.5.
Frank camminava con passo strascicato, quasi con noia, lungo un interminabile corridoio dalle pareti scure. Aveva le mani ammanettate dietro la schiena, era ancora sporco di sangue e masticava una cicca alla fragola mentre Gerard, senza dire una parola, le dita strette attorno al suo braccio molto più dolcemente di quanto avrebbe voluto, lo conduceva nella sua stanza.
Erano stati colti di sorpresa dall'arrivo inaspettato di due ostaggi volontari - non avevano nessun posto lì dove tenerli, semplicemente alcune stanze più spoglie di altre, e per questo motivo erano stati costretti a trattare i loro nemici quasi come ospiti, collocandoli in stanze davanti alle quali avrebbero posto uomini armati. Fuori in giardino vi erano tiratori scelti che miravano alle loro finestre delimitate da sbarre di ferro ventiquattr'ore su ventiquattro, con cambi ogni tre ore. Per uscire dalla stanza, sarebbero stati accompagnati da una scorta di altri uomini. La contemplazione di una fuga era, perciò, pressoché impossibile.
Gerard, con una mano, cercò nella tasca destra dei pantaloni le chiavi della camera di Frank.
Sentiva le sue pupille fisse su di sé, e nel suo cuore si agitava un misto di confusione, stanchezza ed elettricità. Quella giornata era stata troppo turbolenta per i suoi gusti, aveva bisogno di rimanere di nuovo solo e non pensare a nulla, anche se dubitava del fatto che, una volta nel suo letto, sarebbe davvero riuscito a farlo.
I due giovani reclusi avevano appena superato interminabili ore di interrogatorio - non si erano curati nemmeno di farli mangiare, tanto il processo era stato estenuante e complesso.
Ray, Gerard e Donald, non appena la calma era stata ripristinata, li avevano condotti in manette verso una sala secondaria, più spoglia. Li avevano fatti sedere su due sedie di legno, spalla contro spalla, poi, passato un po' di tempo, avevano convocato i boss.
Li avevano accerchiati, chi furente, chi stordito dall'improvviso capovolgimento degli eventi. Qualcuno era appena tornato dall'infermeria, Sykes vi era rimasto: avevano dovuto estrarre due proiettili dalla gamba, ed era in condizioni pessime. Tutto sembrava essere immerso nel caos, quell'improvviso attacco aveva scombinato qualsiasi piano si erano creati precedentemente: la sala al piano inferiore era completamente impraticabile, cosparsa di vetro e sangue. I cadaveri erano stati portati via in elicottero e jeep; avevano dovuto sbarazzarsene in fretta, prima dell'arrivo del mattino, i loro uomini si erano divisi in squadre che avevano fatto in modo di occultare i corpi nelle periferie della città.
I segni dello scontro erano impressi su muri, volti, vestiti e sguardi; ovunque si vedeva stanchezza e preoccupazione per un pericolo che ormai si sapeva essere imminente. Li avevano respinti con facilità, ma si erano lasciati cogliere di sorpresa - ed erano solo cinquanta uomini. Cosa sarebbe successo se la volta seguente fossero stati di più?
C'era ancora da scoprire, inoltre, chi tra le guardie fosse il traditore, che, contrariamente a quanto avevano pensato, aveva avuto il semplice ruolo di disattivare l'allarme. Per farlo, però, bisognava essere a conoscenza del codice - qualcosa che solo un boss, o le guardie più fidate, potevano sapere. E nessuno era stato visto avvicinarsi al pannello di controllo per la disattivazione, quella notte, come mostravano i filmati delle telecamere di sicurezza. Una falla nel sistema? Forse. Ma non potevano esserne certi. Patrick, il loro tecnico per eccellenza, stava verificando tutte le possibilità, nonostante non avesse riscontrato particolari interessanti.
Era stato confermato, comunque, che la dinamica dell'attacco era stata una delle più semplici: mentre alcuni cecchini avevano cercato di creare un diversivo nel retro, la maggior parte degli uomini, silenziosamente, aveva attaccato l'unico punto debole del piano terra: la vetrata.
Se la mira alla finestra di Gerard fosse stata casuale o meno, rimaneva ancora un mistero.
Nel mezzo del caos, avevano cercato di estrapolare qualcosa dai due giovani, che sembravano essersi consegnati spontaneamente, anche se non era ancora chiaro se per ordine di Anthony Iero in persona o semplicemente di loro volontà, per salvarsi, dopo aver visto il massacro che li circondava.
Seduti, avevano passato duecentoquaranta minuti a guardarsi attorno.
Nel più perfetto silenzio, avevano sbuffato, alzato gli occhi al cielo, dondolato i piedi.
Qualcuno era stato sul punto di picchiarli, ma Donald aveva fermato tutti con un cenno brusco della mano.
Quelli avevano riso, ma lui non aveva fatto assolutamente nulla.
Era rimasto immobile quanto loro - Gerard lo aveva ammirato. Non sarebbe mai riuscito a essere questo, e lo sapeva. Ma cercava di non arrendersi.
Assonato, anche lui era rimasto in piedi, come poteva.
Era uscito solo per bere un caffè, quando aveva sentito i propri occhi chiudersi e i muscoli non reggere più, impastati di sonno, ed era rientrato poco dopo, quasi impaurito di essersi perso qualche cosa.
Poi tutto d'un tratto, nel più insignificante dei momenti, i prigionieri avevano ceduto, dichiarandosi disposti a collaborare.
Frank Iero. Diciassette anni. Figlio di Anthony Iero e Linda Iero. Fratello adottivo di Evan Iero. Occhi verdi. Capelli neri. Altezza 1,60. Un piercing al naso. Uno al labbro. Tatuaggi su collo, busto, braccia, gambe, mani.
Peter Wentz. Ventuno anni. Vicecapo di Anthony Iero. Figlio di Peter Wentz I e Dale Wetnz. Fratello di Hillary e Andrew Wentz. Occhi castani. Capelli castani. Una cicatrice pallida sullo zigomo destro.
Avevano parlato quasi scocciati, terribilmente scocciati da quella situazione, situazione che sembrava essere un terribile contrattempo. Erano saccenti, presuntuosi, quella loro aria beffarda, come se tutto quello fosse uno scherzo, aveva infastidito tutti fin dal primo istante.
L'elenco delle loro generalità era andato bene, il tutto era stato scritto in due cartellette separate e archiviato, con il massimo della formalità ed efficienza.
Ma quando erano stati spinti a dare altre informazioni, tutti avevano capito che non avevano intenzione di rivelare nulla, almeno per il momento. I loro discorsi erano sconclusionati, contraddittori. E nessuno riusciva a comprendere se tutto questo venisse fatto appositamente per nascondere loro dei particolari importanti oppure se semplicemente per gioco, come se non avesse avuto la minima importanza. Ridevano.
Ridevano e dicevano qualsiasi cosa passasse per la loro testa.
Dondolandosi avanti e indietro.
Menzionavano eventi storici come la conquista delle Gallie e costruivano metafore, paragoni, versioni intricate di ciò che era successo, poi facevano domande stupide, si rivolgevano a qualcuno di loro direttamente. "Ma che bella signorina, molto piacere" avevano chinato la testa davanti a Diamandis, Wentz aveva fatto l'occhiolino a Patrick e Frank aveva sputato addosso a Dun.
Sembrava li stessero prendendo solo per i fondelli, quelle due fottute puttane.
E tutti, dopo pochi minuti, avevano cominciato a dimostrarsi davvero seccati.
Rutherford aveva proposto di strappargli la lingua.
Urie scoccava loro occhiate assassine; non vedeva l'ora di premere il grilletto puntando la canna sulla loro fronte.
Ma Donald era stato intransigente, e non c'era stato alcuno che avesse mosso un solo passo nella loro direzione, mentre, al contrario, i due avevano continuato i loro monologhi privi di senso.
Ridacchiavano tra loro, affermavano che li aveva mandati Anthony in persona per trattare un'eventuale pace e subito dopo dicevano che gli avrebbero dato formazioni riservate se li avessero trattati bene, sostenevano di essere lì perché avevano voltato le spalle alla loro fazione, poi gli facevano la linguaccia chiedevano da mangiare e da bere, annoiati, si leccavano le labbra, facevano come per morderli, allungandosi verso di loro; erano tutti moine, toni ipnotici e melliflui, provocazioni, dopo pochi secondi discorsi seri, frasi improvvisate, sorrisi ammalianti,
Fottute puttane.
Tutti li odiavano, eppure ne erano irrimediabilmente affascinati.
Quella sfacciataggine, quell'infantilismo forzato, aveva un qualcosa di attraente.
E poi Frank.
Frank, oh, Frank, che aveva continuato a guardare Gerard sbattendo le ciglia e mordicchiandosi distrattamente le labbra per poi far uscire da quella bocca così invitante sillabe che prima dicevano una cosa e poi affermavano il suo contrario con una facilità inaudita. Riusciva a rendere provocante anche il fatto che se ne stesse lì, ammanettato, allargando le gambe e inarcando dolcemente la schiena come per stiracchiarsi, e intanto lo fissava, quelle angeliche pupille verdi. Promettendo e invogliando, sornione.
Dopo cinque ore di non senso, la calma iniziale era stata messa a dura prova. Erano circa le tre e mezzo del pomeriggio, tutti erano stremati e avevano i nervi a pezzi. La situazione aveva cominciato a degenerare.
Donald aveva sbattuto i pugni sul tavolo appena davanti a loro.
Grida.
Minacce.
Pistole puntate alle loro tempie, ma sembravano solo invitanti, le loro iridi luccicavano nel guardarle - erano pazzi.
Pazzi.
Pete continuava a ridere, noncurante.
Frank sembrava completamente fuori di testa. Ma non lo era affatto: si divertiva solo a regalare questa impressione a chi lo circondava. Costituiva, anzi, una gran parte del suo fascino.
Dopo tutto questo, un'altra ora e mezza era passata: i due ragazzi avevano tenuto testa alla pressione che tutti avevano cercato di imporgli con una leggerezza inaudita, e alla fine non era rimasto altro che rassegnarsi.
Donald aveva voluto assegnare a Gerard la custodia di Frank, e a Patrick quella di Pete. Li avrebbero dovuti seguire ventiquattr'ore su ventiquattro, e avrebbero dormito in stanze adiacenti; sarebbero stati le loro scorte personali, avevano il compito di tenerli sotto il massimo del controllo, portare loro i pasti, ma, soprattutto, di cercare in ogni modo di estrapolare loro qualche informazione. Questo era stato l'ultimo ordine che suo padre aveva dato, poi si era ritirato nelle sue stanze, visibilmente teso e angosciato - Gerard avrebbe voluto parlargli, ma aveva capito che in quel momento più che mai doveva lasciargli del tempo da passare da solo. Non era sicuro del perché avesse scelto proprio lui per quel ruolo di guardia, che doveva sembrare poco adatto per una figura importante come un vicecapo, ma era cosciente del fatto che Frank troppo importante per lasciarselo sfuggire: molto probabilmente Donald aveva deciso che l'unica persona di cui si poteva ciecamente fidare, in quel momento in cui il tradimento sembrava all'ordine del giorno, era il proprio figlio.
Tutti si erano congedati dopo quell'ultimo decreto, Frank aveva fatto un sorrisino delizioso e Pete aveva già cominciato a lanciare occhiate furtive a Patrick che, da suo canto, le aveva ricambiate con distacco. Ognuno sapeva che sarebbero state prese ulteriori misure - molti, ad esempio, avevano mormorato tra i denti l'ipotesi di un trasferimento di massima sicurezza nella sede di New York - ma nessuno aveva avuto la forza di chiedere a riguardo.
Gerard ancora non si capacitava ancora che fosse il figlio di Iero, il figlio di chi attentava alla sua vita. A quella di suo padre, di suo fratello. Il figlio di chi aveva ucciso sua madre.
Ogni volta che lo guardava, gli tornava in mente il suo corpo che si agitava contro il proprio, come lo aveva sedotto in quel locale e il modo in cui aveva mangiato il gelato seduto comodamente nella sua Lamborghini per poi salutarlo con un bacio schioccante sulla guancia e allontanarsi in una profusione di sorrisi e risolini stupidi e adorabili.
Era stata solo una trappola? Forse. Molto probabile.
E, anche se non avrebbe voluto, il più grande si sentiva così amareggiato davanti a questo sospetto - quasi come se quel ragazzino si fosse guadagnato un posto dentro di lui, in così poco tempo.
Se davvero il piano di Frank era di ucciderlo, però, perché non lo aveva fatto subito?
Forse avrebbe dovuto semplicemente ottenere qualche notizia sul modo in cui gli Way stavano operando? Ma allora come mai poi si era offerto per quella missione così disperata? Forse aveva deciso di cambiare strategia?
Dio, tutto quello non aveva senso.
Lo stava facendo impazzire, e si stava facendo desiderare, di nuovo.
Il fatto di non sapere nulla su quali erano state le sue intenzioni era qualcosa che lo disturbava. Per non parlare di come sentiva fremere tutto se stesso quando si scambiavano quegli sguardi; era un fuoco che lo dominava, e lui ne subiva semplicemente l'influsso lento e impalpabile, impotente - la salvezza da quel lussurioso peccato era ben lontana, e lo sapeva. Ogni volta che provava a raggiungerla, quelle sottili labbra rosse sembravano raggiungerlo, dischiudendosi piano per richiamarlo, pregarlo, lasciando spazio alle sue fantasie più afrodisiache.
Lo faceva impazzire.
Lo sopraffaceva con una facilità che lo lasciava senza fiato.
Semplicemente sbattendo le palpebre e muovendo le dita di pochi millimetri.
Era così impossibile resistere.
Ma non poteva permettersi di perdere il controllo, non adesso.
Indifferenza e freddezza, quanto avrebbe voluto che quelle due parole si depositassero nel suo cuore, estinguendo quella fiamma di passione così sbagliata e fuori posto.
Lo strinse più forte, forse per convincersi di trattarlo con la durezza che meritava.
Improvvisamente si sentì quasi stordito, perso in mezzo alle soffocanti pareti della sua casa. Il nuovo ruolo che Frank aveva assunto nella sua vita lo confondeva, in qualche modo, non sapeva nemmeno il perché. Forse era stato quello stupido gelato - gli aveva dato troppa confidenza. Adesso se ne pentiva, ma non poteva impedire al suo cuore di provare una strana tenerezza quando ricordava quel momento, quei dolci occhi verdi che lo guardavano con un sopracciglio inarcato mentre la lingua rosea leccava il cono.
Dio, Dio.
Lo doveva dimenticare.
Era stato usato.
Come lui usava gli altri, in fin dei conti.
Ma forse non era stato così semplice.
Forse fin dal primo bacio avrebbe dovuto capirlo, che non era stato così semplice, che era stato così fottutamente complicato - coinvolgente, travolgente troppo.
- Allora, cosa farai adesso? - Frank lo domandò tutto d'un tratto, interruppe i suoi pensieri così bruscamente da spaventarlo. Stavano ancora camminando, ma i suoi passi si stavano facendo più lenti, esitanti, attutiti dallo spesso strato di moquette.
Gerard lo strattonò in avanti per esortarlo a riprendere il ritmo che aveva tenuto fino a quel momento, stringendo i denti, senza pronunciare una singola parola.
Non voleva rispondergli.
Non doveva.
Ci fu silenzio, per un po' - non lo guardava. Sapeva che se solo lo avesse fatto una voglia irrefrenabile di baciarlo e scoparlo fino a sfinirlo lo avrebbe travolto.
Non perché fosse particolarmente eccitato in quel momento, no, ma semplicemente tra di loro, quando erano nella stessa stanza, nello stesso luogo, vicini, si creava una tensione sessuale incredibile. Bastavano poche occhiate. Si spogliavano e mordevano con le pupille dilatate, lenti e poi veloci, seguendo semplicemente le loro pulsioni. Si sfidavano, giocavano, si facevano male, si regalavano secondi di piacere lasciando solo che l'altro guardasse i lineamenti di uno distendersi, la bocca schiudersi, le mani carezzare i jeans.
Era tutto un far perdere la testa l'altro, involontariamente e volontariamente.
Era il loro divertimento.
Ma adesso, una volta per tutte, sarebbe dovuto finire.
Il giovane rampollo della famiglia Way non poteva permettersi di fottere un prigioniero, tanto meno se questo era il figlio di Anthony Iero; era una cosa che avrebbero dovuto accettare, in un modo o nell'altro.
O forse no.
Forse non potevano accettarlo.
Forse la situazione gli era sfuggita di mano. Già da troppo tempo, ormai.
- Dio, pensi che ti abbia scopato per avere informazioni? Pensi fosse questo il mio piano?
Frank alzò gli occhi al cielo, come a sottolineare la presunta assurdità della congettura, poi si divincolò per scherzo, con un sorrisino malizioso:
- Avanti, Gee. Fai il duro con me.
Gerard lo strattonò di nuovo, questa volta più forte, per non mollare la presa. Lo fece quasi inciampare.
I capelli neri ricaddero un poco sulla fronte, il ragazzo rise, poi si fermò, piantando i piedi per terra, come per capriccio.
- Vai avanti.
Il maggiore arrestò il proprio cammino insieme a lui, per poi tirarlo di nuovo verso la fine del corridoio. Sembrava così lontana, all'improvviso.
Così irraggiungibile, senza nemmeno un tocco, un bacio, un...
- Vai avanti - lo ripeté.
La situazione stava cominciando a innervosirlo. Si sentiva così inquieto, come se stesse affogando dentro miliardi e miliardi di sentimenti.
Non riuscì a impedirselo: lo guardò, intensamente.
Gli occhi verdi brillavano ricolmi di astri, lo sfidavano senza tregua.
- Vai avanti - lo disse per la terza volta, scandendo le sillabe.
Frank sorrise e si avvicinò un poco a lui. Sfiorò le sue labbra.
Aveva sete, fame.
Di lui...
- Vado avanti? - domandò in un sussurro mentre il suo viso si sporgeva sempre più, le mani ancora dietro la schiena, un braccio stretto nella presa ferrea del più grande.
Doveva alzarsi sulle punte per non essere più in basso del suo mento, e anche in quel modo non era di certo alto come lui; era dannatamente adorabile e carino mentre faceva così, così infantile, nella sua pretesa di essere grande.
Ma Gerard resistette.
Lo fece girare senza dire nulla, e lo spinse fino alla porta della sua stanza. Salutò le guardie all'entrata con un cenno, poi aprì con la chiave che aveva tra le dita e condusse il ragazzo all'interno.
Era una bella camera, innegabilmente.
Aveva un grande letto a baldacchino, un enorme armadio spazioso, una scrivania, davanti alla quale era posizionata una poltrona dallo schienale alto, una televisione e un bagno personale a cui si accedeva tramite una porta situata sulla parete sinistra. L'arredamento era semplice, i colori dominanti crema e rosso cremisi.
Il maggiore richiuse la porta alle sue spalle con un gesto secco, poi liberò Frank dalle manette, di malavoglia. Non appena fu libero, il giovane si tolse la giacca sporca di sangue e la sbatté sul pavimento con uno sbuffo.
- Il bagno è lì - indicò la porta - Ti porterò colazione, pranzo e cena. Se hai bisogno di qualcosa, chiedi a me. Non importunare le guardie. Ti consiglio di fare una doccia. Non puoi aprire la porta dall'interno, e se metti una mano fuori dalla finestra la ritroverai bucherellata di proiettili, non ti consiglio di provare nulla di troppo... ardimentoso.
Riuscì a modulare un tono atono e disinteressato e se ne compiacque, per un poco.
Almeno finché lo stronzetto non aprì bocca di nuovo:
- Oh, so benissimo cos'altro potrebbe essere ardimentoso, Gerard - fece un sorrisino a metà, carezzò la sua camicia con fare pensieroso e poi si allontanò, soddisfatto di averlo fatto trasalire.
Ogni volta che le loro pupille si sfioravano, sembravano parlarsi.
- Come dovrei passarlo il tempo, qui? - si lamentò, mentre si toglieva le scarpe lentamente, gettandole alla rinfusa da qualche parte.
Gerard, dolcemente, si perse nella figura che, saltellando e dandogli la schiena, si spogliava.
Non lo stava propriamente osservando, né ascoltando, semplicemente rimase immobile davanti a lui, perso nel vuoto, mentre le parole gli giungevano indistinte e la sua silhouette occupava i suoi pensieri, che giocavano a fondersi con un nulla intriso della consapevolezza alla quale non era ancora disposto ad arrendersi.
- Dio, sarà così dannatamente noioso...
La maglietta venne lanciata in aria fino al soffitto e ripresa al volo, poi arrotolata più volte su se stessa.
- Intendo, rimanere qui e basta. Senza fare nulla. Da solo. Tutto il giorno.
Frank aprì di più le tende davanti alle finestre, nel tentativo di far entrare un poco più di luce.
Guardò fuori, la monotona distesa di prato verde, qualche albero, la città e i grattacieli, lontano, e infine parlò di nuovo, senza arrendersi di fronte al suo taciturno interlocutore:
- Una bella rottura di cazzo, non trovi?
I pantaloni scivolarono via, e finirono accanto a uno degli anfibi con un fruscio convulso.
Solo in quel momento Gerard, risvegliandosi dal suo silenzio contemplativo, si accorse che il più piccolo stava ridacchiando, girato verso di lui:
- Ti piace fissarmi mentre mi spoglio, vero?
Tirò fuori la lingua, mostrando il bianco petto e le gambe, mosse qualche passo di lui, ma poi sembrò cambiare idea, e con una mano si soffermò a sfiorare le coperte del letto.
- Sei infantile.
Fu tutto quello che il maggiore riuscì a dire, scuotendo la testa e voltandosi per andarsene.
Prima usciva da lì, meglio era per entrambi.
Prima usciva da lì, più possibilità aveva di non cedere a tutto quello che i suoi lombi imploravano.
- Oh, ma la mia boccuccia ti piace, vero? Sopratutto mentre ti succhio il cazzo.
Tutto d'un tratto una mano era sulla sua schiena, toccandolo con fare inquisitorio.
Non l'aveva nemmeno sentito avvicinarsi, quella presenza risultò quasi sgradevole, lo fece irrigidire.
- Ti piacerebbe anche adesso, scommetto. E non penso solo la mia bocca.
Un sussurro vicino al suo orecchio fu la sua ultima battuta teatrale, almeno per quel giorno.
Gerard lo scacciò con un gesto brusco, ormai troppo esausto per badarci veramente attenzione. Sentì uno schiocco della lingua e dei passi tornare verso il bagno, divertiti. Aprì la porta senza nemmeno voltarsi per guardarlo - sarebbe stata la rovina - e la richiuse immediatamente dietro di sé, cercando di seppellire dietro ad essa anche il fuoco che ormai si agitava selvaggio nel suo ventre.
Girò la chiave nella toppa, da dentro proveniva il silenzio.
Con un altro cenno alle guardie, entrò dentro la camera appena accanto, con un sospiro debole.
Non sarebbe stato facile.
Per niente.
Era come se avesse lasciato un marchio indelebile.
Non si lavò nemmeno sotto il getto dell'acqua che lasciò scorrere sul proprio corpo pochi secondi dopo.
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