlo mentre piange.
Forse perchè sto piangendo anche io, e le mie lacrime sono così tante che non vedo più niente.
Crollo sul pavimento, incastrato tra l'armadio e il letto, mi rannicchio addosso al mobile e rimango lì, a fissare il soffitto e desiderare solo addormentarmi e non svegliarmi mai più.
Perchè è orribile.
E' orribile, senza di lui.

Brendon si inginocchia davanti a me, lentamente:

- Ma con nessuno di loro ho fatto a pugni, Ryan - mormora, tremando, sfiorandomi una guancia con le dita - Mi credi, su questo?

Tiro su col naso. Lo guardo. 
Come si può odiare così tanto una persona?
Come?
Gli tiro un colpo, deciso, sulla gamba.
Lui mi prende con forza per i fianchi, mi fa alzare e la sua mano colpisce il mio zigomo, accompagnata da un lieve ansito. Lo butto sul letto, con una rabbia inaudita, ma mi trascina con sè, stringendomi il braccio. Mente ancora sono in aria, in attesa di atterrare sopra di lui, un pugno raggiunge il mio stomaco, facendomi tossire. Graffio le dita che stanno cercando di raggiungermi, poi sento le mie ginocchia schiacciare malamente le sue.

- Ti odio! Ti odio, Brendon! - grido, ignorando il dolore, mentre lo colpisco ancora alla guancia.
Sto piangendo.
Lui sta piangendo. 
Il mondo gira, sfocato.

Non dice niente, si limita a colpirmi alla schiena con un gesto secco che mi toglie il fiato. Cerco di ribellarmi, indirizzando la mano verso il suo petto, ma, prima che possa fargli di nuovo del male, mi blocca entrambe le braccia, prendendomi i polsi, deciso. 

- LASCIAMI! LASCIAMI, CAZZO!  - grido, con una furia ceca che sento solo sulla mia pelle.  
Mi divincolo, ma l'avvicinarsi del suo viso riesce a fermarmi dopo pochi secondi.

Mi bacia, forte, fino a che il mio naso non tocca il suo.
Ricambio, le mie lacrime finiscono sul suo viso e il mio labbro inferiore è stretto nella morsa dei suoi denti. La testa mi gira. Fa caldo.
Tutto è così confuso.
In un attimo, le sue mani si spostano sui miei fianchi, come prima, e comincia a togliermi i pantaloni, con gesti precisi, strappandoli dal mio corpo con violenza, come se in realtà volesse farmi soffrire.
Reagisco d'impulso, troppo preso da questo gioco di amore e odio per fare qualcosa che abbia una giustificazione concreta: tiro una testata alla sua spalla, davanti a me, e lui crolla indietro, con un mugolio di dolore. Finisco di svestirmi, rimanendo in boxer, poi gli affondo le mie dita nel addome. Dopo aver strizzato gli occhi, però, è più veloce di me: in un secondo, mi prende i fianchi, rovesciandomi di lato e stringendo in maniera spasmodica le mie braccia, fino a lasciarmi segni rossi su entrambi gli avambracci.
Senza fiato, ansimante, crollo sulla sua bocca, e comincio a svestirlo, piano, come lui ha spogliato me. Lo faccio lentamente, al buio: sento i nostri cuori suonare tutte le canzoni che abbiamo scritto insieme, sento le nostre voci in perfetta armonia, e il suo tocco, il suo schiaffo, il suo abbraccio, le sue lacrime. Sento la paura, la sofferenza, l'amore, la felicità.

- Dio, ti amo, ti amo - sussurra, rimasto nudo accanto a me, strappandomi di dosso l'intimo.
Un giro su me stesso e lui si è già sollevato, lasciandomi lo spazio per incastrarmi sotto di lui, come se potessimo diventare da un momento all'altro una perfetta scultura, e rimanere insieme per sempre. Sollevo il bacino verso il suo, le nostre lunghezze si scontrano in un attimo magnifico, eccitante, eppure con un vago sentore di tristezza, e io chiudo gli occhi, lasciando che mi stringa i bicipiti e entri scivolando sul mio addome in me, con un brivido ghiacciato.
Sto ancora piangendo, e anche lui lacrima palesemente. 
Ma adesso, tra le lacrime e i colpi, ci sono i nostri sorrisi, il nostro amore.
Questa notte è diventata una delicata violenza. 

Singhiozzo, mentre mi bacia e spinge fuori e dentro al mio corpo, facendomi ansimare appena. Il dolore è più forte del piacere, adesso. Ma non il dolore fisico, quello c'è, e lo so; no, è quello che ho dentro, consapevole che, per quanto adesso mi possa piacere, per quanto mi baci e mi accarezzi, se ne dovrà andare di nuovo, per sempre.

- Devi sapere che io avrei voluto che fosse tutto diverso da così - sussurro, tra le lacrime, prendendogli il viso - Avrei voluto baciarti ogni sera, e svegliarmi con te accanto, avrei voluto tornare a casa dai tour con te accanto, avrei voluto dirti che sei il mio sole, per sempre, e avrei voluto morire tra le tue braccia, vederti piangere dal cielo.  

Sono mie o sue le lacrime che precipitano sul mio viso, adesso?
Le sento così vicine a me, così compatibili con la mia essenza. 
Siamo una cosa sola, ora.

- La luna e il sole non sono destinati a incontrarsi, purtroppo - stira le labbra, entrando in me di nuovo e gemendo tra le lacrime. 

Sorrido; mi dà piacere, mi dà dolore, mi confonde, ma so per certo che non è semplicemente sesso:

- E se scappassero insieme? - domando, sospirando. 
Sesso non si fa piangendo.
Mente si fa sesso si ride, si geme. 
Questo è amore.
Mentre si fa l'amore si ride, si geme, si piange, si picchia, si soffre.
E' totale.
Comprende noi, tutti e due i nostri corpi.
Insieme.
Con tutti i loro difetti, il loro affetto, il loro odio, la loro rabbia. 

- E se scappassero insieme? - lo chiedo di nuovo, a voce più bassa, perdendomi nelle linee contratte del suo viso, nelle sue labbra, nei suoi occhi, che sono solo per me, oggi, stanotte, in queste poche ore.

Scuote la testa, con un'espressione amara, ansando per la fatica:

- Il mondo e tutti i suoi abitanti cadrebbero a pezzi. La vita perfetta che loro stessi hanno contribuito a creare si distruggerebbe per sempre - mormora, accarezzandomi il viso. 

Gemo, sudato, poi, stringendo le lenzuola, cerco di formulare le parole anche se piango, anche se fa male, anche se sto troppo bene:

- Quindi non si vedono? Mai? - domando, mentre sento il mio labbro inferiore tremare, perdendo il controllo di me sempre di più.
E mi piace.
Non lo voglio indietro. 

- La luna guarda il sole da lontano, quando scende il buio, e il sole continua a dare la sua luce alla luna per farla brillare, ma non possono toccarsi, nè parlarsi - tira su col naso, trattenendo malamente un singhiozzo.

- Ma si amano lo stesso? - chiedo, quando finalmente entrambi veniamo, l'uno sull'altro. 
Sfinito, si sdraia accanto a me, accarezzandomi il petto, e annuisce:

- Ma certo.

Sento il cuscino bagnato di lacrime, sotto la mia testa:

- E si ameranno per sempre?

Intreccio la mia mano con la sua.

- Sì. 

- E' crudele.

- Sì - ripete, annuendo e piangendo, poi mi sfiora la testa con le dita.
La sua voce sembra vetro rotto. Ha la stessa durezza, nello scricchiolare in quel suo modo freddo contro la sua gola.

- Ed è orribile. Non gli viene mai voglia di piangere, gridare, mandare tutto a puttane e andarsene insieme?

Le mie parole sono incrinate, spezzate dalle lacrime.
Sento che si sta addormentando.
So già chi chiamare per farlo venire a prendere. 
Dovrò solo rivestirlo.

Piango.
E lui piange insieme a me.
Sa che non mi rivedrà. 
Sa che scivolando nel sonno mi perde, perde noi, il nostro amore, il nostro odio.

Respiro.
Ma l'aria fa male, entrando nei miei polmoni.

Le sue ultime parole per me, prima di chiudere gli occhi, arrivano alle mie orecchie come un sussurro impalpabile, nel buio:

- Sicuramente. E piangeranno, e grideranno, ogni giorno, ogni ora, ogni secondo il loro respiro si mozzerà per la mancanza. Ma loro sono forti. E sanno che l'altro ci sarà. Per sempre. Qualsiasi cosa facciano, divisi, dall'altra parte del mondo ci sarà qualcuno li amerà. Per sempre.



























Asterischi:

*l'old fashioned è un bicchiere usato per servire liquori o cocktail.

**il chupito tres rones non è uno shot unico, ma una serie di tre shot al rum. Quindi i tres rones per due persone sono in tutto sei.

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