𝐈. 𝐑𝐢𝐬𝐯𝐞𝐠𝐥𝐢𝐨












C'era a Baghdad un mercante che mandò il suo servo al
mercato per far provviste. E il servo ritornò ben presto,
pallido e tremante, e disse: "Padrone, poco fa, mentre
ero al mercato, fui urtato da una donna nella folla, e
quando mi volsi mi accorsi che era stata la Morte a
urtarmi. Mi guardò e fece un gesto minaccioso. Te ne
supplico, prestami il tuo cavallo e io abbandonerò
questa città per sfuggire al mio destino. E andrò a
Samarcanda, dove la Morte non potrà trovarmi". Il
mercante gli prestò il suo cavallo, e il servo montò in
sella e, spronando a sangue l'animale, parti al galoppo.
Allora il mercante si recò alla piazza del mercato e mi
scorse tra la folla. "Perché hai fatto un gesto
minaccioso al mio servo, stamane?" mi chiese,
avvicinandosi. "Il mio gesto non era di micaccia, bensì
di sorpresa", risposi. "Fui stupita di vederlo a Baghdad
poiché avevo un appuntamento con lui questa notte a
Samarcanda.










Alla morte non si sfugge, Aleksander

𝐋e lancette dell'orologio a parete ticchettavano.
Era uno strano concetto il tempo. Alcuni attimi scorrevano inesorabilmente lenti, poi ore intere volavano via in un soffio. C'era una particolare e profonda incoerenza nel tempo. Era solo un'invenzione dell'uomo per scandire la giornata d'altronde. Tanti uomini si erano divertiti a indagarne l'essenza. Platone lo definiva come l'immagine mobile dell'eternità. Per i fisici è semplicemente dato dal rapporto tra spazio e velocità. Aleksander lo trovava irritante per la ragione umana.

Era da un po' che restava in silenzio. Non sapeva cosa dire. Continuava a fissare il soffitto inerme, senza alcun tipo di forza, e si passò la mano, bendata, in volto con confusione. L'aria cominciava a mancargli, ma era una settimana che trascorreva quasi ogni giorno con la dottoressa, che era diventata in poco tempo l'unico viso a lui familiare. Gli sembrava di essere rinchiuso in un posto strano, come in una bolla d'aria, e aveva paura scoppiasse. Il soffitto era bianco, come le pareti, eppure nonostante fosse una camera ampia, aveva l'impressione di star soffocando.

«Aleksander...hai bisogno di una pausa?» Le parole della dottoressa Johansen gli arrivarono ovattate, come fossero una melodia lontana, sconosciuta. Non rispose, non percepì il fatto che si stesse rivolgendo proprio a lui.

«Aleksander... mi senti?»

Si voltò a guardarla e si mise seduto. Osservò il naso adunco della donna e i suoi capelli grigi schiariti dal tempo raccolti in uno chignon alto. L'anulare aveva una macchia circolare sbiadita, segno che o fosse divorziata o vedova e non volesse portare con sé il doloroso ricordo della persona che aveva amato. Non sapeva spiegare bene il perché o il come ci riuscisse, ma era sempre stato un attento osservatore. Forse immaginava di dare delle storie agli sconosciuti, in mancanza della propria. Forse era un meccanismo di difesa, per imparare a non impazzire.

Portò le mani avanti come se volesse scusarsi e osservò la fede d'oro che circondava l'anulare della propria mano destra. «M-mi scusi- si schiarì la voce, -devo ancora abituarmi al fatto che quello sia il mio nome. Non lo sento mio, non so se mi capisce...» si tirò in piedi prendendo una boccata d'aria, avvicinandosi alla finestra.

Guardò la strada su cui si affacciava quel vecchio grattacielo. Erano poco lontani dal Palazzo Reale di Oslo, poteva vedere ancora le torri alzarsi in lontananza. Aveva scoperto di abitare poco distante, vicino un minimarket attrezzato, e aveva fatto tutto il percorso a piedi fin dalla dottoressa. Aveva attraversato il parco che circondava il castello, lasciando che quel freddo vento settembrino lo avvolgesse un po', permettendogli di respirare a pieni polmoni. Oslo era fredda, difficile. Forse temprava così i suoi cittadini e stava cercando di metterlo alla prova.

I medici gli avevano consigliato di fare lunghe passeggiate al verde e di rilassarsi, dicevano che avrebbero aiutato a riacquistare la sua memoria.
Così aveva provato a dar loro ascolto, passeggiando immerso nella natura, ogni giorno, per raggiungere l'ufficio della dottoressa Johansen. Dicevano anche che la terapia lo avrebbe aiutato, ma in realtà non sapeva neanche di cosa parlare con quella donna pronta ad ascoltarlo. Non poteva raccontarle delle sue passioni, dei suoi interessi o dei suoi difetti, non li conosceva nemmeno lui.

E se l'Aleksander di adesso fosse diverso da quello del passato?

Spesso si chiedeva se prima fosse stato un uomo elegante, altolocato o un uomo comune, qualsiasi, come uno dei tanti sconosciuti che incontrava in treno. Gli sarebbe piaciuto sapere di non essere un'ameba incapace di esprimere un pensiero. Ormai si sentiva quasi un parassita insidiatosi in quella vita. Come se se ne fosse appropriato illecitamente. Forse era un ragionamento stupido, ma non riusciva a capire nulla in quello stato della sua vita.

Al suo risveglio dal coma nessuno c'era stato accanto a lui, neanche fosse stato un fantasma da sempre. Un mese in coma e si era risvegliato in quella realtà senza nemmeno ricordare il proprio nome. Era strano cercare di descrivere quella sensazione di estraniamento. Guardare il proprio riflesso nello specchio e ritrovarsi uno sconosciuto di fronte.

Tutto ciò che aveva in mano era stato un portafoglio logoro, con pochi soldi, e la carta d'identità che gli ricordava chi fosse Aleksander Jørgensen. E da quel momento era scattata solo una domanda che non aveva ancora nessun tipo di risposta: chi diavolo era Aleksander Jørgensen? Si era chiesto più volte che tipo d'uomo dovesse essere stato, cosa facesse. Di cosa vivesse. Aveva scoperto di lavorare nelle stazioni di Oslo, di lavorare nella sicurezza agli accessi alla metropolitana per una compagnia di vigilanza privata. Non aveva nemmeno idea se avesse perso il lavoro dopo un mese di assenza in coma. Forse aveva scelto un lavoro adatto al suo fisico. Quando si era visto allo specchio aveva trovato davanti a sé un uomo alto, con barba e capelli inspidi e incolti, di un particolare biondo scuro, castano. La barba aveva filamenti rossicci, quasi rameici e gli occhi chiari illuminavano il volto scarno e provato. Nonostante un mese in coma, aveva mantenuto un fisico robusto, pur avendo perso qualche chilo. Certo i muscoli non erano tonici come prima, ma stava seguendo la dieta che i medici dell'ospedale gli avevano consigliato.

Non aveva avuto nemmeno il tempo di metabolizzare tutte quelle informazioni, che due poliziotti erano andati a fargli visita in ospedale. Erano giovani e con educazione e pazienza gli avevano dato indicazioni sul suo appartamento, dicendogli che fosse stato investito e avesse sbattuto la testa, dopo un'aggressione alla quale era riuscito a sfuggire. Poi con delicatezza e con i medici attorno, che potessero sedarlo in caso di crisi, lo avevano avvisato che sua moglie era stata uccisa e che presumibilmente era riuscito a scappare dal suo attentatore.

E allora altri dubbi si erano insinuati nella sua mente. Cos'aveva fatto di male Aleksander Jørgensen per essere quasi assassinato? E sua moglie? Chi era?

Si sentiva un mostro per non riuscire a piangere per la perdita dell'Amore della sua vita. Quella donna che aveva evidentemente deciso di sposare spinto da tanto desiderio e passione. E adesso cosa gli restava di lei?

Nulla, solo la sua lapide, senza nemmeno il ricordo di ciò che erano stati. Forse quella situazione lo avrebbe aiutato ad affrontare il dolore, ma come poteva farlo se si sentiva così apatico? Aveva anche vergogna di rivelare i suoi pensieri alla sua psicologa. Quale folle dimentica sua moglie? E se fosse stato un essere schivo e mostruoso?

Era lì fermo da almeno cinque minuti, in silenzio, ad osservare il via vai confuso della gente, che si accingeva ad andare a lavoro attraversando le strade di Oslo. «Sta piovendo...» sussurrò, guardando una giovane studentessa aprire l'ombrello, cercando di opporsi al vento forte. «Non ho l'ombrello con me.»

Non aveva la certezza di nulla, se non che non avesse un ombrello per ripararsi dalla pioggia.

«Un ombrello...c'è qualche ricordo legato a quest'immagine? Della tua infanzia magari.» la dottoressa Johansen si sistemò sulla propria poltrona, accavallando le gambe.

Si voltò a guardala distrattamente e scosse il capo, quasi come un automa. «Non ricordo nulla. E vorrei andarmene se non le dispiace, ci vediamo domani.»





























𝐀𝐧𝐠𝐨𝐥𝐢𝐧𝐨
Ho fatto questa follia di pubblicare il thriller senza aspettative, senza motivo, solo spinta da questa voglia di tornare a scrivere e ridare "vita" al mondo al quale stavo iniziando a dar forma.
Spero mi supporterete, altrimenti pazienza.
Mi sono cimentata nel fantasy, ma i thriller sono e saranno sempre casa per me.

Importante precisazione: voglio ringraziare Medeasmind da questo ai successivi capitoli. Senza di lei e del suo supporto, le scene in cui abbiamo la dottoressa sarebbero senza senso. Mi sono affidata non solo ad un'amica, ma ad un'esperta. Grazie ❤️.

Alla prossima settimana🖤

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