.20.

- Ehi... - Gerard si avvicinò piano alla figura candida raggomitolata sul divano del salotto, davanti alla televisione.
Gli occhi di Frank sembravano guardare oltre lo schermo, senza prestare troppa attenzione al programma che era trasmesso, ma non appena percepirono la sua presenza si spostarono rapidamente su di lui. Aveva il viso arrossato e stanco, le ciglia bagnate e nere circondavano gli occhi annacquati e torbidi, come qualcuno degli acquerelli scuri di Turner. Sembrava avesse pianto fino a qualche istante prima. Probabilmente lo aveva sentito scendere le scale e si era asciugato in fretta, con le maniche della felpa, forse nel tentativo di mostrarsi meno debole, meno spezzato, meno disarmato. 
La sua bocca si curvò in un sorriso tirato:

- Ehi - lo salutò di rimando, carezzando il divano appena accanto a lui come per invitarlo a sedersi.
Il più grande obbedì, e non appena si fu sistemato la testa del ragazzo si appoggiò con delicatezza sul suo petto, calda.
Rimasero immobili, sembrava stessero valutando, con prudenza, la prossima mossa; Gerard sentiva solo il brusio indistinto della televisione e il respiro di Frank, lievemente affannato. Avevano paura, forse? Paura della luce, di scottarsi? Paura dell'amore, di rimanere feriti, paura del vuoto della vita e della solitudine dell'uomo, paura della sua incompletezza, della sua insufficienza, della sua meschinità. Paura di vivere, di morire.

- Cosa guardi? - domandò dopo un poco, piano, rimanendo immobile.

- Un programma di malattie strane - un altro sorriso, piccolo piccolo, tiepido come un raggio di sole sulla neve al mattino.

- Da quanto sei sveglio? Sono entrato e dormivi.

Si mossero lentamente per mettersi più comodi, senza staccarsi l'uno dall'altro, prudenti.

- Non lo so, un'ora forse. Dov'eri?

- In camera. Sono rimasto un po' qui con te e poi ho chiamato mio padre, abbiamo parlato un po'. Quando ho finito non ti eri ancora svegliato e allora sono andato in camera per farmi una doccia.

- Hanno deciso qualcosa riguardo a me, stamattina?

- Non ancora, ma credono alla tua storia. 

- E quindi?

- Penso sarai libero.

- Di fare cosa?

- Tutto quello che vuoi. 

Frank, senza rispondere alla sua osservazione, alzò il viso e poggiò il naso sul suo collo.

- Profumi di arancia. È buono.

Ci fu un po' di silenzio, guardarono la televisione, il volume appena udibile. 

- Eri da solo mentre io e Mikey eravamo alla base?

- Avevo due guardie ai lati del divano che mi hanno controllato tutto il tempo. Solo quando siete arrivati se ne sono andati.

Gerard esitò per qualche secondo ancora, poi avvolse un braccio attorno a lui e lo attirò di più a sé, in un gesto istintivo che quasi gli fece mancare il fiato, tanto era stato spontaneo e irriflessivo.
Guardò in basso nervosamente. Si aspettava che l'altro si discostasse, lo mandasse via, gli dicesse che era troppo presto, era troppo fresca, la sua ferita, ma Frank, al contrario, non appena lo sentì così vicino si rifugiò in quel contatto stringendosi a lui ancora di più, quasi a dire "proteggimi". 
Proteggimi dagli altri, proteggimi da me stesso.
Proteggimi dal dolore. 

- Divertente - sussurrò infine Gerard, incerto, lasciando che la sua mano carezzasse lentamente i capelli morbidi.
Non era abituato a essere casa, a essere rifugio.
Era sempre e solo stato per se stesso, un riparo insufficiente e scomodo, gelido, intriso di incubi; aveva giocato a volersi convincere di stare bene da solo contro il mondo e contro il suo io, e poi a volersi lasciare al freddo e alla tempesta per punirsi, per darsi la morte, per darsi sofferenza. 
E adesso tutto d'un tratto qualcuno trovava in lui qualcosa, una luce, un calore, una città, una bellezza, ombra e luce in intrecci da esplorare con le dita per vedere l'effetto che fa, quel giallo sulle dita, quel buio sulle dita, e poi tutti e due insieme, confinanti, solo per pensare che giallo e buio, ombra e luce, siamo noi, sono io, sei tu, è lui, è lei, sono loro, siete voi. 

- Scusami se non sono voluto andare via subito e ho voluto stare da solo - mormorò Frank dopo qualche secondo, esitante, mentre giocherellava con le maniche della felpa - Devo essere sembrato uno stronzo. 

Si morse l'interno della guancia con fare pensieroso, il maggiore lo guardò a lungo, intento ad ammirarlo, pezzo per pezzo. Sembrava lo avesse disegnato un artista, seduto su quel divano con addosso solo quella felpa e poi sotto nient'altro ma non per essere provocante, quella volta, no, solo perché non gliene importava; sembrava lo avesse disegnato un artista, un qualche inafferrabile ritratto di Schiele, forse, o un Cezanne dai contorni indefiniti, e poi nella sua pelle, nei suoi occhi, nelle sue labbra, il giallo e il blu tanto amati da Van Gogh, un viso di Congdon, allungato e deformato dai demoni dell'anima.
Sembrava racchiudere dentro di sé ogni cosa, in un universo di milioni di stelle.

- Non sei sembrato uno stronzo, e non fa niente - disse Gerard, pianissimo, ammirandolo.
Bello, bellissimo.
Indicibile. 
Ma adesso così intimorito, così spezzato, eppure così forte, in piedi da solo, solo con le sue ultime volontà. Avrebbe voluto accompagnarlo una vita intera, quello spirito così indomabile e libero, bruciante di vita, di sete, di desiderio.

- E' che... Non volevo avere la tua compassione.

La sua schiena tremò, come se tutti i muscoli del suo corpo si stessero contraendo per non urlare, esplodere in mille pezzi, divorarsi. Le sue fibre sembravano tesi come le corde di uno strumento che suonava una melodia struggente, dalle note acute, drammatiche, rapide, stridenti.
Prese un respiro profondo, come se fosse sott'acqua, come se stesse annegando tra i pensieri, i ricordi, la confusione, le sensazioni:

- Non voglio che tu mi consoli mentre piango, o che tu dica che mio padre è un coglione e lo vorresti uccidere o che tu mi dici che ti dispiace, insomma non...

Si morse il labbro, e una lacrima silenziosa scese sulla sua guancia. Si rifugiò subito su di lui nascondendo il volto nella sua maglietta, senza lasciargli nemmeno il tempo di rendersi conto di ciò che stava succedendo. Gerard posò le labbra sulla sua fronte e lo baciò, pianissimo, stringendolo più saldamente. Poteva sentire quel corpo fragile abbandonarsi istante dopo istante alla sensazione di sicurezza, ogni nervo allentarsi lentamente, le palpebre che si chiudevano sotto il peso dell'esistenza che si consegnava adesso tra le sue braccia, le sue braccia come mura di difesa da ogni cosa, le sue braccia come un porto dopo una tempesta, le sue braccia come l'unica cosa che quella fragile creatura aveva mai aspettato nella sua vita.
Pensò per un po' a cosa dire, impacciato, la fronte increspata davanti a tutto quel dolore e tormento, a tutta quella stanchezza, davanti allo strazio di una bellezza così grande.
Avrebbe voluto far uscire la sofferenza dal suo corpo tirandola fuori a forza, quasi fosse stata un semplice filo blu.
Non voglio la tua compassione.

- Ti va di uscire insieme? - lo chiese senza aspettare che avesse finito di piangere, senza pensarci due volte.
Frank alzò il viso di scatto e gli lanciò uno sguardo meravigliato, le labbra socchiuse per lo stupore:

- C-cosa? - domandò, forse pensando di non aver capito bene.
Una lacrima scese dal suo occhio destro, e precipitò sul viso arrossato con delicatezza.
Il crudele turbamento del dolore era ancora dipinto sul suo volto, ma adesso era attenuato dalla gioia di quella sorpresa che lo aveva preso senza aspettare, senza preavviso, senza attesa, semplicissima e autentica. 

- Uscire insieme - ripeté Gerard, lentamente, mentre anche lui prendeva sempre più coscienza di ciò che aveva detto pochi istanti prima - Di sera. Ti porto a mangiare e poi... beh, andiamo da qualche parte. Sai, le cose normali che si fanno in un... mh, come si chiama?

Finse di pensarci, mentre con il pollice imparava ad asciugare il contorno dei suoi occhi, gli zigomi, le guance.
Frank rise piano, tirando su con il naso:

- Un appuntamento, intendi?

Gerard annuì:

- Esattamente.

Il più piccolo scosse la testa:

- Non sei obbligato.

- Io voglio.

- E perché?

- Perché... Tu sei bellissimo e mi piacerebbe portarti in una limousine vestito in modo elegante in qualche ristorante costoso e poi camminare sulla riva dell'Hudson o... Beh, da qualche parte, che importa? Decideremo circa cinque minuti prima di alzarci dal tavolo o non decideremo mai e passeggeremo senza meta, perciò non vedo il motivo di preoccuparmene. Ma ciò che è importante è che... è per te. E per me stesso. Perché ho sbagliato circa quattro secondi fa, Cristo, no, non mi piacerebbe, io ne ho bisogno, quindi ti prego... Vuoi uscire con me?

Frank lo guardò fisso, gli occhi spalancati che luccicavano ancora di lacrime.
Non diceva una parola, semplicemente lo osservava con un'espressione indecifrabile, il verde delle sue iridi che minacciava di inghiottirlo da un momento all'altro in una spirale del profumo della foresta.
Gerard rise nervosamente:

- Okay, come non detto, se non... 

- Stai zitto, ti prego - bisbigliò Frank all'improvviso, allungandosi per premere delicatamente le proprie labbra sulle sue ancora una volta.
Gerard sorrise, lasciando che le loro bocche, ancora troppo esitanti, si incontrassero senza schiudersi, come avevano sempre fatto fino a quel momento, poi iniziò a fare piccole carezze con proprio il pollice sulla schiena del minore, respirando lentamente e godendosi la sensazione semplice dei loro visi che si sfioravano.

- Non voglio rimanere qui immobile a parlare di te e del tuo passato, voglio darti un presente, voglio... darti qualcosa, forse me stesso - disse, lasciandosi precipitare nelle sue pupille.

Non voglio farti rivivere il tuo incubo, voglio che dalle tue ferite crescano solo fiori. 
Frank arrossì, si piegò su di lui di nuovo e immerse il naso nella sua spalla, come per ritirarsi davanti alla sua frase.

- Che c'è? - domandò il più grande, cercando il suo viso con il naso e le labbra, solo per premerle sulla sua pelle, solo per sentirlo vicino, lì accanto a lui. 

- Niente, hai detto una cosa bella. Mi è piaciuta, ecco... Mi rende felice - le guance del più piccolo si fecero rosse, mentre si stringeva piano nelle proprie spalle, poi aggiunse:

- Sei bello vestito da casa. 

Gerard sorrise davanti a quel malcelato imbarazzo che lo aveva spinto a cambiare argomento così bruscamente, lo accolse dentro di sé, senza paura:

- Anche tu sei bello, vestito così. Tutto bene?

Asciugò di nuovo il suo viso con le dita, poi toccò le guance infiammate, quella carne piena di abusi e violenze, e la toccò come se fosse di cristallo.
Mai più, le promise, mai più tormento, solo baci, solo la pace.
Pace del profumo delle onde del mare, del profumo di loro due vicini.

- Sì... Grazie.

- Per cosa?

- Perché mi hai chiesto di uscire mentre piangevo.

Si sorrisero, guardarono ancora un po' la televisione.
I loro silenzi erano tranquilli e piacevoli, come se si stessero dicendo tutto e niente, silenzi pieni di pensieri e sguardi alla rinfusa, che ancora cercavano di comprendersi, di darsi un'ordine, un nome, mentre le loro mani giocherellavano a stringersi qualche istante o a intrecciare i mignoli per poi scioglierli quasi subito. 
Sembrava si stessero chiedendo il permesso di amarsi, piano, con gentilezza.

- Stasera hai voglia di cenare insieme a me e Mikey?

- Sì, ho fame. Anche se mi vergogno un po'. Lui...

- Sa tutto - il maggiore schioccò la lingua, e Frank chiuse gli occhi, come se stesse per addormentarsi:

- Anche che sei uno stronzo? - bofonchiò, mordicchiandosi il labbro.

- Certamente - risero insieme, sommessamente - Penso andreste molto d'accordo, lo sai? 

- Dici?

- Sì, e poi mi ha detto che gli piaci.

- E come mai?

- Dice che si vede che ci amiamo e... che tu sembri un ragazzo splendido e saresti perfetto per me, che quando mi sei venuto incontro la prima volta che ti ha visto io mi sono illuminato e... tutte queste cose - affondò il naso nella sua guancia, e ricevette un pugno scherzoso sul braccio:

- E gli piaccio per questo?

- Direi anche perché sei il primo di cui mi innamoro.

- Che cosa?

Tirò in fuori la lingua per metà come in una smorfia, quasi non ci credesse, e poi inarcò un sopracciglio e, alzate le palpebre, si mise a fissarlo.

- Il primo di cui mi innamoro - ripeté il maggiore, inclinando la testa di lato.

- Non mi dire.

- Odiava il fatto che scopassi senza mai avere una relazione fissa o provare qualche cosa e... gli sembra una specie di miracolo che tu sia riuscito a conquistarmi in questo modo. Sostiene che devi avere qualcosa di speciale, per averlo fatto. 

- E quindi io ti avrei sedotto, Gerard Way? Ti avrei incantato a tal punto da non farti desiderare nessun altro? 

Salì sulle sue ginocchia, un sorrisino tronfio stampato sul viso.
Era ancora troppo guardingo per mostrarsi costantemente fragile, aveva bisogno di recuperare, di tanto in tanto, la sua aria spavalda e sicura di sé, troppo orgoglioso, perché rimasto solo per troppo tempo, troppo orgoglioso per rinunciare alla propria supremazia, quasi non si fidasse ancora del tutto di lui, quasi dovesse dimostrarsi di avere ancora il controllo.
Gerard gli stampò un bacio sul mento, cercando di disfare quello scudo improvvisato davanti alla loro evidenza:

- Sì, ma cosa mi dici di te?

- Vuoi sentirti dire che sei il primo che ho amato? - chiese l'altro, con aria di sfida.

- Forse sì - si strinse nelle spalle, poggiando le mani sulle sue cosce, solo per carezzarle piano.
Frank si chinò in avanti, stringendo qualcuna delle sue lunghe ciocche corvine tra le dita:

- Sarebbe la verità - sussurrò nel suo orecchio, come se fosse un segreto - Ma te l'ho detto, io so che mi ami. La domanda è un'altra.

- E mi baci lo stesso? - mormorò Gerard sorridendo - Anche se non ti ho ancora risposto?

Frank alzò le spalle:

- Capisco che non è ancora il momento. 

Sembrò pensarci un attimo, e poi aggiunse:

- E poi, in realtà, la tua non deve essere una risposta, ma un'affermazione spontanea. Mi fido di te. 

- Non ti voglio deludere.

- Non lo farai. Lo vedo.

- Che cosa?

- Quello che hai. Dentro.

Poggiò una mano sul suo cuore ed entrambi si fermarono ad ascoltarne il battito.

- Senti? - chiese, in un bisbiglio.

Si baciarono di nuovo, premettero le labbra su quelle dell'altro, a fondo, fino a farsi mancare il fiato, come una discesa in paracadute, come le montagne russe che all'improvviso dopo una salita infinita scendono in picchiata, come tuffarsi da una scogliera alta metri con il mare azzurro e verde sotto, come alzare lo sguardo e iniziare a vedere le stelle girare.
Gerard non riuscì a trattenersi:

- Sei splendido. Sei... Splendido.

- Nessuno me lo ha mai detto.

- Non ci credo.

- Nessuno me lo ha mai detto così. 

Arrotolò una ciocca di capelli corvini attorno al dito, poi appoggiò la testa alla sua spalla e rimase immobile, il suo petto che si alzava e si abbassava lentamente, più calmo, ogni tanto scosso da un singhiozzo che passava subito.
Le loro mani si strinsero piano, avvicinarono di nuovo le labbra. Quelle di Frank erano rosse, umide. Gerard avrebbe potuto annegarsi in quel mare cremisi senza desiderare di uscirne più. 
All'improvviso due mani affusolate e calde avvolsero le sue guance:

- So che non sono tante le persone che potrebbero darmi quello che chiedo, perché è qualcosa che è più forte della vita e della morte, brucia la gola più di qualsiasi alcolico e fuoco, è più sterminato del cielo e del mare, ossida l'oro e dilapida ogni bene, spacca i timpani, solca il viso di rughe e raggrinzisce la pelle, fa tremare le ginocchia, rende gli occhi stanchi, consuma, fa soffrire, porta gioia, rabbuia, illumina, rasserena. Io chiedo il mondo e sono così giovane, chiedo il mondo e non potrei, non dovrei, dovrei chiedere solo un giardino... Dimmi che vuoi darmi il mondo, ti prego, dimmi che mi vuoi portare dove si mozza il fiato e dove rimani senza parole, vuoi portarmi nei silenzi e nel frastuono, dimmi che mi vuoi portare ovunque ma anche da nessuna parte. Non adesso, non ora, ma quando sarai pronto, quando sarò pronto, dimmi che vuoi tutto questo. 








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