.28.

- Quindi avete trovato la lettera del suicidio di mio padre... Nonostante lui sia ancora vivo?

Frank aveva gli occhi spalancati e scuoteva la testa in continuazione, come se non riuscisse a capacitarsene. 
La sala era piena per metà. I boss si muovevano nervosamente sulle sedie, fumavano e bevevano,figure scure dai volti grigi e concentrati, nei loro occhi l'incoerenza, la violenza, storie travagliate che li avevano portati lì - tra le loro dita scorreva sangue, nelle loro gole gorgogliavano gridi che nessuno mai aveva saputo sentire, nel modo di muoversi rigidità, consapevolezza del proprio potere, del grilletto in potenza di essere premuto, , modi da titani. L'orgoglio delle proprie origini, il godere della propria pericolosità, il formicolio dell'onnipotenza, quella sete appena sottopelle, l'ebbrezza dell'eccesso, dei soldi, della morte, della lotta, eppure al contempo la consapevolezza della condanna, dell'impossibilità della redenzione, quella macchia di padre in figlio, erano scomposti, deformati, figure che si specchiavano in uno specchio pieno di crepe.
L'aria dentro la sala era densa, soffocante, tesa. Si respirava metallo, mentre il sole bianco di un mezzogiorno invernale faceva luccicare la città. 

- Potrebbe essere un falso, potrebbe... - Mikey scattò in piedi gesticolando, incredulo, ma Patrick lo interruppe con un gesto perentorio della mano:

- Sono quasi sicuro siano documenti autentici. Non li avrebbero nascosti in quel modo, altrimenti. 

Sembrava stranamente pallido, quella mattina, come se la scoperta di quei file lo avesse preoccupato. Era ancora seduto davanti allo schermo, di tanto in tanto lo fissava, quasi sopra fosse stata scritta la sua condanna a morte.
Donald aveva visto il filmato della sua tortura solo a metà.
Lui non aveva voluto guardare. Si era messo in disparte a guardare il vuoto, con gli occhi lucidi. Nessuno aveva osato chiedergli nulla. Nei suoi occhi, da giorni, era impresso a fuoco il segno indelebile della violenza.

- Ma perché darsi la pena di fare uno scanner? Le piantine e i cerchi concentrici sembrano fatti a computer, ma le lettere e i biglietti sono scritti a mano. E' dannatamente stupido. Avrebbero potuto bruciarli - Ahr schioccò la lingua e inarcò un sopracciglio - Mi sa di incastro. 

- Mi sa di merda. Di qualcosa che non sappiamo cos'è - chiarì Rutherford - Volevano che le trovassimo. In qualche modo. 

- Non penso - ribatté Patrick duramente, gettandogli uno sguardo avvelenato - Dimenticate che erano nascosti. Li ho trovati solamente perché sono riuscito a...

- Perché sei un fottuto traditore e sei in combutta con loro, ecco perché.

La frase venne pronunciata con leggerezza, ma convinzione. La cosa peggiore fu sentirla suonare così tentatrice e insidiosa, così vera, ognuno nelle sue orecchie. 
Donald reagì immediatamente picchiando un pugno sul tavolo che fece sobbalzare qualcuno dei presenti:

- Nessuno mette in dubbio accertamenti che abbiamo già fatto. Nessuno.

Non ci furono più suoni, d'un tratto, tanto che sembrò di sentire il rumore del fumo delle sigarette che si spandeva nell'aria, grigio, voluttuoso. 
Che l'assoluzione di Stump fosse stato un processo combattuto, era al corrente di tutti. Non pochi si erano opposti alla decisione del loro capo, e all'interno delle cosche si era sviluppata, per la prima volta, una crepa interna, sottilissima eppure ben visibile. Nei volti, nelle mani, fratelli, nemici mortali, pericolose deviazioni; i segni del loro cedimento erano serpenti nascosti in mezzo all'erba, impressi appena sotto le palpebre, come un brutto sogno, una macchia indelebile di guerra che non riuscivano a far dissolvere. Il sospetto, la paura, il crescendo dell'inquietudine... 

- Capito, Rutherford? - Donald si alzò in piedi e lo fissò severamente. 

Pareva incrollabile, e insieme sembrava si stesse sgretolando come maceria al tempo - il titano che reggeva tra le mani un impero troppo pesante, il guardiano di un mondo invisibile, un mondo che era lo specchio annerito della città, del mondo intero.
Rutherford annuì, freddo, ma non perse la scintilla che aveva animato le pupille scure quando aveva pronunciato le parole fatali.
Si ritornò al silenzio di pochi secondi prima.
Gerard sospirò e poi si staccò dalla parete a cui era rimasto appoggiato fino a quel momento:

- C'è dell'altro. Una delle piantine geografiche è quella della nostra base. Come hanno fatto ad averla? Per non parlare del messaggio che annunciava che Frank era sopravvissuto. E quei dannatissimi cerchi... Ci sono troppi elementi che non riusciamo a capire. Eppure devono avere un significato. Lo hanno, altrimenti non sarebbero stati messi lì. 

Si morse il labbro inferiore, scosse la testa e poi tirò fuori dalla tasca dei pantaloni eleganti un pacchetto di sigarette e l'accendino.

- Frank, non hai mai visto questo simbolo?

Donald guardò speranzoso il ragazzo seduto poco distante da lui, ma quello fece segno di no:

- Mio padre mi teneva all'oscuro di qualsiasi cosa. Non so nulla dei suoi piani. Non so nemmeno come abbiamo fatto a entrare nella vostra villa, a Los Angeles, io ero al centro della squadra, all'inizio, era buio... Ci hanno preceduto due uomini, e poi siamo entrati tutti insieme con la porta già spalancata. Ma a parte questo, non ho mai visto questo disegno. Non capisco. Non capisco assolutamente niente... 

Guardò di nuovo il foglio che avevano stampato. Cerchi concentrici, con un centro più scuro, e dentro alle diverse fasce diversi punti segnati. Non riusciva a trovargli alcun senso.
Li aveva osservati mille e mille volte, provando a far riemergere tutti i ricordi che aveva, persino quelli legati a sua madre, ma non c'era stato nulla da fare.

- Brendon, qualche passo in avanti?

- Confrontando i diversi punti di attacco? No. Per quanto riguarda l'America e l'Italia, sono sparsi in modo casuale. Abbiamo cercato di concentrarci su New York, ma... Erano solo punti sparsi. Anche numerandoli, non aveva alcun senso. Sta agendo senza schema, e questo ormai mi sembra certo.

- Mio padre non ha un piano. Non lo ha mai avuto. Vuole solo il potere. È malato.

Frank aveva gli occhi persi nel vuoto.
Gerard, in piedi dietro di lui, mise una mano sulla sua spalla e carezzò lentamente la sua guancia, la sigaretta tra le labbra.

- Le sparatorie?

- Sono stati feriti altri poliziotti, oggi. Quattro o cinque, da quanto dicevano i notiziari. Non so quanto continueranno, stanno diminuendo d'intensità.

- Potrebbero aver scoperto qualcosa?

- Se parla del giuramento, non penso. Nessuno di noi è uscito da qui, dopotutto...

- Ci stiamo dimenticando che stamattina hanno preso Rogers. Lo interrogheranno presto. Non era presente, ma lo avevamo informato.

- Lo avevamo informato?

- Avevamo informato tutti.

- Non cerchiamo di liberarlo?

- Non lo so - Donald scosse la testa - È quasi sicuro che cercheranno di ottenere da lui una confessione riguardo alla posizione di Frank. La negoziazione è impensabile. Non abbiamo ostaggi.

- Se avessimo aspettato con gli Hathaway, avremmo avuto un ostaggio. 

- Non potevamo saperlo. Erano diventati scomodi. Dovevamo dimostrare di essere inflessibili e lo abbiamo fatto.

- Rogers era a conoscenza di elementi importanti?

- Niente dei nostri piani recenti, forse, ma tutte le informazioni su...

- Cocaina?

- Sì, e l'erba. Tonnellate di erba.

- Non possiamo permetterci di perdere tutti quei soldi - osservò Ray, inarcando un sopracciglio.

- Già, io e Diamandis abbiamo cercato di trovare qualcuno che caricasse i container, ma il trasporto durante le sparatorie era pericoloso. Rischiavamo di averli tutti addosso. 

- Sappiamo dove lo tengono? Rogers, intendo - Gerard incrociò le braccia al petto.

- Lo hanno preso nel South Bronx. Probabilmente lo hanno ferito. 

- Chi riferisce?

- Uno dei suoi. Avvicinato. Era la sua prima missione, ed è riuscito a fuggire per miracolo - Diamandis lanciò uno sguardo al cielo plumbeo - Ad ogni modo, non possono averlo portato molto lontano. Escludendo i luoghi dove stanno avvenendo le sparatorie, abbiamo ancora diverse opzioni. 

- Posso cercare qualcosa, qualche comunicazione, ma non saprei - Patrick si sistemò gli occhiali sul naso - Non hanno dei file per questo. 

- Ma perché catturare Rogers in un momento come questo? Insomma, sta avvenendo una sorta di guerra intestina all'interno della fazione. 

- Forse mio padre spera di uniformare tutti in nome di un comune obiettivo. Rogers rappresenta il nemico, cioè... noi - Frank lo sussurrò appena.
Donald annuì. 

- Andiamo in ricognizione. Io, Patrick... Diamandis ci indicherà il luogo. Potrebbe venire anche l'avvicinato, insieme a uno dei suoi compagni - Brendon alzò le spalle - Vediamo se riusciamo a stanarli. Possiamo farcela. Una volta che abbiamo scoperto dove lo tengono... Qualcun altro ci raggiunge e agiamo.

- E' pericoloso, con le sparatorie in giro per la città - osservò Ross, stringendo le labbra. 

- Qualcuno deve provarci. Una volta che liberiamo Rogers, cerchiamo il modo di spedire quel fottuto carico oltreoceano. E per lo meno avremo risolto il problema dell'erba e della coca che dobbiamo mandare in Europa.

- Sarò io il capo della squadra.

Gerard parlò lentamente.
Frank si girò verso di lui trattenendo il respiro, ma il maggiore fissava il disegno dei cerchi concentrici.
Donald non disse nulla.

***


Gerard guardò la città correre sotto i suoi occhi. 

- Perchè ti sei offerto?

La voce di Frank riecheggiava nella sua testa, insieme allo sguardo teso, alle mani che carezzavano i suoi bicipiti per poi sistemare la giacca.

- Non potevo evitarlo. Presto o tardi diventerò io il capo. Ho il dovere di difendere i miei uomini.
Aveva risposto piano, avvicinando la fronte alla sua.
La stanza era buia, e fuori sembrava non esistere niente che non fosse nemico, niente che non fosse buio, niente che fosse in spaccato contrasto con la loro luce. 
- Promettimi che starai attento.
Frank lo aveva baciato sulla guancia, implorandolo con voce tremante.
- Tornerò. E tu qui?
- Starò bene.
- Ti direi di tornare a casa, ma... Saresti solo, non voglio che tu stia da solo...
- Starò bene - aveva ripetuto il ragazzo, stringendolo a sé. 
- Hai una pistola?
- Sì. Cassetto del comodino. Carica.
- Bravo - Gerard aveva fatto incontrare le loro labbra con dolcezza - Tra poco non ne avrai più bisogno... Te lo prometto. Ti porterò lontano da qui, andremo ovunque vorrai, andremo via... Io e te. Solo io e te. Quando questa guerra finirà, allora potremo farlo... 
- Solo io e te - Frank lo aveva ripetuto in un sussurro - Ti aspetto... 
- Non rimanere sveglio. 
- Non riuscirei a dormire, in ogni caso. 
Si baciarono ancora.
- Ti aspetto... Domani possiamo... Passare la mattinata solo noi? In camera?
Era come se con quella promessa potesse mantenere Gerard vivo.
Come se la certezza del giorno che viene da trascorrere insieme avesse avuto il potere di difenderlo da ogni proiettile.
- Certo che possiamo.
Si erano abbracciati ancora, Frank con il viso seppellito nel suo petto.
- Non vorrei mai lasciarti andare...

L'auto si fermò davanti a uno spiazzo di ghiaia con lentezza, il rumore delle ruote chiaro nel silenzio sospeso attorno a loro.

- Qui - sussurrò Ross tra i denti, caricando la mitraglia con un sospiro.
Anche gli altri si prepararono, con calma.

- Nemmeno io vorrei, nemmeno io... - lo aveva baciato ancora, il respiro tremante. 
Aveva paura.
Frank lo sapeva, ne era sicuro, era sicuro che poteva sentirlo, nelle sue mani, nelle sue labbra...

- Torna. 

E poi i suoi occhi che brillavano.
Le dita che toccavano le sue guance. 
L'attesa.
L'attesa di andare, l'attesa di tornare. 
I loro respiri. 
Mille sensazioni, pezzi di labbra, pezzi di baci, impressi nella sua mente a fuoco.

- Pronti? - Gerard lo chiese a denti stretti, scrutando fuori dal finestrino.
Era tutto buio, solo un lampione illuminava il parcheggio completamente vuoto all'infuori della loro macchina. Una strana nebbia ammantava la periferia della città, bassa, ammantava le gambe come una spirale, minacciava di risucchiare nel nulla dalle caviglie. 

- Sì, capo - risposero tutti, alla spicciolata, in un fondersi armonico e sgradevole di voci e respiri sospesi. 

- Dove ci aspetta Urie?

- Dietro il secondo magazzino.

- Siamo coperti?

- Dovremmo.

- Scendo per primo - Gerard fece per aprire la portiera, ma Ray lo fermò subito:

- No, capo. Andiamo prima noi. Dobbiamo coprirla.

Si guardarono per qualche secondo, l'ostica formalità delle frasi brevi e spezzettate che aleggiava strana tra di loro. Si rividero bambini, ragazzi, crescere uguali eppure diversi, vicinissimi eppure, per qualche motivo, distanti; si fronteggiarono di nuovo, vicinissimi eppure, per qualche motivo, distanti, la distanza acuita dal disagio della posizione che avevano uno rispetto all'altro, di capo e subordinato.

- Non penso tu sia nella posizione di...

- Sei il mio capo, ma sei anche mio fratello. E ti proteggerò con la vita, se devo. Quindi, per favore, fammi scendere per primo e vedere se è tutto sgombro.

Il riccio, cambiato subito il registro del linguaggio riferendosi a lui direttamente, con quel tu perentorio, lo guardò fisso, e Gerard si ritrovò costretto ad annuire, suo malgrado, stringendo il mitragliatore lentamente.
Tutti trattennero il fiato mentre Ray preparava la pistola e, con l'indice sul grilletto, scendeva lentamente dall'auto.
Non ci fu un solo rumore.
Provò a muoversi in avanti, l'arma spianata in avanti, ma non accadde nulla.
Avanzò fino a che non diventò una semplice silhouette scura, uomo stagliato su tenebra, olio su tela, inchiostro nero su piombo. 
Tornò indietro con cautela, aprì di nuovo la portiera:

- Uno alla volta. Piano - disse, per poi girarsi di nuovo verso il buio e scrutarlo con diffidenza.
Scesero in ordine, ultimo Gerard.
L'aria della notte era tagliente, fredda, risvegliava i suoi sensi dopo il tepore della macchina. Respirò forte la serotina foschia umida, chiuse gli occhi e gli sembrò di vedere il cielo sopra Frank, rannicchiato a letto nudo, tra le coperte, la sua carne bianca.
Chiuse la portiera con un gesto secco e si spostò al centro del gruppo.

- Muoviamoci - mormorò, dopo qualche secondo di silenzio in cui la notte sembrò sopraffarli con la sua grandezza - Tenetevi pronti. Due dietro me e Ray. Due davanti.

Fece un cenno agli uomini e questi eseguirono subito, senza esitare.
Arrivarono al secondo magazzino camminando lentamente le armi protese in avanti, quasi ronzando nell'attesa di caricare e colpire. Urie, Diamandis e l'avvicinato li accolsero con un lampeggiare d'occhi bianchissimo, nascosti dietro un capannone. 

- Dov'è?

- Il magazzino davanti a noi.

- Ne siamo sicuri?

- Ho tagliato la gola a una guardia, spero di sì - Brendon fece un cenno al corpo senza vita accanto a loro.

- Merda, Urie. Si metteranno a cercarlo - Gerard imprecò, stringendo in un pugno la mano libera.

- Non c'era altro modo, capo. Quei soldi ci servono, e cercare in ogni magazzino non mi sembrava una buona opzione. Fanno ronda singola, non si incrociano quasi mai. Non avremo molti problemi. 

- C'è una ronda?

- Non ho avuto modo di accertarmi bene, ma... Sì. Devono tenere qualcosa di grosso, qui.

- La macchina. Qualcuno deve tornare indietro e portarla via.

- E se invece qualcuno li distraesse?

- Si insospettirebbero - Gerard scosse la testa, guardò i suoi uomini e poi indicò l'avvicinato che li aveva condotti lì - Tu, porta la macchina fuori di qui. Sali e parti. Torna tra venticinque minuti. Se non siamo fuori, vai via e torna entro cinque minuti. Se non ci siamo ancora, vattene e non tornare più qui.

Gli altri lo guardarono ad occhi spalancati:

- Mezz'ora?

Gerard strinse un pugno:

- Dobbiamo agire veloci. Non possiamo permetterci di esitare, ora. Mezz'ora basterà. Vai. Fai come ti dico.

Il giovane annuì, tremante, e a un cenno ulteriore di Gerard corse all'impazzata verso la macchina. Lo guardarono mettere in moto e partire, e quando non riuscirono più a vederlo tirarono un sospiro di sollievo. Un attimo dopo li assalì la consapevolezza di essere irrimediabilmente bloccati nella periferia newyorkese in pieno territorio nemico, e di nuovo tremarono impercettibilmente, le pupille che cercavano di fendere il buio alla ricerca di qualsiasi possibile pericolo. 

- Ora come procediamo? - Diamandis gettò un'occhiata a Gerard, che continuava a fissare attorno a sé, quasi inerme.
Gli sembrava di scivolare, scivolare su qualcosa che non conosceva, scivolare via dalla realtà per tornare da Frank e scappare insieme a lui. Di nuovo, ricacciò le sensazioni così nitide alla sua mente, quelle stesse sensazioni che si illudeva di percepire sulla pelle, e strinse le labbra:

- Le guardie sono molte?

- I magazzini sono grandi, ma non sono una delle loro bari principali. Penso ce ne siano una ventina, sul perimetro. Più i soldati armati all'interno.

- Numeri?

- Realisticamente, dieci per magazzino sarebbero sufficienti. Ma non so con certezza.

Una manciata di secondi di silenzio, i denti che mordevano l'interno della guancia. 

- Ci dividiamo. Io, Ray, Urie, Ryan, Diamandis dentro, a prendere Rogers. Gli altri fuori a fare la guardia. Uccidete chiunque vi veda, ma in silenzio. Non dobbiamo attirare l'attenzione. La nostra unica possibilità è cercare di ottenere un effetto sorpresa. Non sappiamo quanti uomini ci siano. Non è enorme... Ma nemmeno piccolo. Deve essere pulito. E veloce. Meno errori possibili. 

- I capannoni sono otto in tutto - precisò Ross, scrollando le spalle - Possiamo cercare di fare un giro complessivo.

- Fate come meglio credete, ma gli uomini fuori devono essere a terra, e voi possibilmente vivi. Non rischiate troppo. Da dove entriamo?

Urie annuì:

- Le entrate dei magazzini sono sei. Sono sorvegliate da ronde, come ho già detto. La decisione sta a lei, capo...

Gerard non mostrò nemmeno un attimo di esitazione:

- La squadra che deve rimanere fuori adesso andrà avanti. Quando tutto sarà sgombro, ci darete un segnale di via libera. Non appena entriamo, dividetevi in due e iniziate. Ricordatevi che l'obiettivo non è fare una strage, ma portare via Rogers. Uccidere non è la priorità. Non dovete correre rischi inutili. Intesi?

- Sì, capo - sussurrarono tutti all'unisono. 

- Bene, si comincia. Veloci. 

Bastò un segnale della sua mano perché metà del gruppo scattasse in avanti, verso il capannone al loro fianco. Attraversarono la strada ghiaiosa esposta alla debole luce dei lampioni velocemente e senza problemi, e arrivarono al riparo dietro al capannone. Appoggiati alla parete in lamiera, si scambiarono qualche cenno d'intesa e iniziarono a strisciare verso il retro, le figure sempre più piccole e ombrose fino a che non si confusero con il cielo petrolio che sembrò inglobarli. Ci furono secondi e secondi di silenzio, secondi in perfetto silenzio, il cuore che martellava nel petto e il cuore che ronzava nelle orecchie. 
Gerard inghiottì.
Un minuto e mezzo.
Il suo petto si alzava e si abbassava in spasimi sempre più ravvicinati. 
Poi una mano spuntò dall'oscurità, ci fu un cenno. Non diede nemmeno l'ordine, corse in un tutt'uno con gli altri, e dopo un battito di ciglia si ritrovò acquattato a ridosso della parete del magazzino. Si concesse un solo attimo per respirare, il tempo di chiudere le palpebre e riaprirle, subito dopo si rialzò e camminò con il mitragliatore premuto sull'addome. 
Alla svolta per l'entrata sul retro, lo aspettava il cadavere di un uomo con un foro di proiettile in mezzo alla fronte, gli occhi ancora spalancati. Il sangue formava un rivolo rosso e torbido che, passando per le tempie, formava una pozza luccicante sui sassolini della ghiaia. 

- Sembrava quasi ci stesse aspettando per morire. 

La porta si aprì con una facilità incredibile sotto la sua spinta prudente.
Non c'era alcun tipo di allarme.
Scivolò dentro seguito da Ross, e subito la luce dei neon bianchi lo accecò. Si ripararono insieme dietro una pila di scatoloni, accucciandosi a terra. Ray era accanto a lui, così calmo da risultare quasi gelido: l'espressione immobile del suo viso non lasciava trasparire alcuna emozione, le dita avvolte freddamente attorno al grilletto. Immaginare il movimento in cui lo avrebbe premuto, altrettanto freddamente, in cui avrebbe ucciso, altrettanto freddamente, quasi lo fece rabbrividire. 

- Cristo, quanta erba - Urie inspirò e soffocò una risata, scosse la testa - Pensare che potremmo venire a prendercela...

- Siamo qui per Rogers - ribatté secco Gerard - Se qualcuno di voi tenta di fare qualsiasi altra cosa, gli faccio saltare il cervello, intesi? 

Li guardò negli occhi a uno a uno.
Paura, ostentazione di sicurezza, muscoli e nervi tesi. 
Erano pronti a obbedire, a dare l'ultimo respiro per lui, quella notte - sentiva le loro anime e la loro fiducia pesare sulla coscienza. Loro gli avevano promesso protezione, ma lui aveva promesso loro il successo, la salvezza. Loro erano la sua scorta, lui la loro guida. 
Si sentì mancare il terreno sotto i piedi, iniziò a parlare per non cadere di nuovo nell'oblio dell'insicurezza:

- Ci dividiamo. Con me Ray. Diamandis, a destra. Ross e Urie, a destra. Sappiamo che ci sono uomini armati. Non appena usciamo da qui, saremo sotto tiro. Riparatevi, state attenti. L'obiettivo è trovare Rogers, liberarlo e riuscire a uscire da qui. 

Mentre lo diceva, si rendeva conto di quanto il loro tentativo fosse azzardato.
Erano una squadra di dieci contro un numero indefinito di avversari. 
Sarebbe dipeso tutto dal caso, dalla loro fortuna. Non avevano nulla di concreto in mano, se non la certezza che i loro nemici dovevano essere in numero decisamente superiore al loro.
Inghiottì, guardò di nuovo quegli uomini e quella donna, lesse nelle iridi frantumate il terrore, l'adrenalina, il loro mischiarsi confuso, un'alternanza di bianco e nero dai riflessi multicolore. 

- Dobbiamo rimanere uniti. Ce la faremo. Porteremo Rogers fuori di qui. E lo faremo per tutti quelli che abbiamo perso. 

Strinse il mitra con forza, deciso. 
O adesso, o mai più. 
Strinse la catenina con la croce che portava al collo, tremò impercettibilmente.

- Mettetevi pronti. Dovete correre. 

Un groviglio di gambe e braccia che si ordinavano in posizione, la vista si sfocò, strizzò gli occhi. 
Scosse la testa, di nuovo.
Doveva farcela, doveva farcela...
Doveva tornare da Frank.

- Gerard.

Ray lo chiamò sottovoce, si osservarono, indecifrabili.

- Andrà tutto bene. 

Quella semplice frase bastò a rincuorarlo. 
Annuì, guardò dritto davanti a sé. 
Non sentì più nulla se un ronzio sordo, e quando partì, proteso in avanti, sparando a qualunque viso incontrasse, fu come se tutto il mondo avesse deciso di chiudersi e tacere, muto, impenetrabile. Persino il suo corpo diventò estraneo, i gesti automatici, quelli che aveva imparato anno dopo anno, e le sue mani, le sue gambe si ridussero a un formicolio indistinto, il grilletto freddo che diventava caldo; il suo respiro sembrava essersi annullato - non riusciva a sentire nemmeno la stanchezza della corsa improvvisa, il ritmo ansimante. 
Non vedeva nulla se non gli occhi degli uomini a cui sparava, e subito li rifuggiva per non venire meno alla scarica di eccitazione che gli consentiva di continuare a sparare e tenere i sensi all'erta.
Il primo momento di stacco da quella serie di azioni robotiche avvenne quando girò su se stesso e con un calcio mandò a terra un uomo accorso dietro di lui, Ray lo coprì davanti, e dopo aver fatto fuoco spalla contro spalla si mossero di nuovo in avanti. 
Le urla di Urie, Ross e Diamandis gli giunsero tutte insieme, indistinte in mezzo a quelle degli avversari. Lo sfiorò una pallottola, si abbassò e cadde a terra per evitarne un'altra, ma si rialzò in una frazione di secondo e, sparando quasi alla cieca, finalmente vide davanti a sé Rogers, bendato e legato a una sedia, la bocca coperta di scotch isolante nero che cercava di contorcersi insieme al corpo in reazione a quel frastuono che non aveva saputo identificare. 
Ancora prima che potesse raggiungerlo, vide Diamandis, coperta da Urie e Ross, avanzare verso di lui e iniziare a slegarlo, veloce. 
Si girò di nuovo e vide una decina di uomini armati venire verso di loro.
L'ingresso principale era stato aperto, e anche fuori erano cominciati gli spari. 
Lottò con tutto se stesso, inebriato e insieme disgustato dal sapore amaro della morte. 

Rogers era in piedi.
Gli avevano tolto la benda, lo scotch, Urie lo teneva con una mano attorno alle spalle e lo faceva avanzare passo dopo passo.
Aveva gli occhi sfigurati. Acido. 
Tremava, le sue labbra mormoravano qualcosa che non aveva suono, né senso. 

- Ray! Dobbiamo andarcene di qui, ora!

Lo urlò con tutte le sue forze, con tutto il fiato che aveva in gola - e finalmente si sentì vivo.
Rogers aveva appena oltrepassato l'uscita con Urie e Ross, Diamandis ancora rimaneva ad aspettarli a metà strada.
Sparò e corse, i polpacci pulsanti.
Non vide l'uomo appostato dietro uno scaffale metallico, ma il proiettile che si conficcò nella sua gamba gli mozzò il fiato.
Incespicò, cadde, si rialzò e una fitta di dolore pervase tutto il suo corpo.
Strinse i denti, la vista gli si annebbiò.
Di nuovo, un altro proiettile. 
Penetrò ancora più a fondo del primo.
Gridò, la fronte imperlata di sudore, le mani che tremavano.
Abbassò lo sguardo e vide una chiazza di sangue enorme.
I pantaloni appiccicati, l'odore disgustosamente metallico.
Si trattenne a stento dal vomitare, si trascinò avanti ancora, ma arrivò un terzo proiettile, questa volta sul polpaccio.
Crollò, indifeso, il mitra schiacciato sotto il suo corpo. 
Tentò di prenderlo per difendersi, ma si ritrovò perso, confuso, le dita che toccavano la camicia, incapaci di fare altro che non fosse tastare il petto per avere la certezza del cuore che batte.
Si tirò sui gomiti per qualche secondo, ma dopo un istante sbatté la fronte sul pavimento di linoleum.
Frank.
Freddo.
Freddo come lui, si sentiva gelido, eppure la sua fronte e la sua gamba erano bollenti, si sentiva gelido eppure andava a fuoco...
A terra sentì solo la coscia pulsare ancora e ancora, la carne in fiamme, mani che lo trascinavano via.







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