𝐈𝐈. 𝐌𝐞𝐬𝐬𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨
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𝐃opo quell'incontro, l'ennesimo di quella settimana, uscì dall'ufficio della dottoressa, lasciando dietro di sé tutti quei problemi che l'angosciavano ogni giorno.
Eppure, sentiva sempre di trascinarli, nemmeno fossero una pesante palla di metallo al piede, come un carcerato. Subdolo e ironico come si sentisse prigioniero della sua stessa mente.
Nascose le mani nelle tasche del giaccone pesante, che arrivava fino a poco sopra le sue gambe, e rilassò i muscoli nel caldo tessuto. Quando si riversò in strada, la brezza fredda lo avvolse improvvisamente. E allo stesso modo quel senso di inadeguatezza lo pervase di getto.
Era un parassita. Chiunque fosse stato Aleksander, era di sicuro morto.
Osservò le strade e gli edifici di Oslo, come poteva sentirsi un completo estraneo nella città che l'aveva cresciuto, che l'aveva cullato e coccolato?
Si sentiva un turista, ma senza entusiasmo, come imprigionato in una vita e in un posto che sembravano essere stati tessuti per lui. Eppure quel vestito apparentemente perfetto iniziava ad andargli stretto, lo soffocava.
Alzò lo sguardo verso il cielo grigio. Nuvole all'orizzonte, come quelle che si abbattevano sulla sua testa, impedendogli di ricordare. Sospirò frustrato. Tirò su il cappuccio della felpa, cercando di proteggersi dalla pioggia leggera.
Oslo a settembre aveva lo stesso umore di una persona lunatica. C'erano attimi in cui il sole splendeva alto nel cielo, riscaldando l'aria quasi sempre fredda, e poi improvvisamente iniziava a piovere. Quei due stati d'animo si alternavano di continuo durante l'arco della giornata, in un'infinita altalena emotiva. L'odore della pioggia permeava ogni angolo della città.
Si diede mentalmente dello stupido per aver dimenticato di portare con sé l'ombrello, ma a volte muoversi nell'appartamento in cui aveva sempre vissuto, e che adesso gli appariva nuovo, come mai visto, era difficile. Ancora doveva scoprire cosa si nascondesse in ogni cassetto, non aveva avuto le forze di affrontare il presente. Forse inconsciamente aveva paura di scoprire chi realmente si celasse dietro il nome di Aleksander Jørgensen, per cui rimandava sempre di più l'inevitabile.
Aveva discusso con la dottoressa, e secondo lei sarebbe stato d'aiuto sfogliare qualche foto degli album in casa, così da ricordare chi fosse.
Gli aveva anche proposto di farlo insieme, non doveva stare da solo. Però aveva paura di mostrare se stesso, conoscersi, conoscere Aleksander.
Ancora non riusciva a capacitarsi che quello fosse il suo nome: Aleksander.
A L E K S A N D E R
Più lo ripeteva nella sua mente e più gli suonava distante, sempre meno familiare. Era convinto che dovesse essere il contrario, piuttosto.
Non riusciva ad accettare l'idea di essere nessuno anche ai suoi occhi, ma allo stesso tempo aveva paura, tanta paura di scoprirsi.
Era sempre stato così indeciso? Così preoccupato ed incoerente?
Scosse il capo e sfilò un pacchetto di sigarette comprato nel minimarket di fronte casa sua. Prese una sigaretta e l'accendino il cui nome riportava l'insegna del negozio:
Deli de Luca
Il proprietario era un uomo indiano di mezz'età sempre gentile e sorridente. Gli augurava buongiorno ogni mattina, quando passava a comprare il giornale. Evidentemente si conoscevano da prima, perché ogni giorno gli chiedeva come stesse, conscio di ciò che gli era accaduto. Aleksander lo trovava simpatico ma non aveva avuto il coraggio di chiedergli cosa ricordasse di lui, non voleva apparirgli ridicolo. Si limitava così a mentire, indossando un sorriso di circostanza. Scrollava le spalle e rispondeva sempre "Sto bene, meglio di ieri..."
E non era vero.
Sentiva di peggiorare ogni giorno, chiedendosi se avesse senso continuare una vita come un estraneo ad essa, un semplice parassita.
Almeno, poteva dire di aver scoperto di essere un buon bugiardo. Mentire gli veniva paradossalmente facile.
Accese la sigaretta, dopo diversi tentativi perché il vento tendeva a spegnere la debole fiammella dell'accendino. Inspirò col naso quel fumo e lo espirò poi. Osservò la sigaretta scivolare tra le sue dita. Guardò l'orario dal telefono nuovo di zecca. Aveva trovato diversi soldi, molti soldi in realtà in casa. Aveva, così, scoperto che sua moglie guadagnasse molto per entrambi e lui si ostinava a voler lavorare nella sicurezza della metropolitana. Sua moglie, Maja, era una donna molto forte e indipendente, o per lo meno questo dicevano i giornali e le riviste. Era un avvocato di spicco e molto conosciuta ad Oslo.
Trovava imbarazzante e ridicolo il fatto che suo marito non avesse memoria di lei, nemmeno del sapore dei suoi baci, delle sue labbra.
Osservò l'ora sul telefono. Era ancora presto e una strana idea gli balenò nella mente. Molti gliel'avevano sconsigliato, dicendogli di affrontare tutto a piccoli passi. Però, da quel poco che aveva capito di se stesso, Aleksander non era un uomo paziente, ma molto istintivo. Non amava attendere, aspettare, e preferiva agire. Iniziò a incamminarsi per le strade di Oslo, verso il centro e sorrise, osservando l'imponente struttura gotica dell'Hard Rock Café.
Attirava sempre molti turisti e giovani e si era sempre ripromesso di passarci qualche volta, provando a vivere una vita da turista.
Diversi palazzi si susseguivano uno accanto all'altro, mentre sul marciapiede di fronte si apriva una piazzetta, quasi incantata nel verde, con una fontana al centro, diversi effetti di luci la caratterizzavano, facendo sì da attirare l'attenzione di chiunque capitasse nei dintorni.
Lungo la strada c'erano diversi altarini, una sorta di piccolo tempio circolare, dove la sera organizzavano cori la cui melodia riempiva di gioia la strada. Le voci dei cantanti erano dolci e soavi, lo portavano in un altro mondo. Un mondo dove non doveva per forza essere qualcuno, gli bastava anche solo esistere. Spesso era capitato che si fosse lasciato incantare da quei canti, quando vagava in serata senza una meta, pur di pensare ad altro.
Si sentiva a casa con quelle canzoni popolari, riuscivano a riscaldarlo dall'interno, facendo trapelare sul suo volto l'ombra di un sorriso.
Il centro di Oslo tutto sommato era piacevole, tranquillo. Un mondo ben organizzato e non confusionario. Alla fine doveva ammettere che gli piaceva vivere lì, anche se era solo una settimana che si addentrava nei posti più caratteristici di quella capitale, si sentiva felice a viverci, nonostante il freddo.
Seguì le indicazioni per il cimitero.
Sapeva che era presto, ma voleva iniziare ad avere delle risposte e alleggerire soprattutto il suo animo logorato dal senso di colpa di non essere mai andato a incontrare sua moglie. Si fermò davanti ad un fioraio. Comprò un mazzo di fiori, delle azalee, e si chiese quali fossero i fiori preferiti di sua moglie. Si soffermò qualche minuto di troppo, mentre il negoziante gli porgeva il resto.
«Signore...tutto bene?» domandò l'uomo accigliatosi leggermente.
Aleksander si ridestò e annuì con un cenno del capo. Prese il resto, lasciando scivolare le monete in tasca. «Mi scusi, ero sovrappensiero.» Prese il mazzo di fiori e fece per allontanarsi.
L'uomo gli sorrise gentile. Non amava quegli sguardi impietositi, ma era consapevole che fosse poco probabile che lo conoscesse. «Non si preoccupi. Quando andiamo a salutare le persone che amiamo e non ci sono più, siamo tutti più pensierosi.»
«Mh, già.» Aleksander storse il naso, dopo avergli dato le spalle. Sicuramente aveva amato Maja, ma adesso non poteva dire lo stesso, era una sconosciuta esattamente come lo era lui stesso. Era tutto così ingiusto e confuso, avrebbe voluto sul serio poter piangere la morte di qualcuno, pur di sapere di essere capace di provare qualcosa. Invece era un estraneo, nel corpo e nell'animo. Scosse il capo, gironzolando davanti alle varie lapidi, finché non intravide quella giusta, con sguardo spaventato e confuso.
File di lapidi si susseguivano una dopo l'altra, e il vento sembrò abbassare la sua forza di fronte al potere insormontabile della morte.
Fissò le parole crude che scheggiavano la lapide e la guardò ancora per qualche istante. Non riusciva a capacitarsi del fatto che quel nome non significava nulla nella sua mente, nel suo animo. Il cuore batteva semplicemente come sempre, nessun battito accelerato, nessun segno di cedimento. Cosa non andava in lui?
Maja Berg in Jørgensen.
Donna coraggiosa, moglie devota e brillante avvocato.
1980-2018
Osservò ancora quelle parole, incise nella pietra. Moglie devota. E lui che razza di marito era? Un uomo che non riusciva a piangere di fronte alla chiara evidenza della morte della donna che amava. Certo, una parte di lui, forse quella umana rimastagli, sentiva il peso di quella vita spezzata troppo in fretta. Una donna giovane piena di interessi, di amore -nei suoi confronti- che si era spenta così all'improvviso. Era stata brutalmente uccisa, le avevano spaccato il cranio con un colpo alle spalle. Poi avevano provato ad affogare lui nella vasca.
Aveva sbattuto più volte col capo contro il bordo della vasca del bagno. Lo avevano preso alla sprovvista provando ad ucciderlo. Evidentemente l'Aleksander di allora era dotato di un forte spirito di sopravvivenza. Era riuscito a liberarsi dalla presa mortale e a fuggire. Si era riversato in strada, correndo veloce. Poi era stato investito da un Suv con violenza e aveva sbattuto il capo contro il marciapiede.
Questa era stata la ricostruzione della polizia, in base anche ai pochi testimoni che avevano assistito al suo incidente, quella notte. I medici definivano una fortuna il fatto che fosse vivo. E lui non poteva far a meno di pensare che genere di vita fosse quella.
Non riusciva a comprendere cosa volesse significare vivere in quel modo, come se guardasse il tutto attraverso il buco di una serratura, senza prenderne attivamente parte.
Sfregò il mento contro il colletto alto della giacca e si inginocchiò vicino alla lapide. Poggiò delicatamente il mazzo di fiori ai suoi piedi e osservò ancora una volta quelle parole incise.
Fissò la foto di quella che sarebbe dovuta essere sua moglie: era decisamente una donna bellissima. I capelli lunghi e biondi arrivavano alle sue spalle e gli occhi chiari illuminavano il viso perfetto, senza alcun tipo di imperfezione.
Ciò che lo colpì in particolare però fu il velo di tristezza che avvolgeva il suo sguardo. Una morsa attanagliò le viscere. Sperò davvero che non fosse il loro rapporto motivo di tanto dolore, e che fosse solo una sua strana impressione. L'ennesima paranoia.
Si massaggiò la fede che portava al dito, facendola girare attorno all'anulare. L'aveva osservata spesso, sperando di ricavarne qualcosa, ma non c'era traccia di nessuna dedica, né della data del matrimonio.
Fece uno sbuffo sommesso, quando la pioggia iniziò a ticchettare nuovamente sulla sua testa e si tirò in piedi. Indietreggiò dalla lapide, allontanandosi. Si sistemò ancora meglio il cappuccio della felpa in testa e iniziò ad incamminarsi verso l'uscita.
Percorse nuovamente la strada al contrario. Restava sempre in silenzio, perdendosi nei meandri peggiori della sua mente, che al momento gli sembrava impervia quanto una giungla. Attraversò il parco che circondava il Palazzo Reale, nascondendosi nel proprio cappotto imbottito, lanciando sguardi d'apprezzamento a tutta quella natura curata e avvolgente.
Spesso in quella settimana aveva pensato di essere un semplice filo d'erba che cercava di ricrescere in un terreno già deciso per lui. Voleva farsi spazio tra il cemento. Forse doveva cambiare strada? Quel risveglio poteva rappresentare la sua seconda occasione o era la condanna decisiva?
Arrivò di fronte a Deli de Luca, e decise di entrarci. Salutò ancora una volta il commerciante con un cenno del capo, ordinando una birra fredda e un panino alla piastra.
«Alek! A che gusto preferisci?»
Alzò lo sguardo distrattamente quando sentì ancora una volta quel nome che non credeva gli appartenesse. Era così strano sentirsi in una bolla e guardare il mondo dall'esterno. Avrebbe voluto urlare che non sapeva nemmeno chi fosse, figurarsi cosa preferiva. Si limitò a scrollare le spalle. «Decidi per me, fai il solito.» azzardò a dire. Se conosceva quel posto da tempo voleva dire che il proprietario sapeva abbastanza bene le sue abitudini.
L'uomo sorrise felice e gli piastrò un panino con salmone affumicato, insalata, salsa yogurt e pomodori. Tutto sommato non gli sembrava che l'Aleksander del passato avesse cattivi gusti. Pagò il suo ordine e sistemò il tutto in una busta. Salutò l'uomo con la mano, prima di riversarsi nuovamente nella strada e raggiungere l'appartamento in cui abitava.
Insieme a sua moglie viveva in uno dei quartieri residenziali più tranquilli e vicini al centro. A pochi passi anche dal Palazzo Reale. L'appartamento era spazioso e luminoso. La cucina era moderna e accogliente, così come il salotto con un enorme divano e una televisione che avrebbe anche potuto accecarlo.
Il mobilio era tutto nuovo di zecca, moderno e curato, quasi sicuramente anche molto costoso. Si liberò delle scarpe non appena fu in casa, e cominciò a camminare scalzo sul parquet. Si tolse il giaccone posandolo sull'appendiabiti e andò in cucina, sedendosi al piccolo tavolo circolare, dove forse ogni mattina faceva colazione con sua moglie, o per lo meno così gli piaceva immaginare.
Sbuffò piano e stappò la bottiglia, sbirciando distrattamente verso la finestra, e addentò un morso al panino.
Accese la televisione del salotto. Si guardò ancora intorno in quel salone poco familiare: diversi scaffali erano poggiati alle pareti, con rare collezioni di classici della letteratura. Intravide anche alcuni manuali di legge che dedusse dovessero appartenere a sua moglie. Bevve un altro sorso di birra. Sebbene l'interno di quella casa apparisse curata, le piante della veranda non lo erano affatto. Alcune rampicanti erano cresciute avvolgendosi attorno al barbecue, i cui effetti del tempo si vedevano sulle piastre. Il pavimento era polveroso, pieno di foglie portate via dal vento.
Chiunque gli avrebbe detto che era una cosa normale, data la sua assenza di un mese dalla casa perché in coma in ospedale. Eppure, c'era quella strana voce in lui, quella coscienza, che gli suggeriva che non fosse solo per quello.
Mentre il telegiornale chiacchierava in sottofondo, fece scivolare una mano nella tasca dei pantaloni e osservò una chiave che avevano ritrovato nel suo portafogli.
Non era quella di casa, e si chiese che cosa aprisse, a cosa si riferisse.
I poliziotti gli avevano suggerito che forse appartenesse ad un armadio o a un cassetto del proprio ufficio. Ma Aleksander ci aveva provato. Più volte aveva tentato di aprire i vari cassetti della scrivania dell'ufficio che aveva in casa, ma nessuno di questi si era aperto, e ne aveva trovato facilmente le chiavi relative, nascoste in alcuni libri della stanza. Contenevano semplici conti di fine mese, alcuni soldi messi da parte, nulla di che.
Il suo attentatore non cercava denaro, non era una rapina finita male, nessun centesimo mancava in quella casa, e neanche i gioielli preziosi di sua moglie erano stati intaccati.
Gli avevano detto che fosse lì proprio per loro, e avevano cercato di estorcergli informazioni per sapere se avesse qualche nemico, ma non aveva saputo rispondere. Non ricordava assolutamente nulla. Aveva visto i volti dei poliziotti spegnersi dalla delusione. Sua moglie a quanto pareva era una donna influente, un'eccellente avvocato e probabilmente la sua fama comportava sicuramente nemici, ma non riuscivano a spiegarsi perché avessero provato ad uccidere anche lui.
Erano giunti alla conclusione che volevano evitare un testimone.
Sbuffò piano, rigirando la chiave tra le sue mani con ostentato scetticismo. Una ruga sulla sua fronte si accentuò. Cos'aveva combinato Aleksander per essere giunto a quel punto? Continuava ad arrovellarsi con tante domande, curioso e cercava risposte che non sembrava volessero arrivare. Nella sua mente tutto era confuso, e non c'era nemmeno la parvenza, l'ombra di un ricordo. I medici avevano controllato se fosse stato drogato, ma non era così. Era stato semplicemente un colpo fatale. Aveva rischiato di morire affogato, e il suo cervello era già sotto stress al momento dell'incidente dopo il quale aveva battuto il capo.
Proprio per timore che potesse subire un'ulteriore aggressione, ogni sera una macchina della polizia faceva la ronda attorno al suo quartiere. Spesso aveva notato la loro auto appostata sotto il palazzo. Succedeva anche di giorno che trascorressero qualche ora accertandosi che tutto fosse nella norma. Avevano deciso di tenerlo al sicuro, per lo meno in alcuni orari particolarmente pericolosi. Aveva accettato di buon grado quella condizione, almeno gli garantiva una sorta di sicurezza, ma uno dei giovani poliziotti con cui a volte scambiava qualche chiacchiera, lo aveva rassicurato che fosse difficile che ci riprovasse subito. C'erano diverse volanti della polizia in città soprattutto dopo la duplice scomparsa (anche se si vociferava che ormai fossero degli omicidi) di due personaggi noti, e di quello di sua moglie, donna altrettanto influente. Nessun folle avrebbe attaccato subito, in un periodo così controllato.
Quelle parole lo avevano tranquillizzato, ma allo stesso tempo incuriosito su sua moglie, la sua famiglia e tutto ciò che girava attorno alla loro apparente tranquilla vita.
Così Aleksander si disse di dover iniziare poco alla volta, per scoprire da solo cosa si celasse dietro il proprio nome. Si propose di andare nei giorni successivi sul posto di lavoro, per ricavare qualche informazione e cercare di ottenerlo di nuovo. Anche se secondo i medici non doveva riprendere già dopo tutto lo stress subito, doveva restare a riposo.
Ma la sua mente vagava incessante alla ricerca di risposte, ed erano diversi giorni che si sentiva particolarmente stanco, con tremolii lungo il corpo che ignorava in maniera forse irresponsabile. Avrebbe dovuto parlarne con la dottoressa, forse doveva davvero smetterla di voler fare tutto da solo. Magari con il suo aiuto sarebbe riuscito anche a scoprire qualcosa del suo passato, continuando ad indagare per parte propria. Voleva semplicemente scoprire chi si celasse dietro Aleksander Jørgensen. Osservò ancora per qualche istante la chiave quando la musica del telegiornale attirò improvvisamente la sua attenzione. Prese il telecomando alzando il volume, e si poggiò contro lo schienale del divano, portando alle labbra la bottiglia di birra.
"Ancora nessuna notizia su Paul Nielsen e sua figlia Karen Nielsen.
La polizia indaga sulla duplice scomparsa, pensando possano nascondersi rivali dietro la candidatura del signor Nielsen come nuovo sindaco. L'uomo, magnate molto importante e carismatico personaggio, aveva diversi conti in sospeso. Accusato più volte di frode finanziaria, si era sempre detto innocente e devoto solo al bene della propria città. La figlia, Karen Nielsen, era una filantropa molto importante per tutti noi. Una donna gentile, aveva aperto diversi canili e centri anti violenza per tutelare le donne. I due non sono stati ancora ritrova-"
Poi sentì qualcosa vibrare nella sua tasca dei pantaloni. Abbassò il volume della televisione, non gli importava quasi nulla di quelle notizie, d'altronde ormai a stento conosceva Oslo.
Sfilò così il cellulare e rabbrividì. Il messaggio proveniva da uno sconosciuto:
"È inutile che ti nascondi come un ratto...sto venendo a cercarti.
Ah...le mie più sentite condoglianze per quella puttana di tua moglie."
Angolino
Iniziamo con le ipotesi👀
Ogni tanto vi lascio qualche indizio su Aleksander.
Cosa ne pensate finora?
Spero la trama vi stia incuriosendo.
Io vi avviso: non affezionatevi a nessuno e non fidatevi di nessuno.
Che il gioco abbia inizio.
Alla prossima,
La vostra amichevole Anto di quartiere
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