° • candles • °

A/N: first kiss,  AU teenage! gerard and teenage! frank




- Tu sei fottutamente pazzo - Gerard chiuse la porta di casa, attento a non fare rumore, ma sibilando con un tono di voce abbastanza alto da farsi sentire dal diretto interessato, le guance rosse e i capelli ancora scompigliati. Cercò di sistemarsi le pieghe della felpa non stirata, ma quando vide che qualsiasi tentativo risultava pressoché inutile, si arrese alla solita indecenza con uno sbuffo sonoro. Alzarsi dal letto a quell'ora era stato abbastanza traumatico, ed erano anni che non superava un risveglio senza caffè. Non poteva certo pretendere di essere nella migliore delle sue condizioni, la quale - e lo sapeva per esperienza - già non era esattamente ottimale.
A passo spedito, si avvicinò all'altra figura, avvolta nell'ombra della notte, percorrendo il breve vialetto in pietra che, serpeggiando tra quel piccolo accenno di erba giallognola, portava a un cancelletto di ferro arrugginito, verniciato di un triste marroncino spento, che sembrava invitare le persone ad uscire, più che ad entrare.
Inspirò l'aria fresca, il buio che dilagava nei suoi polmoni, mentre lasciava l'ingresso alle proprie spalle e si muoveva per uscire sulla strada. Il suo orologio segnava l'una e trentasette; la sua casa, dietro di lui, era immersa nella più totale oscurità, con le finestre sprangate e quel minaccioso tetto spiovente. La facciata di mattoni scuri trasmetteva un non so che di caotico, disordinato, e rispecchiava pienamente sia la casa che la famiglia Way.
Un enorme, totale, disperato, casino, pensò Gerard, sorridendo con amarezza. D'altra parte Donna, sua madre, si era ritrovata a dover crescere i suoi figli completamente sola, dopo che il marito era fuggito con un'amante, una ventenne che aveva sperato di trovare l'amore della sua vita in un uomo con il doppio della sua età. Suo padre non aveva esitato ad abbandonarli nemmeno un secondo. Se ne era andato come niente. Aveva preso il suo solito borsone scuro, un ultimo bacio sulla guancia a tutti, quasi stesse semplicemente partendo per un altro dei suoi viaggi di lavoro, e poi era svanito per sempre dalla loro vita.
E da quel momento il posto a destra sul divano era stato libero per "amici", amici che non arrivavano mai.
Il suo letto occupato solo per metà.
Il suo armadio vuoto.
Il suo posto a tavola deserto.
Niente era rimasto, se non quel vago bacio su una guancia che Gerard si era pulito anni prima.
Adesso basta.
Interruppe bruscamente i ricordi e continuò a camminare. Non aveva più senso pensarci. Era diventata la normalità. Ormai era abituato a quella costante fitta sofferente quando i suoi occhi si posavano su qualcosa che prima era appartenuto a lui.
L'uomo che non aveva mai voluto crescerlo.

Sospirò.
Basta, si ammonì.
E' passato.

Il cielo era di un nero impenetrabile, con qualche sfumatura di blu che lo rendeva un poco più chiaro ma immensamente più denso, quasi soffocante, se non fosse stato per le luci bianche, arancioni e blu della città, in un turbinio di colori che variavano da lampione a lampione, a seconda di quanto recentemente la lampadina fosse stata sostituita.
Al contrario, nessuno degli edifici era illuminato dall'interno. Le vetrate lucide degli uffici e dei pochi grattacieli giacevano immobili, riflettendo solamente muta oscurità, giganti di metallo, i guardiani silenti e imperturbabili della città.
Il silenzio regnava sovrano su tutti i palazzi e le abitazioni, interrotto solamente da qualche grido distante appartenente a volti senza nome e dal miagolare del gatto randagio di passaggio, quella piccola ombra rasente ai muri che soffiava non appena un paio di gambe appartenenti a un individuo - solitario, ubriaco, confuso, di passaggio - si presentava lungo il suo percorso. Non c'era vento, non c'era pioggia, né sole; nemmeno le stelle erano ben visibili. C'era solo quell'indecifrabile atmosfera notturna, ovattata. Nota solo a pochissimi esseri viventi che, amanti della malinconia perlacea della luna, trovavano corrispondenza solamente in quel magico, breve lasso di tempo immerso in un'immensa solitudine.
Gerard strizzò gli occhi, mentre si sforzava di addocchiare qualcosa nell'oscurità. Quando i contorni della piccola figura che qualche minuto prima aveva attirato la sua attenzione cominciarono a delinearsi, si mordicchiò il labbro, camminando sempre più veloce:

- Sei fottutamente pazzo - ripeté, quasi a formare l'eco della sua stessa voce, la bocca adesso a metà tra un sorriso e una sorta di rabbia orgogliosa, in un'espressione che si era ritrovato ad avere spesso quando era vicino a Frank.

- E tu sei un dormiglione, ho lanciato una cosa come dieci sassolini sulla tua finestra prima che muovessi il culo e ti alzassi! - rise piano quello, per poi fargli la linguaccia, con la sua solita aria infantile, quella che faceva sì che qualsiasi persona stravedesse per il piccolo Iero.
L'ultimo arrivato alzò gli occhi, nel buio. Non aveva mai sentito il profumo di quella particolare ora delle sue giornate, lo stordiva, quasi, ma non gli impedì di ammirare il ragazzo in piedi a poca distanza da lui, quel sorriso a metà tra l'adorabile e lo sfacciato dipinto sul volto, che ancora conservava una parvenza della smorfia appena fatta. Aveva il cappuccio della felpa scura alzato sulla testa, come per nascondersi da sguardi indiscreti, i suoi immancabili guanti neri su cui erano stampate le falangi di uno scheletro, i jeans a vita bassa attillati, troppo attillati, il ciuffo scuro di capelli che appena si intravedeva. Lo zaino che generalmente utilizzava per la scuola era appoggiato sulle sue spalle e sballottava ogni volta che si apprestava a ridere.
Era così bello. Era una bellezza che colpiva Gerard con troppa forza, una bellezza che lo trascinava. Corrispondeva alla sua parte più intima, e allo stesso tempo alla sua totalità. Più lo guardava, più sentiva lo stomaco attorcigliarsi, il suo cuore straziato dal desiderio anche solo di toccarlo. Avrebbe voluto piangere, per quella pelle immacolata, quelle dita sottili, quella labbra rosate, quello sguardo così intenso. Avrebbe voluto avvicinarsi, avrebbe voluto, con un respiro, ritrovarsi a sfiorare le sue labbra.
Avrebbe voluto...
Distolse immediatamente lo sguardo, come ferito, e sospirò, incrociando le braccia al petto, illuminato solo dalla luce arancione di un vecchio lampione, poi si passò una mano tra i capelli corvini per cercare di sistemarli in modo almeno decente e si fece più avanti di qualche metro, fino a che non fu esattamente davanti a lui:

- Non sono nemmeno le due del mattino, le persone normali non chiedono di scendere di casa a quest'ora - bofonchiò, fissando il marciapiede. Qualche mozzicone consumato di sigarette, una lattina di Coca Cola accartocciata con la quale qualcuno probabilmente aveva giocato a calcio, i lacci sporchi delle sue All Star, che, perennemente slacciati, erano probabilmente finiti dentro qualche pozzanghera il giorno prima.
Annusò l'aria.
Conservava ancora una certa traccia umida, che portava alla mente il ricordo del temporale della sera prima, ma che era troppo insignificante per preannunciare l'arrivo di una nuova pioggia.
D'un tratto si sentì simile a quell'inutile e vago aroma, e si lasciò sfuggire un sospiro.
Gerard Way non era speciale.
Gerard Way era tutto, ma allo stesso tempo assolutamente niente.
Gerard Way era quell'odioso intermezzo.
Gerard Way era quella listarella di legno ammaccata del ponte, a tre quarti dalla riva.
Gerard Way non aveva i capelli colorati, tatuaggi, piercing, cose particolari.
Gerard Way non eccelleva nello sport, né a scuola, né in arte, né in qualsiasi altra cosa una persona potesse fare per hobby.
Gerard Way non era "tipo" da niente.
Gerard Way non aveva quella magica aurea del tenebroso rockettaro fumatore di sigaretta che profuma di caffè, alcol o droga, ma nemmeno quella del tranquillo ragazzo diligente e pulito, bravo a scuola, bella famiglia, vita perfetta. Né quella del ragazzo gay bullizzato perché porta un maglione rosa o una gonna, né quello della puttanella che succhia il cazzo ai giocatori di football appena prima della partita e poi se ne va lasciando il numero di telefono nell'armadietto del capitano della squadra. Né quella del tipico nerd con gli occhiali quadrati pieni di scotch che si veste con i maglioni di lana che la nonna gli prepara a Natale, né quella del ragazzino problematico e iperattivo, immancabilmente sexy, che durante le lezioni si diverte a provocare i professori o a prenderli per il culo davanti a tutti e finisce in presidenza almeno due volte alla settimana.
Non che non avesse caratteristiche. Ma non le possedeva in modo così spiccato da sentirsi appartenente a una categoria, a un qualcosa. Gerard Way era semplicemente Gerard Way. Che equivaleva a... beh, niente di che, in realtà.

Si morse il labbro ancora una volta, accorgendosi che non c'era nient'altro su cui posare lo sguardo, per poi risolvere di concentrarsi sulle macchie più scure di asfalto. Sospirò. Tutto, pur di non ritrovarsi e a fissare quegli occhi verdi e accorgersi che ci stava piano piano affondando dentro.

- Sono pieno di sorprese - a quel punto il più basso schioccò la lingua, inarcando un sopracciglio - Dovresti saperlo, siamo amici da anni, Gee.

Detto questo, allungò una mano alla tasca della felpa e tirò fuori, lentamente, un pacchetto nuovo di sigarette Lucky Strike e il suo accendino rosso, infine si mordicchiò il labret metallico e fece un piccolo cenno sbilenco e irresistibile per invitarlo a servirsi.

- Mi piacciono le tue sorprese - Gerard allungò subito due dita, alzando il volto quasi per istinto.
Quando incontrò quelle pupille scure, ci fu un attimo di immobilità totale. Entrambi si guardarono, lentamente, interrompendo ogni cosa che stavano facendo.
Il maggiore sussultò.
Erano così belli, i suoi occhi chiari, brillanti, illuminati dalla luce del lampione. Avrebbe tanto voluto baciarlo, prendergli le mani, accarezzarlo, tracciare con le dita il contorno di quel tatuaggio che aveva attorno al polso. Rimanere con lui nella notte - per sempre. Nascosti dal mondo, nascosti dagli altri. Nascosti dal bruciore del sole, nascosti, apparentemente, persino dalla morte. Due piccole lacrime di cristallo, pietrificate un attimo prima di cadere. Sempre insieme, nel loro precipitare. Si sarebbero incendiati come stelle, sfiorandosi, si sarebbero accesi come il fuoco.
Entrati in quel magico reticolo di sguardi, rimasero senza fiato. Il tempo incredibilmente sembrò fermarsi per concedergli ancora uno sguardo, ancora un'impercettibile fantasia, ancora un barlume del luccichio dei loro occhi che si incontravano, almeno fino a che le loro dita non si sfiorarono, collidendo bruscamente sulla plastica d'imballaggio del pacchetto. Il più grande non perse tempo: appena percepì una mano tiepida che esitava sulla sua, fredda, prese il sottile tubicino bianco tra le dita e l'accendino, poi si voltò per accendere e infine, completata ogni azione con una precisione meticolosa, lo passò all'amico, lo sguardo di nuovo abbassato.
Tra loro si fermò un silenzio sterile. Non era più denso dei loro sguardi, ma deserto, arido. Guardavano il cielo, i palazzi, le stelle, piccolissime perle roventi, incastonate in quel meraviglioso mantello scuro troppo denso, troppo soffocante, per i loro sogni, per la loro vita, per l'intrecciarsi di tutte le vicende del tempo. Guardavano l'uno dentro l'altro, cercando di capire. Cercando di accettare.

- Quindi mi hai quasi rotto il vetro della finestra solo per fumare una sigaretta insieme durante la notte del tuo compleanno o c'è altro? - chiese dopo un po' Gerard, desideroso solo di rompere quell'immobilità, scrollando le spalle dopo aver inspirato una lunga boccata di fumo grigiastro. I muscoli del suo viso immediatamente si rilassarono, riconoscendo il familiare odore della nicotina. Chiuse gli occhi, con un sospiro di soddisfazione e sollievo, ma li riaprì subito dopo.
Il lampione arancione appena accanto alla sua casa illuminava entrambi, chiudendoli in un cerchio di luce che li separava dal resto del mondo, buio e tenebroso.
Silenzio di nuovo, questa volta per poco, però:

- Non pensavo lo avresti notato - mormorò infatti qualche secondo dopo il più basso, picchiettando sulla sua sigaretta per far cadere tutta la cenere.
Gerard inarcò un sopracciglio, senza il coraggio di guardare l'espressione con cui la frase era stata pronunciata, anche se immaginava, nella sua testa, un piccolo sorriso indecifrabile:

- Notato cosa? - chiese, con finta noncuranza, soffiando fuori un po' di fumo dalle narici.
Allungò una mano fuori dal loro cerchio di luce, verso l'oscurità.
Le punte delle sue dita si scurirono. Le mosse, lentamente; gli sembrarono immerse nel catrame. A fatica riuscì a ritirarle, osservandole mentre si muovevano, lievi, in quel chiarore color arancio, freddo e artificiale.

- Che adesso è già domani, quindi è il mio compleanno, pensavo... - il più basso esitò, lasciando in sospeso la frase, ma dopo qualche secondo scosse la testa, come per scacciare dalla sua testa qualche strana idea quasi fosse stata solo una zanzara fastidiosa, e poi tacque.
Pensavo che tu non avresti mai potuto notarlo.

- Sono semplicemente attento a queste cose - Gerard scosse la testa, come per sminuire quel piccolo dettaglio.
Non voleva che Frank pensasse di interessargli.
Non voleva dover mentire quando glielo avrebbe chiesto.

- Oh - il minore sbatté le ciglia, mentre tutte le sue illusioni tutto d'un colpo svanivano, poi abbassò lo sguardo, imbarazzato, ma senza indugio dopo qualche secondo riprese a parlare:

- Comunque no, non ti ho chiamato solo per fumare - sorrise ancora, fissandolo a tratti, continuando a muovere freneticamente le dita lungo tutta la sigaretta. Continuava a spostare il peso da una gamba all'altra e a gettare lo sguardo ovunque gli capitasse: sembrava incredibilmente nervoso. Il che, per un ragazzo affetto da un lieve disturbo da deficit dell'attenzione con una sfumatura di iperattività non indifferente, era dir tanto, dal momento che era praticamente sempre nervoso.
Fece una pausa, nella quale rivolse lo sguardo alla luna, intrappolandola, bianca e lucente, nelle sue pupille, poi riprese a parlare, avvicinandosi un po' di più a lui:

- Voglio... Devo portarti in un posto - sussurrò, mordicchiandosi il labret, il fumo che usciva dalle sue labbra appena socchiuse.

- Ora?

La domanda aleggiò per qualche secondo nell'aria fredda.
Era l'una e mezza di notte. Dove doveva portarlo, a quell'ora? Le strade non erano sicure, Belleville non era sicura. Il loro quartiere in particolare. E purtroppo gli eroi dei fumetti non erano riusciti a salvare il ragazzo morto di overdose, tre anni prima, nel parco. O la ragazza stuprata in un vicolo isolato mentre tornava da una festa, la sera tardi. Non erano nemmeno riusciti a salvare il padre di Frank. Il poliziotto eroicamente morto in una sparatoria nella gioielleria appena due strade più in là da casa Way. Due svolte, un centinaio di metri, e improvvisamente ti ritrovavi nel punto in cui avevano ammazzato un uomo per delle fottute collanine d'oro. Non molto rassicurante, in effetti. Ma quei ragazzi erano nati e cresciuti lì, e non c'era modo, per loro, di andarsene. Almeno per il momento.

- Ora - annuì il più basso, sistemandosi il cappuccio con una mano sola - Vuoi?

- Beh...

Gerard esitò, torturando la sigaretta e guardando di nuovo a terra, senza il coraggio di cercare di perdere lo sguardo nel cielo.
Uscire di casa nel bel mezzo della notte senza dire niente né ai suoi genitori né a Mikey era un rischio, sia per la temibile mira di Donna Way quando aveva alla mano un cucchiaio di legno sia per tutte le strade malfamate che avrebbero dovuto attraversare da soli, ma d'altra parte come avrebbe potuto rifiutare?
Era Frank.
Frank, quelle labbra che appena cominciavano a incresparsi lo facevano sentire pieno di milioni di stelle ardenti, infuocate, una furia luccicante di emozioni che invadevano il suo corpo lasciandolo senza fiato.
Conglomerati di piccole luci, che insieme cominciavano a brillare, infondendogli calore, luce.
Oh, avrebbe voluto urlare.
Urlare al cielo quanto lo amava.
Quanto quel sorriso lo rendeva felice.
Quanto quel sorriso faceva vorticare ogni cosa, trascinando l'intero modo in quella spirale di comete bianchissime, cogliendolo tutto d'un colpo, travolgendolo come mai niente aveva fatto.
Con violenza, e accanimento, ma era una violenza in qualche modo bella, era la violenza dell'amore in tutto il suo significato, in tutto il suo peso.
Non avrebbe mai potuto dire di no.
Non a questo.
E in ogni caso, non lo avrebbe lasciato andare da nessuna parte da solo. Già aveva corso un rischio, arrivando fin lì da casa sua. Lo voleva sapere al sicuro, e l'unico modo per poterlo fare era o convincerlo a ritornare da sua madre - e questo, conoscendo la testardaggine dell'amico, sarebbe stato impossibile - o rimanere con lui e fare esattamente quello che gli avrebbe detto.

- Quindi? Mi serve una risposta - il più basso sollevò un angolo della bocca, e poi gettò fuori un po' di fumo dalle narici, distrattamente - Non abbiamo a disposizione molto tempo, Gerard Way.

Il maggiore alzò lo sguardo, sorpreso che l'amico lo avesse chiamato per nome e cognome, aspettò ancora qualche secondo, e poi disse, vincendo ogni timore:

- Va bene. Però torniamo prima che faccia mattina.

Frank non rispose. Lo prese per mano e iniziò a condurlo con sé, semplicemente.
Scivolarono come tenebra densa fuori dalla luce del lampione e si addentrarono per strade che sembravano non conoscere più, tanto il loro aspetto era mutato da quando, nelle ore piene di luce, si erano presentate ai loro occhi con un che di familiare.
Mossi pochi passi, da dietro i fari di una macchina li illuminarono, così si appiattirono contro il muro, in silenzio, continuando a camminare, con la sola compagnia delle loro ombre.

- Mi dici dove mi stai portando oppure... - cominciò Gerard, un attimo prima che la sua voce venisse sovrastata da un rumore più forte.
La macchina che pochi istanti prima era dietro di loro li oltrepassò ad alta velocità, sfiorando appena le loro figure, la radio ad alto volume. Uno dei passeggeri gridò loro qualcosa che non sentirono, sporgendosi dal finestrino per pi rientrare ridacchiando.
Il più piccolo sembrò non fare caso a tutta la scena, e, quando tornò il silenzio, mormorò solamente:

- E' una sorpresa.

Ma non sembrava né gioioso né entusiasta. Non che fosse triste, piuttosto... Concentrato. E nervoso. Tremendamente nervoso.
Il più grande non fece in tempo a chiedersi il motivo di tutta quella tensione che sentì i suoi occhi su di sé, con un sopracciglio inarcato, ma quando alzò lo sguardo, vide che il verde di quei magnifici occhi, da torbido, tutto d'un colpo si era fatto limpido, dolce:

- Ti fidi, vero? - chiese quello, piano.
Con il pollice, accarezzò teneramente la mano di Gerard, dapprima esitante, e poi sempre più sicuro. Le sue dita erano delicate, stavano cercando di tranquillizzarlo e di farlo sentire protetto, anche se in un modo un po' goffo e impacciato. Il maggiore lo lasciò fare solo per qualche secondo, con il cuore che batteva forte, ma quando le carezze cominciarono a spingersi sopra il polso, sempre più lente, con uno strattone si liberò:

- Guarda, c'è un dollaro per terra - mentì, chinandosi nell'oscurità.
Aspettò qualche secondo, in cui mosse le mani alla ceca nell'asfalto, per poi balbettare, tremendamente imbarazzato:

- Oh, mi ero sbagliato. Era solo una... cartaccia - mandò giù il groppo in gola e ficcò le mani nelle tasche dei suoi skinny, cercando in tutti i modi di non fare caso all'espressione delusa di Frank, che lo fissava, indeciso se interpretare quel gesto come un terribile rifiuto o meno.
Per un po' non parlarono più, immersi nella tenebra.
La città era deserta, a eccezione di qualche altra macchina che ogni tanto li trasformava in silenziose silhouette grigie dai contorni di luce. C'era spazzatura in ogni angolo, puzza di bruciato, di fumo, di notte. Risate sguaiate risuonavano in lontananza e, nonostante provassero a capire da dove provenissero per evitare incontri spiacevoli, la maggior parte della volta il loro cuore cominciava a battere così forte per la paura che non riuscivano a sentire nient'altro. Involontariamente, si erano avvicinati di nuovo, e camminavano serrati, l'uno in fianco all'altro. Di tanto in tanto, assistevano all'avanzata regale di qualche gatto che come al solito giocava a fare il re del quartiere, arrampicandosi sulle grondaie e saltando sui tetti per poi scendere e mettersi in mostra con un atterraggio impeccabile.
Gerard voltò di nuovo lo sguardo verso il più piccolo non appena girarono alla loro sinistra, cogliendo al volo quella piccola frazione di tempo in cui sarebbe rimasto indietro di pochissimi centimetri rispetto a lui.
Aveva lo zaino che portava a scuola sulle spalle, e camminava sicuro, nella nebbiolina che aveva cominciato ad attorcigliarsi attorno alle loro caviglie, il viso rivolto al cielo, illuminato quasi unicamente dalla luna e dalla piccola luce color arancio delle braci della sigaretta.
Lo osservò per un po', discreto.
Da lontano, delicato.

- Che hai lì dentro? - chiese, per poi prendere tra le dita la sua sigaretta, consumata per metà.

- Hm? - Frank si voltò verso di lui.
Non sembrava gli stesse prestando molta attenzione, adesso sembrava di nuovo pensieroso, distratto.

- Nello zaino - riprese l'altro, a fatica.
Riusciva a sentire sulla propria pelle il sapore dolce di quelle onde verdastre contenute nelle sue iridi. La loro freschezza, la loro dolcezza, mentre piano piano raggiungevano il suo corpo e poi si ritiravano, timide.
Aveva una paura fottuta che lo rivestissero completamente.
Aveva una paura fottuta di annegarci, di rimanerci per sempre.
E sapeva che prima o poi sarebbe successo.

- Oh, nello zaino, giusto - indicò le proprie spalle, ridacchiando piano - Niente di che. Il necessario... Ti faccio vedere quando siamo arrivati, okay?

Svoltò a destra prima ancora che Gerard potesse annuire, poi si avvicinò per la seconda volta a lui, in modo che le loro braccia si toccassero, anche se non tentò più di prendergli la mano.

- Ti dà fastidio? - chiese Frank, in un sussurro, guardandolo di sottecchi.

- No, ma certo che no - il maggiore parlò lentamente, poi, esitante, per sottolineare il concetto sfiorò delicatamente il braccio dell'altro con le dita.
Era una richiesta di perdono piccola e semplice, ma venne accettata subito: presto sentì la testa dell'amico appoggiarsi sulla sua spalla, con cautela, ma tranquillità.
Buttarono a terra le sigarette all'unisono, fissando gli edifici che, mano a mano che si spingevano sempre più nella periferia, diventavano sporadici, isolati e sparsi, sempre più a pezzi. In alcuni le luci erano ancora accese, dalle tende si intravedevano corpi flessuosi di donne e uomini che danzavano insieme per poi unirsi in un ballo del tutto differente, anche se dall'esterno non si sentiva nemmeno un suono. Altri erano completamente abbandonati, le grondaie storte e i camini corrosi dalla muffa, i vetri rotti e i muri completamente coperti da scritte realizzate con bombolette spray di diversi colori, così tante che si sovrapponevano. La più vistosa (e forse anche la più recente) era un troneggiante Nelly ti amo in azzurro sbiadito.

- Devo avere paura di questo posto segreto? - chiese Gerard, ridacchiando, a bassa voce.
Con un cenno, indicò un palazzo le cui finestre rilucevano di rosso, appena accanto a loro.

- Idiota - grugnì Frank, spintonandolo di lato con una risata fragorosa, e incassando a sua volta la spinta di rimando dell'amico con stoica resistenza, rimanendo in equilibrio senza cadere.

- Ti piacerebbe - strizzò l'occhio, leccandosi un labbro con fare provocante. 
L'atmosfera stava cominciando ad alleggerirsi sempre di più, e anche molto velocemente. 

- Che cosa?

- Venire in un bordello con me.

- Ma davvero? - Gerard lo prese per la vita e cercò di atterrarlo, ma quello oppose resistenza, così entrambi rimasero in piedi, barcollanti, il sorriso sulle labbra.
Poi, di colpo, il più piccolo smise di ridere, e per qualche attimo rimase perfettamente immobile a fissarlo, le pupille vacue e distanti, ma ancora con quel familiare luccichio divertito. Sembrava pietrificato, come una statua cristallizzata in un attimo di felicità.

- Frankie? - chiese il maggiore, avvicinandosi piano piano - Che hai? Perché non...

Ancora a metà della frase, il braccio teso verso di lui, lo vide voltarsi e cominciare a correre, un sorriso malizioso dipinto sul volto, lo zaino che sballottava su e giù sulle sue spalle.
Sul momento rimase di stucco, e questa volta fu lui a fermare qualsiasi azione per una manciata di secondi, ma quando sentì le risate del più basso che fendevano l'aria, capì all'istante. Cominciò a correre all'impazzata:

- Aspettami! - rise di nuovo, lanciandosi all'inseguimento di quella piccola figura che adesso improvvisamente era uscita fuori dal tracciato della strada e si muoveva, libera, per i campi.
Non ebbe il tempo di chiedersi dove diamine lo stesse portando.
Forse nemmeno voleva.
Si sentì libero.
Spalancò le braccia e, nel buio della notte, con nessuna guida oltre che a quel piccolo puntino più scuro dello stesso buio, non si curò nemmeno dei polpacci che avevano cominciato a bruciare per lo sforzo. Sentì il cuore pulsare come non mai, quasi volesse schizzare fuori dal suo petto e accasciarsi al suolo, ma non si fermò, anzi, accellerò ancora.

- Frank! Fermati! - gridò, sicuro che potesse sentirlo.
L'aria gelida sbatteva sul suo viso con furore, vide il minore che si voltava fermandosi per un po', rideva ancora e poi riprendeva a correre, questa volta, però, più lentamente. Era evidente che anche lui cominciasse ad essere stanco.
Strinse i denti, aumentò la velocità. Non vedeva più niente, solo il punto d'arrivo.
Pochi metri, qualche respiro e gli fu addosso.
Da dietro, cinse le sue spalle con le mani, il respiro ansante e la bocca secca:

- Ti ho raggiunto, stronzetto - sussurrò nel suo orecchio, la voce arrochita dalla fatica.

- Oh, ti prego Way, non picchiarmi!

Caddero al suolo e risero ancora e ancora, incapaci di fermarsi.
Solo quando si sdraiarono entrambi a pancia in su Gerard si accorse che erano arrivati in mezzo al bosco poco fuori Belleville. Gli alberi disegnavano trame intricate nel cupo cielo notturno, i loro rami si allungavano a creare scenografie vorticanti. Sotto i loro corpi, manciate di foglie secche erano sparse su tutto il terreno, profumate di terra e umidità.
Lì avrebbero potuto essere tutto ciò che avrebbero voluto.
A contatto con il terreno brullo e scuro, si sentiva vicino alla sua più primitiva radice.
Molti uomini avevano dimenticato di essere figli della terra.
Sorrise, poi emise un sonoro sbuffo:

- Dio, mi gira la testa - si lamentò, rotolando verso Frank e finendo addosso al suo braccio, per poi immergervi il viso, inspirando rumorosamente.
Era sempre così.
Ogni volta, ai primi segni di contatto fisico, reagiva con una certa rigidità, ma alla fine si arrendeva, e finiva per essere travolto nella spirale della loro intimità. Era come... loro due e basta. Ed era una dimensione perfetta, per quanto lo riguardava. Essere soli, nella notte, in un posto tagliato fuori da ogni cellula di società, quell'ineguagliabile atmosfera di segretezza, lo incoraggiava a lasciarsi cullare da quello che insieme creavano.
Accanto a lui si sentiva semplicemente se stesso.
Compiuto, totale.
Puro.
Vivo.

- Che mammoletta - vide la sua bocca aprirsi in una smorfia, e poi il suo corpo tirarsi in piedi con un movimento agile:

- Vuoi una mano? - chiese, gli occhi scintillanti.
Prima che potesse dire di sì, si ritrovò in piedi, i capelli scompigliati, impregnato del profumo del bosco:

- Era questo il posto speciale? - poco convinto, sollevò un angolo della bocca, battendo sulle maniche della felpa per togliere le foglie rimaste attaccate al tessuto.

- No, ma è praticamente qui vicino, vieni.

Mano nella mano, si inoltrarono nel fitto degli alberi.
I tronchi erano pieni di muschio, avvolti da piante di edera che serpeggiavano, sottili, sulla superficie della corteccia. Le fronde verdi dell'estate si erano ridotte a foglie rade e accartocciate che ad ogni folata di vento minacciavano di staccarsi dai rami neri, secchi e spogli. Sembravano poveri vecchi pieni di vergogna per la loro nudità, che si rannicchiavano su loro stessi, cercando di coprirsi con i pochi stracci che gli erano rimasti.
Il resto del suolo, oltre che dalle foglie, a volte presentava delle piccole collinette date da enormi massi sepolti sotto la terra, tane di qualche piccolo animale, o semplicemente naturali pendii del terreno. In superficie, comunque, niente era visibile.

- Guarda in su - Frank si fermò piano piano, indicandogli un punto indefinito nel buio.
Gerard seguì la traiettoria della sua mano fino a che i suoi occhi non incontrarono una casa di legno, incorniciata tra i rami. Era tenuta in piedi da enormi braccia di legno che la circondavano e la proteggevano a qualche metro dal suolo, forse cinque o sei. L'unica cosa che la legava alla terraferma era una piccola scaletta di corda oscillante, per il resto era semplicemente un sogno galleggiante strappato da qualche libro delle fiabe.
Sembrava stranamente accogliente, per essere una semplice casa su un albero, e aveva dimensioni piuttosto grandi, anche se la porta era abbastanza piccola - probabilmente avrebbero dovuto entrarci a carponi. Le finestre avevano persino il vetro; l'interno non si vedeva, ma sembrava completamente vuoto.

- E' tua? - fu l'unica cosa che riuscì a dire, mentre si avvicinavano ancora e ancora, fissando quel piccolo rifugio e immaginando chi prima di loro lo aveva usato.
Il minore scrollò le spalle:

- No, ma non penso che qualcuno si arrabbierebbe se la prendessimo in prestito stanotte, giusto? - disse, un piede appoggiato al primo gradino di corda e cominciando a salire con aria convinta.

- Almeno è stabile? - chiese l'altro, esitante, accarezzando la misera scala.
Non lo entusiasmava l'idea di arrampicarsi su funi che quasi sicuramente erano lì da tempo immemore, esposte all'umidità e al freddo, per poi entrare in una catapecchia fatta di assi di legno umide e ammuffite.
Per quanto potesse sembrare in buone condizioni dall'esterno non si poteva mai sapere. E la cosa più verosimile era che non fosse per niente sicuro cacciarsi lì dentro in due.

- Se non ci saliamo non lo scopriremo mai - rispose Frank, che era già quasi arrivato alla minuscola apertura per entrarvi.

- Starai scherzando, spero - lo fissò mentre la sua figura svaniva tra le assi di legno, per poi riemergere dopo poco sporgendo solamente la testa.
Con espressione solenne, il più basso cominciò a parlare:

- Gerard Way - era la seconda volta che lo chiamava per nome e cognome quella sera, e cominciava già a detestarlo - Ti obbligo di muovere il culo e seguirmi.

- Frank... - con un sospiro, piantò le mani sui fianchi, ma quello nemmeno lo lasciò parlare:

- Sbrigati, vuoi rimanere là sotto, al buio, per tutta la notte?

Gerard sospirò per la seconda volta.
Ci fu un silenzio lunghissimo, poi allungò entrambe le braccia per prendere la corda e cominciò a salire, piano piano, gradino per gradino.

- Se cado da questa fottuta capanna, mi paghi come nuovo - biascicò, prendendo la mano che Frank aveva teso per aiutarlo a salire.

- Non è una capanna - protestò lui, aggrottando le sopracciglia e sorridendo sotto i baffi, issandolo dentro.
Il maggiore stava per ribattere, ma dovette zittirsi una volta ammirato l'interno.
Non c'era traccia del legno, era completamente rivestito da uno strato di calce verniciato di un tenue color crema. Non c'era alcun arredo, ma Frank stava ricoprendo il pavimento con qualche strato di coperte e cuscini che aveva tirato fuori dallo zaino insieme a un pacchetto di caramelle gommose che entrambi sapevano non avrebbero mai mangiato e una bottiglia di vodka. Su un piattino appoggiato al davanzale della finestra aveva messo tre candele accese, che emanavano nell'aria un profumo buonissimo. In confronto all'umidità e al gelo di fuori, tutto sembrava così asciutto e caldo, protetto, che non poté fare a meno di togliersi la giacca e le scarpe e imitare l'amico, che aveva appoggiato la testa a una pila di cuscini, distendendo le gambe, e lo stava invitando a fare lo stesso con un cenno della mano.
Bevvero la bottiglia in poco tempo, continuando a passarsela di mano in mano, sempre più assetati, in silenzio.
Era evidente che entrambi avessero l'estrema urgenza di qualcosa che inebetisse i loro sensi anche solo minimamente per permettergli di fare tutto ciò che avrebbero voluto.
Non si erano mai ubriacati prima, ma non esitarono a trangugiare il liquido tutto d'un fiato, guardandosi e ridendo di tanto in tanto.
Sapevano benissimo ciò che stavano facendo.
Sapevano benissimo di essere innamorati.
Tutto d'un colpo, la consapevolezza li colpì come uno schiaffo.

- Ti piace? Intendo, tutto questo - gli chiese Frank, quando furono entrambi sdraiati su un lato, petto contro petto, la bottiglia vuota ai loro piedi.
I loro volti erano molto vicini: lo spazio era abbastanza ristretto per i loro corpi; stendendosi, i loro piedi toccavano la parete opposta della casetta. Rimase incantato dalle curve del suo viso. Era semplicemente perfetto, mentre gli parlava, accanto a lui, rivolgendogli la sua totale attenzione. Le guance rosse, il tono lievemente biascicante.
Perfetto.
Se lo ripeté e se lo gustò.

- Molto - si ritrovò costretto ad ammettere, senza riuscire a distogliere lo sguardo da lui. Le sue mani, quei tatuaggi proibiti, le dita lunghe e affusolate da chitarrista.
Ci fu un bel po' di silenzio, riempito dal profumo acre dell'alcolico.
Si guardarono e basta, lanciandosi a turno delle occhiate che si protraevano fino a che l'altro non decideva che era il suo turno.
Gerard avrebbe voluto dire tante cose, ma nemmeno una frase riusciva a prendere senso nella sua testa. Era semplicemente troppo bello. Nessun altro lo catturava in quel modo.
Ed era bello e basta.
Dolce.
Sensuale.
Bello.
Bello nella sua forma più elementare e totale.

- Non hai freddo, vero? - chiese all'improvviso Frank, bagnandosi le labbra secche con la lingua e strisciando impercettibilmente verso di lui, con un movimento del tutto innocente che il più grande non notò nemmeno.
D'un tratto seppe solo che erano vicinissimi.
I loro nasi si sfioravano, ancora pochi centimetri e le loro bocche sarebbero venute a contatto.

- Oh, no, sto benissimo - rispose, con un sorriso tirato, mordicchiandosi l'interno della guancia e osservando più a fondo il ragazzo che aveva esattamente davanti a sé.
Aveva ancora quel qualcosa negli occhi di pensieroso. Teso.
Come se stesse aspettando qualcosa con trepidazione.
Ma che cosa?
Penetrò nei suoi occhi, con sicurezza, diretto, frugandovi con impazienza. Ma lui continuava a far schizzare le pupille da una parte all'altra, senza andare troppo in alto o troppo in basso, di poco, non abbastanza per interrompere totalmente il contatto che si era creato, ma abbastanza per dissimulare qualsiasi pensiero, rendendogli impossibile confermare qualsiasi mera constatazione.

- Gee? - lo chiamò dopo un po', gracchiante.

- Sì? - rispose lui, pianissimo.
Non c'era il minimo rumore, se non la fiamma fioca delle candele che baluginava nelle tenebre e il vento che, da fuori, soffiava dolcemente.

- Posso... posso dire... posso dirti... - finalmente lo guardò negli occhi.
E fu in quel momento che Gerard si accorse che l'attimo che tanto aveva fuggito era arrivato.
Il verde lo investì. Quei minuscoli cristalli di luce blu e gialla lo ricoprirono ed esplosero, sfrigolando sulla sua pelle come acido. All'improvviso l'unica cosa che volle fare fu gridare.
Gridare al mondo che lo amava.
Quel colore entrò in ogni suo poro, catturandolo subito dopo averlo ammaliato con il suo ipnotico canto stregato.
Si sentì annegare, strinse forte le coperte e prese un bel respiro, solo per poi sentire una delle mani tiepide di Frank che teneramente gli accarezzava lo zigomo.

- Sei bellissimo - mormorò il più basso, un'infinita commozione negli occhi.
E poi lo baciò.

Fu tutto e niente.
Non fu brutto. Non fu bello.
All'inizio non sentì nulla, chiuse gli occhi e strinse le coperte ancora e ancora, fino a che le sue nocche non diventarono bianche.
Nulla.
Solo un tremendo vuoto allo stomaco, il sangue che veniva pompato, con quel fastidioso ronzio, nelle sue orecchie. Precipitò in un baratro senza fondo.
Ebbe paura.

Infine, una nuova carezza gli diede vita. Il pollice che risaliva lungo tutta la guancia e arrivava al mento, depositandovi piccoli circolini, lo rese improvvisamente cosciente.
Prese fiato, sentendo la presenza estranea di una bocca a lui totalmente nuova svincolarsi dalla sua.
Non aveva nemmeno sentito pressione, probabilmente si erano solo sfiorati.
Chissà per quanto.
Forse due secondi, forse fino all'alba.
Ma non gli importava.
Voleva vivere quel verde. Avrebbe potuto richiedere tutto il tempo del mondo. Ma volevo sentirlo. Farlo proprio. Farsi suo.

- Sei bellissimo, Gerard - ripeté Frank, la voce incrinata, e dopo pochissimi secondi lo baciò ancora.
E quella volta, immediatamente, percepì qualcosa.
Le sue labbra erano morbide, e calde, contro le sue. Si socchiusero con una facilità incredibile, e, incoraggiato, fece lo stesso. Quando si avvolsero a vicenda, teneramente, si impregnarono le une del sapore delle altre. Fu soffice, meraviglioso.
Baciandolo, arrivò alle origini di lui stesso, della terra.
Era un qualcosa di inconcepibile, di prezioso. Primordiale, assoluto, impossibile ricercarne la fonte primaria, forse perché quello stesso sentimento era la fonte primaria di qualsiasi altro amore.
E ciò che più era incredibile era la tranquillità che regnava su tutto quello. Avrebbe potuto addormentarsi, sereno, tra le sue braccia. Senza che nient'altro più contasse o avesse la minima importanza.
Ad un certo punto ebbe l'impressione che niente più esistesse, tranne loro e quel bacio.
Tutto il mondo, cristallizzato in una splendida bugia, si infrangeva sotto i loro stessi occhi, sotto il peso del loro amore. Allungò la lingua e leccò, pervaso da un'eccitazione irresistibile. Si sentì bagnato, nei propri boxer, anche solo per quel semplice bacio, fragile, completamente abbandonato a quello che stava succedendo, e leccò ancora e ancora, finché non sentì un mugolio provenire dalla bocca di Frank.
Affamati, si cercarono ancora, staccandosi qualche secondo solamente per respirare. Durante quelle pause si guardavano, fino a che uno dei due vincendo ogni timore non allungava il viso verso l'altro e il bacio riprendeva, sempre più passionale.
Sorrise, mordicchiandosi un labbro come era solito fare, mentre, senza riuscire a resistere, si baciavano ancora, questa volta allargando ancora di più le labbra. Non cercò nemmeno di lottare contro quel familiare risucchio, si lasciò andare ancora, le emozioni che arrivavano al suo cuore e al suo cervello a piccole onde concentriche.
Infine, sentì che era arrivato il momento di discostarsi.
Allontanarono il viso l'uno dall'altro all'unisono, ardendo e ansimando.

Silenzio.
Si guardarono, timidamente, senza difese, senza maschere.
Sanguinanti.
Follemente innamorati, il cuore in mano.
Se lo scambiarono con un'occhiata, complici. Senza chiedere, senza pretendere.

Silenzio.

- Penso di amarti, Frank - spinse fuori le parole a fatica, ma, quando le ebbe dette, sentì che niente sarebbe mai suonato meglio sulla sua lingua.
Di nuovo, si sentì libero.
Libero. Nella sua totalità.
Si sentì... bene.
Le loro mani si strinsero.
Uno dei due soffiò le candele, e rimasero al buio, fronte contro fronte.

- Anche io penso di amarti, Gerard.

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