.18.
- Stiamo per atterrare - annunciò Gerard quando erano quasi le cinque del pomeriggio, sorridendo - In realtà dovevamo utilizzare una pista, ma... in via eccezionale, ci hanno dato il permesso di atterrare sull'attico. Una squadra porterà via l'elicottero.
Mikey annuì, guardando fuori dal finestrino con curiosità, le pupille che inglobavano, pezzo per pezzo, grattacieli, palazzi, strade trafficate di città, mentre ricordi e pensieri scorrevano uno per uno dentro la sua testa, ammaliandolo.
Era da un bel po' che non tornava a New York, e anche solamente vederla dall'alto gli aveva procurato una certa emozione, la stessa sensazione di quando, ormai adulti, si riscopre qualche cosa della nostra infanzia, foto, disegni di quando si era bambini. Quella città era sempre stata il suo cuore, il suo prezioso gigante di metallo: lui e Gerard, quando riuscivano a sgattaiolare fuori dalle loro lussuose abitazioni disseminate per tutti e cinque i distretti della metropoli, esploravano i quartieri più squallidi e pericolosi nascondendosi nelle ombre degli edifici durante la notte. Tutto sembrava magico, misterioso in quelle ore buie: le luci fioche dei lampioni, le carte dei giornali e degli annunci pubblicitari sul pavimento, e poi le luci a neon dei bordelli, dei casinò, delle aziende, dei caffè, i cartelloni luminosi su cui scorrevano immagini di personaggi del mondo dello spettacolo che vendevano profumi e marchi che altrimenti nessuno avrebbe conosciuto, la folla di gente in cui non si distinguevano i contorni delle persone, i profumi più vari, dai più esotici e più noiosi. Di giorno, invece, osservavano la città solo in lontananza, dalle ampie vetrate di qualche skyscraper, come li chiamavano gli architetti con fare pomposo, e NY diventava solo un insieme caotico ma allo stesso tempo ordinatissimo di nastri d'asfalto paralleli, macchine, persone che occupavano ogni spazio libero sui marciapiedi come formiche indaffarate, le macchie gialle dei taxi e poi la distesa grigioblu dell'Hudson, con la Statua della Libertà che cercava di tirare su il morale a qualche miliardo di americani già in ritardo per il loro lavoro in ufficio biascicando riguardo a un qualche valore chiamato patriottismo che ormai sembrava esistere solo il quattro di luglio. E guardando quell'ammasso informe triste ma mastodontico ricordavano l'aria frizzante della sera prima, si guardavano con fare complice e già pensavano a quando sarebbero riusciti di nuovo a scappare all'aria aperta ridacchiando solo per bere qualche alcolico, abbordare qualche amore di una notte sola e fare finta di essere degli adolescenti come tutti gli altri, come in un gioco di ruolo che, quando finiva, mentre tornavano a casa all'alba barcollanti, li lasciava ebbri e storditi, tanta era stata la frenesia di sentirsi parte di un mondo che per loro era sempre stato esterno, diverso, estraneo.
Ricordava tutto così bene. Ogni minimo dettaglio, ogni secondo trascorso per la strada con qualche bottiglia in mano e una sigaretta in bocca, spalla contro spalla a cercare di tener testa alla vita insieme, tra i sorrisi come tra le lacrime.
Gerard era stato tutto quello, e molto di più.
Gerard era stato per lui come il respiro vivo della città nella notte, Gerard era stata la mano tesa che lo invitava a uscire dalla finestra e li faceva passare con un mezzo sorriso a qualche guardia, Gerard era stato il suo punto di riferimento, il suo unico amico, oltre a Ray, per interminabili anni.
- E' come tornare a casa dopo tantissimo tempo - confessò dopo un poco, mormorando.
Il fratello maggiore lo guardò a lungo. Riavere Mikey accanto a sé era come tornare a possedere una sicurezza che a lui era ormai quasi sconosciuta, tanto era stata lontana per lungo tempo. Sapeva di potersi fidare dei suoi consigli, sapeva di poter essere guarito dalle sue parole come spronato, rimproverato, consolato - la loro lontananza sembrava aver cancellato tutto questo, forse, ma ora che si ritrovavano assieme l'evidenza della forza del loro legame si faceva viva e reale, era percepibile nell'aria attorno a loro, non era ridotta a poche, caute frasi pronunciate di sfuggita al telefono.
Essere solo con Donald e Ray, come Gerard sapeva, lo rendeva ancora più malinconico di quanto già non fosse. In fondo, Ray, per quanto fratello, per quanto compagno, per quanto ammirato, era sempre stato rigoroso nel rispettare gli ordini imposti da loro padre: non era mai uscito senza il suo permesso, si era allenato strenuamente per diventare parte della famiglia. Il suo unico obiettivo era stato quello, mai aveva posto gli occhi verso altro. Con Mikey, invece, Gerard aveva rispettato le regole come le aveva infrante quando erano diventate troppo soffocanti, con Mikey aveva trovato libertà, nuove esperienze, con Mikey era diverso, semplicemente. Era equilibrio, un equilibrio che lo stabilizzava: averlo al proprio fianco lo rendeva più tranquillo e disinvolto, lo faceva sentire accompagnato nel processo che lo avrebbe portato, inevitabilmente, a diventare capo, gli faceva sembrare che il peso e la maledizione che portava sulle proprie spalle fossero in qualche modo alleviati, alleggeriti, forse perché condivisi.
Sarebbe bello fosse così per sempre.
Si morse il labbro.
- Potresti vivere qui, con Kristin e Rowan, quando tutto sarà finito... - parlò piano, soppesando ogni parola.
- Gerard Way, non iniziare a correre con le fantasie - Mikey alzò gli occhi al cielo, ridendo piano, e il fratello percepì la delusione attraversarlo come una lama.
Ma adesso è qui.
Pensa al presente, Gerard.
- Non corro con le fantasie - ribatté debolmente, iniziando a far abbassare il veicolo.
- Come no - il minore alzò gli occhi al cielo e si allungò per tirare una pacca sulla sua spalla.
Da quel momento nessuno dei due disse più nulla.
L'atterraggio avvenne abbastanza lentamente, in completo silenzio: il solo rumore che si poteva sentire era quello delle eliche che sferzavano il vento mentre scendevano sempre di più verso la piattaforma di cemento al di sopra dell'appartamento, accompagnato dall'impercettibile fruscio incolore dei loro pensieri. Non appena furono a terra, Gerard, con un sospiro stanco, spense il motore e scese immediatamente, chiudendo il portellone dietro di sé.
- Siamo solo noi due, qui? - domandò Mikey, la valigia tra le mani e una mano dietro la nuca a sistemare in modo distratto i capelli biondi.
Il pensiero di Gerard volò immediatamente al giovane che, quella stessa mattina, aveva lasciato, ancora addormentato, nel letto della sua stanza:
- No, in realtà, c'è una cosa di cui ti dovevo...
- Gee! - un urlo improvviso alle sue spalle attirò la sua attenzione.
Quella voce. Da quanto non la sentiva, così limpida e cristallina?
Si voltò di scatto, e la sua bocca si spalancò per la sorpresa: Frank, vestito solo con un camice bianco di cui le maniche gli arrivavano ai gomiti, stava correndo verso di lui, un sorriso enorme stampato sul viso pallido. I suoi occhi sembravano più chiari che mai, brillavano di una luce fioca che a tratti sembrava trovare la forza di ravvivarsi e diventare quasi un incendio bianchissimo e meravigliosamente puro, la sua bocca era screpolata e chiara, appena socchiusa, le guance lievemente incavate per la stanchezza.
Era come vedere un angelo caduto, debole ma incredibilmente forte, spezzato ma in qualche modo ancora in piedi, incrinato e meraviglioso.
- Gee! - esclamò di nuovo, mentre, finalmente arrivato davanti a lui, lo stringeva forte, ansimando, piegato per lo sforzo e per il dolore causato dal movimento eccessivo e dalle ferite che aveva ancora bendate.
Il maggiore lo fissò, incredulo, sorridendo a sua volta, senza sapere cosa dire - troppe cose avevano iniziato a turbinare, come impazzite, nella sua testa, e, annullandosi a vicenda, lo avevano ammutolito. Vide due suoi uomini avanzare a passo spedito verso di loro per paura che il prigioniero potesse fargli del male, ma li fermò con un cenno veloce della mano, e subito dopo, da immobile che era, paralizzato dall'improvvisa scarica elettrica che il contatto con quel corpo così magro, che sarebbe stato così semplice da spezzare, da frantumare, mosse le braccia per circondarlo e attirarlo ancora di più a sé.
Fu l'unica cosa che gli riuscì di fare in quel momento.
Stringerlo con tutto ciò che si era forzato a mettere da parte, stringerlo con lo stesso amore, la stessa tenerezza, con cui lo aveva toccato quel giorno, quando erano appena usciti dalla doccia, mentre lo asciugava piano piano baciandolo e carezzandolo. Non disse nulla, non ancora; non percepiva nemmeno il proprio respiro - sapeva solo che le sue mani lo stavano carezzando pianissimo, assaporando ogni centimetro del suo corpo.
Gli sembrò di non vederlo, non sentirlo da anni, gli sembrò che gli fosse mancato per una vita intera. Gli sembrò che il suo cuore ricominciasse a battere, che le sue dita ricominciassero a toccare, i suoi occhi a vedere, fu un risveglio dei sensi e delle emozioni, risveglio di ogni cosa che aveva messo a tacere nella violenza inaudita contro Frank e contro se stesso.
E ora lo carezzava, ora lo trascinava di nuovo verso il suo petto per sentirlo, ora avrebbe voluto semplicemente poggiarlo sul letto e spogliarlo, ardente, per sentirlo sospirare di nuovo, ora avrebbe voluto lavarlo e poi stringerlo tutta la notte senza che niente accadesse, semplicemente lasciando che i loro corpi rimanessero vicini, caldi, l'uno contro l'altro, ora voleva piangere per il candore di quella figura, ora voleva ridere di gioia per il loro ritorno l'uno verso l'altro, ora passava le dita sulla sua schiena, desiderando solo baciarlo, ora esitava, esitava ancora, impaurito da tutto ciò che sentiva, da se stesso, impaurito da ciò che aveva fatto, impaurito di averlo completamente fatto a pezzi, impaurito di fronte al destino, al futuro.
- Mi sono svegliato stamattina alle nove e un quarto ma non c'eri, ero da solo con delle guardie. Non sai quanto ho dovuto pregarle per venire qui e... oh, scusa. Non sono molto pulito. Avrei dovuto farmi una doccia, ma volevo aspettarti e non sapevo quando saresti tornato - dopo aver sussurrato al suo orecchio, fece per sottrarsi, imbarazzato, ma Gerard lo tenne saldo tra le proprie braccia, totalmente intento ad assaporarlo, toccandolo con una dolcezza che non avrebbe mai immaginato essere sua, con una dolcezza che mai avrebbe immaginato di poter donare.
In quella frase di scuse così frettolosa e confusa, in quelle parole che non sarebbe stato nemmeno necessario pronunciare, si poteva intravedere l'ombra del fragile Frank che non riusciva a nascondere di aver bisogno di lui: volevo aspettarti.
Gerard si trattenne a stento dall'impulso di baciare la sua fronte, le sue guance, il suo collo. Anche io ti ho aspettato, ho aspettato di ritornare, perché anche io ho bisogno di te, Frank, provò a dirglielo con gli occhi, pregando che lo capisse, pregando che le proprie mani, spaziando sulla sua schiena, potessero spiegarglielo e dimostrarglielo.
Pregando, perché nemmeno lui riusciva a perdonare se stesso.
- Non fa niente, sei... - fu la prima cosa che mormorò il più grande, ma non riuscì a continuare.
Sei bello, sei vivo, sei meraviglioso...
Fottuta puttana. L'eco delle ultime parole che gli aveva rivolto, qualche giorno prima, lo colpì come uno schiaffo, facendolo impallidire.
Era stato orribile, come poteva adesso pretendere che Frank lo accettasse in quel modo? In un attimo riprese coscienza di quello che era successo, della loro brusca separazione, e subito dopo si ritrovò a rivedere davanti a sé le mani aggrappate al cornicione di quel palazzo in modo disperato, le ferite, a sentire la voce tremante che gli diceva di andare, e le sue mani che si allungavano stremate per salvare chi non avrebbe mai sopportato di perdere. Freneticamente, scavò nel fondo delle iridi chiare del più piccolo, e vi trovò, celate, una ritrosia, una paura sottile nel concedersi a quell'abbraccio, quella stretta, il respiro ansimante di una preoccupazione, le lacrime di amore a pezzi che non si erano nemmeno accorti di costruire e che li aveva travolti, impotenti, tutto d'un tratto, separandoli con la forza di un fiume in piena.
Frank lo voleva, ma era terrorizzato.
I suoi occhi erano spalancati come quelli di un cervo di fronte al pericolo, quasi increduli, le ciglia lunghe sbattevano frusciando di tanto in tanto, il suo cuore palpitava alla velocità della luce.
Si abbracciarono di nuovo, Gerard si morse il labbro per trattenere le lacrime, gli carezzò il collo, di nuovo, dimenticandosi di ogni altra cosa, dimenticandosi del mondo intero eccetto che del fragile, bellissimo fiore che era tra le sue mani.
Guardò il cielo, e poi di nuovo quegli occhi di vetro luccicante, come cocci sparsi al sole.
Ci sarebbe stato bisogno di parole? Quali parole, quali? Come poteva essere rappresentata la loro tragedia, come lo struggimento della fuga da un amore, come un'attesa, come i loro fili sottili che si intrecciavano sempre di più nonostante non avrebbero dovuto, non avrebbero potuto, come definire l'incantesimo che si era nascosto dietro a ogni loro sguardo, ogni loro provocazione?
Poesia.
Tutto quello, nel bene e nel male, nel dolore più aspro e nella gioia più intensa, era pura poesia.
E Gerard e Frank se lo dissero, in quel momento, con gli occhi.
***
Verso le dieci di sera, Gerard bussò alla porta della sua stanza.
Frank non era rimasto con loro per molto tempo, quel pomeriggio: si era ritirato quasi subito, rifiutando anche, con tenera gentilezza, di mangiare insieme. Il suo sguardo era sembrato, tutto d'un tratto, confuso e rabbuiato, quasi improvvisamente la felicità per il ritorno del più grande si fosse tramutata, toccandolo e ricordando, rivivendo, in terrore, in rabbia, in tristezza, in dolore acuminato, una sofferenza che lo aveva piegato di nuovo a ciò che era prima - la vita che il giovane Way aveva salvato era spezzata, già rotta, già consumata, stringerlo e portarlo via dal baratro di vuoto e sangue era stato come prendere un giocattolo rotto dall'asfalto e appoggiarlo sul tavolo di casa senza riparare nulla. E rimanere immobile a guardare. Ad aspettare di essere pronto. E rimanere immobile a guardare e a soffrire, e a veder soffrire. Lo aveva messo, frammentato, in un luogo sicuro, lontano dalle mani crudeli di chi voleva dilaniare la sua carne e spegnere i suoi occhi, ma non bastava - non bastava, avrebbe dovuto raccogliere i pezzi, uno a uno, guarire ogni ferita, e da ogni ferita far nascere bellissimi fiori. Avrebbe dovuto, avrebbe voluto - eppure era tutto così strano adesso che si potevano toccare, era tutto così complicato, era tutto così innaturale e imbarazzato, così terrificante, così mostruosamente bello e affascinante: sfiorarlo era mozzafiato, crudele e meraviglioso. Tra di loro vi era un'impotenza, una contemplazione estatica, ora che avevano la possibilità di parlarsi, di carezzarsi di nuovo, che li rendeva immobili, smarriti.
Prima di salire per lavarsi e riposare, il ragazzo lo aveva salutato carezzandogli piano il dorso della mano, gli angoli della bocca lievemente all'ingiù, senza una parola, senza niente che non fosse quel tocco piccolo e timido, e poi era sparito come se non fosse mai stato lì, addossato al suo petto, e Gerard aveva quasi avuto l'impressione di sentire la forma calda del suo corpo impressa sul suo petto, come se mentre si stringevano Frank fosse sprofondato dentro di lui lasciandogli un segno indelebile, piegandolo su se stesso, schiacciandolo tanto da portargli via il respiro. Così aveva cenato da solo con Mikey, parlando piano della figura dormiente a cui aveva tenuto compagnia ogni ora del giorno e della notte, quel corpo esile sotto le lenzuola bianche illuminato dalla luce fioca del tramonto che muore infrangendosi in stelle, e poi dai primi raggi del sole che screziavano il cielo bianco di oro e viola. Il fratello aveva voluto sapere tutto, nei dettagli, lo aveva ascoltato e rassicurato, aveva sorriso, mentre pazientemente veniva a conoscenza di ogni loro istante, ogni secondo della loro storia, e lasciava che le parole dell'altro fluissero libere e senza ordine, senza regole, mentre ascoltava del rosso cremisi del casinò, della strafottenza di quel prigioniero filosofo, della televisione accesa insieme a Chopin e del sesso, della loro doccia insieme, dei loro abbracci, del suo rifiuto, della sua freddezza, del loro precipitare e farsi incendio, devastazione.
Vai da lui, gli aveva detto alla fine, semplicemente, indicando il piano superiore. Penso che vi stiate aspettando.
E Gerard aveva salito le scale quasi correndo, sospeso, sospeso nel respiro e in ogni passo, nello sguardo, nel rumore dei suoi passi ovattati dalla moquette.
Frank gli aprì piano, con un sorriso mesto e imbarazzato, lo stesso che aveva sfoderato quando, qualche ora prima, tra le sue braccia, si era accorto della presenza Mikey e si era stretto al suo fianco, rosso fuoco.
Rimase a guardarlo per un po' con il viso che sporgeva appena dalla fessura, timido.
Senza dire assolutamente nulla - sembrava lo stesse ammirando, studiando e odiando allo stesso tempo, di uno sguardo che trasmetteva un'estrema fragilità e allo stesso tempo tanta forza da ammansire, far indietreggiare, disarmare.
- Ciao - lo salutò solo dopo che ebbe visto le sue labbra spalancarsi per lo stupore del loro silenzio inatteso, a bassa voce ma deciso, con le guance scarlatte.
L'ho rovinato, Mikey, e io non avevo mai rovinato nessuno.
- Ciao, io... - Gerard si schiarì la gola, sistemandosi nervosamente il colletto della camicia bianca - Posso entrare?
Per un attimo ci fu silenzio, lui osservava il petto di Frank che si alzava e si abbassava velocemente e Frank semplicemente conficcava le proprie pupille nelle sue, dandogli quasi l'impressione di annegare.
- Sì, certo.
Il ragazzo, dopo averlo fatto passare ed essersi chiuso la porta alle spalle, si sedette sul letto, con la testa incassata nelle spalle. Gerard rimase in piedi accanto a lui.
Si guardarono ancora, il viso affilato di Frank era colpito dalla luce luna, più bello che mai. Pareva una silfide, una magnifica creatura argentea del cielo, una stella eterna venuta in terra come dono ai mortali. Catturava in modo irreparabile, le ombre si allungavano su ogni curva in netto contrasto con la carnagione pallida, resa ancora più bianca dai raggi chiari della notte.
- Domani... - il maggiore cominciò insicuro - Ti dovremo interrogare, ti chiederanno di dire tutta la verità adesso, dovrai...
- Davanti a tutti? - l'altro lo interruppe subito, dondolando le gambe e i piedi lentamente.
Sembrava disinteressato, preoccupato ma in modo distaccato.
- Non sei obbligato - Gerard si avvicinò a lui - Se vuoi, puoi anche parlare da solo con me e poi...
- Chi ti dice che voglio parlare da solo con te? Magari voglio parlare con da solo con Ryan, il dottore. Lui è gentile. O almeno, è stato gentile con me nonostante io sia il figlio di chi vorrebbe solo vederlo morto insieme a tutti gli altri, sai, tutti gli altri tra cui anche il suo fidanzato, Brendon Urie, quello che mi ha tagliato la guancia. Brendon è venuto insieme a Ryan stamattina a vedere come stavo quando mi sono svegliato. Mi hanno detto che non era importante che avessi le manette perché le guardie mi stanno controllando. Mi hanno detto anche che dovremo stare qui, io e te. E anche Mikey suppongo. Ryan mi ha anche dato un budino finalmente al cioccolato. È un controsenso che sia un dottore e un mafioso. Spara alla gente e cura altra gente. Fa morire e preserva dalla morte. Avvelena e salva. Ricompone e dilania. È bizzarro. Non trovi?
Non ho mai rovinato nessuno, non mi sono mai sentito così.
Quando finì di parlare, Frank fece un sorriso, questa volta spento, amaro, poi serrò la mascella.
Gerard smise per un istante di respirare. Non disse nulla, aveva l'impressione di non avere più voce e sentiva un nodo nella gola soffocarlo ancora e ancora, tanto da dargli quasi la nausea.
- Perché hai salvato la vita di una puttana? - il più piccolo lo domandò piano, le mani che tremavano.
Questo la dice lunga.
Su cosa?
Non hai mai rovinato nessuno, perché non lo hai amato, ma quando hai rovinato lui, hai rovinato anche te stesso, hai rovinato te stesso perché lo ami, e non volevi allontanarlo.
- Tu non sei una puttana, Frank - lo disse lentamente, avvicinandosi a lui.
- Ma lo hai detto tu.
Tu l'hai mai rovinata, Kristin, Miks?
- Non volevo.
Sì, Gerard. Con le mie bugie e i miei errori, con i miei dubbi, con le mie paure.
- Ma lo hai detto - la voce del più piccolo si incrinò improvvisamente, le sue dita strinsero convulsamente il lenzuolo, come se stessero cercando un appiglio, un qualcosa di saldo a cui aggrapparsi mentre tutto crollava.
I suoi occhi iniziarono a farsi umidi e a riflettere milioni di luci. Le lacrime che cadevano lungo le sue guance erano uno spettacolo che avrebbe lasciato in ginocchio il più santo e il più empio.
Gerard si sedette.
E cosa fai, Mikey, quando rovini?
Frank stava piangendo.
Singhiozzava, tirando su col naso, arrossato, stretto su se stesso come se non avesse nient'altro per proteggersi che le sue stesse braccia, le ciglia lunghe e nere bagnate delle gocce di un'anima sofferente.
Esattamente lì davanti a lui, piangendo.
Piangendo, si stava mettendo completamente a nudo, alla sua mercé, chiunque prima di piangere lo avrebbe spinto via e avrebbe chiuso la porta per orgoglio, per non mostrare troppo di sé, troppo della propria sofferenza, ma lui no, Frank no, Frank stava piangendo e non si stava preoccupando di fare piano e di essere aggraziato, o di asciugarsi gli occhi, Frank stava piangendo e sussultava, Frank stava piangendo e stringeva i pugni per sopprimere le grida, Frank stava piangendo e non riusciva quasi nemmeno a respirare e allora apriva la bocca a metà e per far entrare l'aria, e lasciava che le lacrime venissero gettate ovunque, sulle sue mani e sul suo collo e sugli angoli della bocca, senza ordine, trasparenze argentate come lui.
E cosa fai, Mikey, quando rovini?
Non osava sfiorarlo.
Penso tu lo sappia, già, Gerard.
- Frank - lo chiamò con un mormorio appena.
Gli risposero solo singhiozzi, scossoni violenti che scuotevano quel piccolo corpo magro. Allungò le dita verso il suo mento, lo sfiorò:
- Guardami, ti prego.
Frank sollevò gli occhi annacquati. Era così complesso in quel momento, in ogni suo riflesso, così intricato, così difficile - al più grande parve di vederlo di nuovo nudo appena dopo la doccia, senza veli, senza possibilità di mascherarsi, di mentire, gli sembrò di vederlo in tutto e per tutto, con ogni goccia della sua essenza, con ogni nodo, ogni paura, rabbia, tristezza, ogni frammento del labirinto immenso che sembrava costituire quello splendido essere.
- Sono orribile - il ragazzo tremò di nuovo, nascondendosi il viso tra le mani - Sono orribile, mentre piango. Non guardarmi.
Le dita di Gerard scesero sul suo collo pieno di tatuaggi, lievi.
- Non sei per niente orribile, solo fragile - mormorò, pianissimo, accarezzandolo.
- Forse è per questo che non voglio che mi guardi. Forse ho paura di essere fragile. Ho paura di essere fragile, con te.
- Frank...
- Ryan mi ha detto che sei rimasto sempre accanto a me. Hai mangiato vicino a me e hai dormito vicino a me. E mi cambiavi le flebo e sistemavi i cuscini. Non ti muovevi mai, solo per andare in bagno e tornavi in fretta. Mi ha detto si è chiesto cosa potessi avere di speciale per non lasciarmi nemmeno un istante. E quando mi sono svegliato stamattina il posto accanto a me profumava di te e ho capito che avevi dormito lì.
Gerard non disse nulla, la mano che indugiava su una delle clavicole pronunciate.
- Ho così paura - continuò il più piccolo, pianissimo, chiuso nelle sue spalle - Ho così paura, e ho... Ho bisogno di baciarti ma...
In un istante, portò le sue labbra screpolate vicino al suo viso, chiudendo gli occhi.
- Ho bisogno di baciarti - ripeté, esausto, appoggiando la testa alla sua spalla, la bocca ancora rivolta verso la pelle calda del maggiore. Sembrava stremato, bisognoso unicamente di rimanere accanto a lui, di nutrirsi delle sue labbra.
Lo cercava come l'acqua in un deserto, come l'aria, lo pretendeva, lo reclamava come necessario.
E tutto in uno sguardo, in un gesto.
- Anche io ho bisogno di baciarti - mormorò Gerard, con un sorriso piccolo, per contrastare le lacrime che premevano sulle sue palpebre.
Lasciò che il naso di Frank sfiorasse la sua mascella, che i loro respiri si sincronizzassero, le loro mani si cercassero, pianissimo, intrecciandosi senza fretta.
- Non ho bisogno che tu mi dica che mi ami, so che lo fai, e credimi quando ti dico che se ci penso vorrei ballare e cantare di gioia. Ma non ho bisogno che tu mi dica che mi ami, perché so che lo fai, forse l'ho sempre saputo, o forse no, ma so che lo fai, in qualche modo, che sia per i tuoi baci, che sia per il modo in cui mi guardi, o per quello in cui mi hai tenuto stretto, che sia perché sei rimasto accanto a me mentre ero incosciente e mi hai salvato la vita rischiando la tua. Non ho bisogno che tu mi dica che mi ami, so che lo fai, ho bisogno solo che tu abbia il coraggio di ammetterlo. Ho bisogno solo che tu abbia la pazienza di sentirlo, ho bisogno solo che tu abbia la forza di affrontarlo. Ho bisogno solo che tu abbia la debolezza per ammetterlo, la gentilezza per comprenderlo. Ho bisogno che tu abbia il desiderio di tenere sempre acceso tutto questo. Non ho bisogno che tu mi dica che mi ami, perché se non lo vuoi vivere, questo amore è solo cenere. E io, Gerard, io sono un fuoco inestinguibile, e io, Gerard, io non ho bisogno di cenere.
E poi lo baciò.
Nel modo più semplice, si limitò a premere la propria bocca sulla sua, con timidezza e dolcezza. Lo lasciò cristallizzato, immobile, il cuore che martellava nel petto.
Gerard si sarebbe aspettato qualsiasi cosa - rabbia, un abbraccio, un rifiuto, persino sesso - ma mai un bacio. Mai un bacio così.
Un bacio che lo voleva e basta, e lo chiamava piano. Un bacio vago e potente, di una tenerezza che lo lasciò completamente stralunato e incantato.
- Ho un po' di paura per domani. Per l'interrogatorio. Rimani?
- Sì, io...
- C'è un materasso in un angolo. Buonanotte, Gerard.
Ci fu un po' di silenzio, passi.
- Buonanotte, Frank.
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